L’epoca moderna è impietosa con gli artisti anziani. Il logoramento dei mezzi linguistici, l’accanita tendenza alla fuga in avanti da più di un secolo ormai non lasciano più spazio alle lunghe parabole individuali.
Di discendenza scozzese e irlandese, come tutti i compositori americani dell’epoca che contano, Edward Mac Dowell (1861-1908) fu formato in Europa: a Parigi (dove ebbe contatti con Franck, Debussy e Massenet) e a Francoforte (dove fu allievo di Joachim Raff). Il compositore fu anche pianista, per cui lo strumento a tastiera occupa una parte estesa e centrale nella sua opera.
Una cosa risulta apparentemente inspiegabile nel destino della musica di Hector Berlioz: come mai la sua febbre creativa è stata capace di farci accettare tante e tali banalità di senso? Se leggiamo il programma letterario che l’autore stese a commento della Symphonie fantastique, la quale porta il sottotitolo Épisode de la vie d’un artiste, non possiamo non riconoscere la grossolanità di un’evocazione decaduta a feuilleton, in un pozzo di luoghi comuni che ci restituiscono l’immagine più vieta e consunta dell’artista in preda al sacro fuoco della rivelazione estetica, rappresentato nel suo ruolo esaltante genio e sregolatezza ed esprimente la tragedia come clamoroso vaneggiamento di furie scatenate.
Nel moderno panorama coreografico una posizione preminente è detenuta dagli Stati Uniti, che vi primeggiano da oltre un secolo. Il primo vistoso esempio di tale processo si lascia cogliere all’inizio del Novecento nell’azione di Isadora Duncan, diventata simbolo mitico della libertà (anche in senso politico e dell’emancipazione femminile) pur nel vagheggiamento di un ideale di danza classico ellenico.
Centro privilegiato d’interesse della musicologia internazionale, per la sua funzione predominante lungo l’arco di vari secoli, la musica italiana è da sempre sottoposta ad indagini critiche tendenti a stabilirne l’omogeneità. Non che manchi la considerazione delle diverse e spesso opposte «scuole» (napoletana e veneziana per l’opera, oppure veneziana, romana o fiorentina per la musica vocale), ma è evidente che i punti di riferimento per l’osservatore straniero si sono sempre ridotti agli elementi più appariscenti, lasciando in ombra differenziazione ulteriori che ancora sfuggono. In verità solo il grado di conoscenza legato al costume, all’esperienza maturata nella cultura regionale per non dire locale, alle finezze recondite della pratica linguistica, ecc., può restituire un’immagine più capillarmente articolata e quindi più profondamente aderente a una realtà estetica, sociale ed umana fra le più complesse.
L’impegno di Bach nella musica vocale, per quanto egli non fosse mai approdato all’opera teatrale, è cospicuo: passioni, oratori e cantate ne sono il vasto campo d’azione. La sua ricerca va dal semplice corale armonizzato alla sontuosità delle arie, grazie soprattutto alla novità dei testi poetici del Neumeister che introdusse in campo sacro tedesco le forme italiane del recitativo e dell’aria con da capo, incentivanti la valorizzazione degli spunti musicali.
All’inizio del XIII secolo apparsa come espressione lirico spirituale (si veda il laudario di Cortona dove tra l’altro il testo letterario risulta già configurato insieme alla musica), la lauda evolve verso forme drammatiche quando è fatta propria dalle confraternite di disciplinati ad Assisi, nel cuore della cultura francescana. Sorti quindi in Umbria, ma diffusisi poi nelle zone limitrofe fino all’Italia settentrionale, i disciplinati registravano quel profondo movimento di conversione collettiva testimoniato da fra’ Salimbene de Adam da Parma in questi termini: «E cantavano litanie e lodi, militi e pedoni, cittadini e contadini, ragazzi e vergini, vecchi insieme coi giovani. In tutte le città d’Italia sorse questa devozione e facevano soste nelle chiese e nelle piazze e non cessavano mai di cantare lodi al Signore».
La Création du monde, il celebre balletto composto da Darius Milhaud nel 1923, mirando a evocare la nascita del mondo, per mezzo del jazz introduce l’evocazione del primitivo. In che misura oggi tale senso possa giungere alle nostre orecchie è difficile dire. Certamente l’assuefazione ai modi sincopati, ai clangori degli strumenti a fiato, ai clichés armonici del jazz ci induce a percepire prioritariamente la componente edonistica di questa musica. A quel tempo invece le cose stavano altrimenti.
Il pianoforte nel Novecento non è più stato lo strumento principe che nel secolo diciannovesimo aveva dominato le sale da concerto: si può dire addirittura tranquillamente che nel catalogo delle opere di qualsiasi compositore ottocentesco le composizioni pianistiche occupavano un posto rilevante. Strumento romantico per eccellenza, nel senso che all’inizio del secolo (con Beethoven, Weber, Schubert, Chopin, Schumann) servì a individuare le corde dell’ineffabilità e alla fine ad abbandonarsi al florilegio di dolcezze e di languori proibiti, esso fu quasi rifiutato dagli innovatori del Novecento, probabilmente per la sua evidente compromissione con un’estetica ritenuta superata.
Nell’approccio alla musica non sempre il pubblico si rende conto dell’apporto determinante svolto dai supporti organizzativi alla sua diffusione. Teatri, enti concertistici d’altronde appaiono appena profilati persino negli studi monografici nel delineamento della fortuna di grandi e piccoli compositori, il cui destino sarebbe impensabile senza quei canali attraverso i quali fu ed è possibile la comunicazione. Attenzione ancora minore è riservata alla componente editoriale, attiva fin dal Cinquecento, ma che da più di due secoli si pone quale fattore di mediazione prioritario fra il compositore e la vita musicale.
Nato a Roma nel 1550 il nobile Emilio de’ Cavalieri si trasferì a Firenze nel 1588 dove ottenne dal granduca la sorveglianza su tutte le attività artistiche di quella corte. Nella capitale toscana il musicista nobiluomo fu impegnato, accanto a Luca Marenzio, Cristoforo Malvezzi, Giulio Caccini, Giovanni Bardi e Jacopo Peri, alla composizione dei celebri intermezzi per La pellegrina commissionati per celebrare le nozze di Ferdinando I nel 1589.
Due figure apparentemente lontane quali Ferruccio Busoni (1866-1924) e Ermanno Wolf-Ferrari (1876-1948) - entrambi tormentati dal problema della «doppia nazionalità» italiana e tedesca, culturale prima ancora che politica – si trovarono a vivere la questione dell’identità stilistica in maniera lacerante proprio negli anni in cui il nazionalismo rinasceva più acceso a frapporre barriere e pregiudizi culturali di non poco conto fra le varie tradizioni.
La musica, si sa, deve molto nel suo sviluppo al ruolo dei regnanti. In non pochi casi tale rapporto giunse al punto da identificare i suoi produttori nei regnanti stessi. Ce lo sancisce programmaticamente la Bibbia mostrandoci il re Davide con la lira in ruolo di cantore, in una condizione in cui la sua posizione di potere si coniuga tranquillamente con la funzione epica. In negativo la stessa situazione è riscontrabile nell’immagine tramandata di Nerone intonante il lamento su Roma da lui stesso incendiata, in un paradossale esercizio del potere dove l’atto politico appare asservito all’ideale estetico in un rovesciamento delle parti.
La musica, come ogni altro fatto pubblico, si nutre anche di casi e di polemiche. Una di queste, risalente al gennaio 1989, fu la rivelazione del compositore italiano Vieri Tosatti pubblicata in prima pagina sul «Il Giornale della Musica»: «Giacinto Scelsi c’est moi». Dove stava il caso? Nel fatto che, a pochi mesi dalla morte dell’ottantaduenne Scelsi veniva dichiarato che la sua musica era stata scritta da un altro, suscitando scalpore nell’ambiente musicale internazionale che nel nome di Scelsi aveva individuato un nuovo punto fermo, un nucleo di soluzioni estetiche da cui far addirittura dipartire un ulteriore sviluppo della musica.
«Suonare bene Scarlatti – come ha sostenuto Massimo Mila – è qualche cosa di diverso dal suonare bene Bach o dal suonare bene Mozart: è un tipo di prestazione artistica particolare che non può essere sostituito con altre». Il complesso di qualità pianistiche riunito in questa musica costituisce una summa in grado di porla emblematicamente al di fuori del tempo come valore assoluto, che la circostanza che ci ha tramandato tali capolavori come messaggi in una bottiglia staccati dalla biografia del musicista ha certamente amplificato a mito.
Non so esattamente a quando risalga il primo concorso di esecuzione musicale, ma è un fatto che i concorsi in genere hanno condizionato l’intera vita musicale del Novecento. Il principio del concorso, nel suo far appello alla competitività, sottende un concetto di tipo «sportivo» ed è naturale che si sia imposto come abitudine nella stessa epoca che ha inventato le olimpiadi e le World Series.
Quando nel 1913 Luigi Russolo, il geniale pittore futurista consacratosi alla musica, ideò il primo «intonarumori», non poteva certo immaginare che un giorno le sue teorie sull’ “arte dei rumori” avrebbero potuto trovare applicazione superando gli ostacoli di uno strumentale artigianalmente precario. È un fatto però che, quando Pierre Schaeffer nel 1948 a Parigi iniziò alla radio francese i suoi esperimenti di «musique concrète», cioè di composizione sonora sulla base di rumori registrati e manipolati, inconsapevolmente non faceva altro che sviluppare un’indicazione formulata e attuata da Russolo più di trent’anni prima. Qualche anno dopo ne nacque addirittura una polemica, suscitata da Maurice Lemaître il quale, non trovando mai menzionato il nome di Russolo negli scritti di Schaeffer, giunse addirittura ad accusarlo di disonestà intellettuale.
Nel vastissimo ambito dei concerti vivaldiani non pochi sono i momenti in cui il musicista ha deliberatamente espresso il suo interesse per l’«imitazione della natura». Almeno ventotto composizioni portano un titolo specifico che si richiama ad evocazioni naturalistiche (Alla rustica, La Tempesta di Mare), a condizioni d’animo (L’amoroso, L’inquietudine, Il sospetto) oppure ad intenzionali delimitazioni stilistiche (Madrigalesco, Concerto funebre), sulla base di una consuetudine di origine rinascimentale che fino all’Ottocento mantenne viva nella teoria sull’arte dei suoni la contraddizione tra musica considerata nei suoi valori autonomi di linguaggio che nel proprio ordine interno esaurisce le sue finalità espressive e musica adibita a rispecchiamento di realtà ad essa esterne sviluppando particolari capacità mimetiche. Potrà stupire che, a più di un secolo di distanza dalla critica lanciata da Vincenzo Galilei (Dialogo della Musica Antica et della Moderna, 1581) contro gli eccessi del descrizionismo nei madrigali del tempo. sopravvivesse il gusto di una musica fondata su principî di rappresentazione.
Da sempre la musica è legata alle istituzioni, ma non da sempre i musicisti si interrogano sulle istituzioni. Ciò avviene solo da quando si è cominciato a vedere nell’apparato istituzionale non più l’emblema di un potere dato al dì là della volontà dei governanti e dei governati, bensì lo strumento di una progettualità basata sul consenso manifestato nella collettività. È dunque nella Rivoluzione francese che va individuato il nucleo di una presa di coscienza in grado di cogliere la dipendenza dell’espressione artistica dal suo ruolo nella società e dalle condizioni d’impiego e di diffusione postele dalle istituzioni. È nella Rivoluzione francese, nel relativismo di una situazione aperta alle prospettive di costruzione dell’utopia, che si apre uno spazio di confronto tra la condizione effettuale dell’arte e la sua possibile funzione alternativa all’ordine dato.
Ernest Ansermet, notoriamente apocalittico nei confronti del destino della musica moderna, nei compositori affacciatisi sulla scena europea nel dopoguerra vedeva solo dei «faux-génies», accomunando in questa categoria sia gli esponenti dell’avanguardia sia i moderati. A un solo musicista egli riconosceva il titolo di genio, a Benjamin Britten, rilevando nella sua intera opera e fin nelle prove della gioventù una spiccata qualità artistica. È questo probabilmente il giudizio più generoso espresso su di un compositore non solo ritenuto generalmente eclettico e marginale rispetto agli sviluppi della musica del secondo Novecento, ma egli stesso cresciuto con vocazione all’isolamento in una posizione personale accentuata dalla collocazione insulare di un’Inghilterra la quale oltretutto, pur avendo profuso sull’altare della musica la magnificenza di alti riti, dall’epoca di Purcell non era più riuscita a produrre una figura di musicista in grado di competere con i sacri mostri del continente. Britten risulta quindi personalità doppiamente isolata, sia come scelta estetica sia come capacità di innestarsi su una tradizione preesistente.