• Diario d'ascolto
  • 15 Luglio 2023

    LA VIA MEDIANA DELLA MUSICA IN LOMBARDIA

      Carlo Piccardi

    Centro privilegiato d’interesse della musicologia internazionale, per la sua funzione predominante lungo l’arco di vari secoli, la musica italiana è da sempre sottoposta ad indagini critiche tendenti a stabilirne l’omogeneità. Non che manchi la considerazione delle diverse e spesso opposte «scuole» (napoletana e veneziana per l’opera, oppure veneziana, romana o fiorentina per la musica vocale), ma è evidente che i punti di riferimento per l’osservatore straniero si sono sempre ridotti agli elementi più appariscenti, lasciando in ombra differenziazione ulteriori che ancora sfuggono. In verità solo il grado di conoscenza legato al costume, all’esperienza maturata nella cultura regionale per non dire locale, alle finezze recondite della pratica linguistica, ecc., può restituire un’immagine più capillarmente articolata e quindi più profondamente aderente a una realtà estetica, sociale ed umana fra le più complesse.

    Una realtà rimasta piuttosto in ombra è quella del concetto di «musica lombarda», tema relativamente nuovo considerando che la nozione corrente non distingue ancora con chiarezza filoni separati nell’ambito padano-veneto. Semmai nel nome del grande Monteverdi, cremonese di nascita e veneziano d’adozione, si sarebbe indotti a un approccio unitario a tale situazione.

     CLAUDIO MONTEBERDI
    Claudio Monteverdi

    In verità Venezia vi si conferma in quanto punto di riferimento più come sbocco editoriale, cioè come canale obbligato per uscire dai limiti regionali, che come modello estetico esclusivo. La città lagunare, che allora contava 150 stamperie molte delle quali di musica, forniva servizi editoriali di portata europea. Stampare musica a Venezia significava la possibilità di irradiamento sull’intero continente. La proporzione di 1:8 tra Lombardia e Venezia nel campo della pubblicazione musicale non deve quindi né stupire né scoraggiare; semmai va analizzata nei ruoli diversi assunti. Nei cataloghi degli stampatori lombardi prevale infatti la musica religiosa, sintomo di una situazione originata dall’esperienza di Carlo Borromeo, che lasciò segni profondi in campo musicale sia per il richiamo al rigore delle regole sancite dal Concilio di Trento sia per il bando degli strumenti (tranne l’organo) dal luogo sacro, fatto che a Milano impedì lo sviluppo di una musica strumentale autonoma e anche dell’opera teatrale.

     SAN CARLO BORROMEOCarlo Borromeo

    Accanto alla produzione mottettistica a più voci, mai venuta meno su tutto l’arco del secolo, si fece tuttavia immediatamente largo il concerto ecclesiastico a uno, due, tre o quattro voci con basso continuo all’organo, la cui diffusione in Lombardia a partire dalla pubblicazione dei Cento Concerti ecclesiastici del mantovano Ludovico Viadana (1602) non solo sta ad indicare una rapida fortuna, ma soprattutto un grado di compenetrazione nell’ambiente straordinariamente profondo. Autori di concerti ecclesiastici quali G. P. Cima, G. B. Crivelli, G. Ghizzolo, A. Grandi, T. Merula, G. Pietragrua, B. Pallavicino, ecc. provengono tutti dall’area lombarda a significare la configurazione di una maniera che non si riconosceva né nella solenne austerità della polifonia romana, né nella magnificenza dello stile concertato veneziano, e neppure nelle intimità espressive della monodia fiorentina. Il concerto ecclesiastico di tradizione lombarda rifugge dai contrasti troppo palesi ponendosi a metà strada: la polifonia non è negata dispiegandosi fino a 5 voci, mentre le componenti monodiche sono adattate a combinazioni dove raramente la voce sola domina scopertamente. 

     VIADANA
    Ludovico Viadana

    Denis Arnold ha constatato come il filone musicale lombardo rifugga dagli sperimentalismi e dalle soluzioni radicali, cercando di definire una mediocritas in grado di sposare strettamente le esigenze del tempo senza sopravanzarle. Per una corretta e completa messa a fuoco del problema non basta tuttavia la considerazione dello stile. Tale stimolante concetto di via mediana acquista infatti il suo pieno significato solo se rapportato alle condizioni sociali e culturali in cui i musicisti si trovavano ad operare. Jerome Roche ha per esempio ormai da tempo chiarito come il concerto ecclesiastico del Viadana, per quanto cronologicamente parallelo, non abbia nulla in comune con le rivoluzionarie pratiche monodiche fiorentine: se la sofisticata ricerca del nuovo tipica dell’ambiente cortigiano sovrintende alle audaci iniziative musicali di Caccini, Peri, ecc., nel caso del Viadana la soluzione del piccolo concertato si impone come risposta alle necessità pratiche delle chiese di provincia dotate di pochi cantori, non quindi come elemento di rottura bensì di adattamento a una situazione. Ciò spiega come le raffinatezze della monodia fiorentina uscissero dal proprio luogo d’origine per guadagnarsi una circolazione esclusiva nelle corti, mentre lo stile del Viadana, apparentemente consimile e comunque portatore di elementi monodici, conoscesse una diffusione assai più periferica, fin nelle chiese di campagna sprovviste di cappella musicale e dotate di soli due o tre cantori.

     CENTO CANTI ECCLESIASTICI

    Senza pretendere di tracciare il quadro organico di una presunta esperienza musicale lombarda autonoma, da questi rilevamenti è quindi possibile estrarre lineamenti che mostrano come in Lombardia l’attività musicale del tempo non si scostasse dai compiti funzionali (ruolo della musica nel culto) e privilegiasse le soluzioni pragmatiche consentendo di riconoscere la perfetta integrazione della musica negli altri filoni culturali della regione. Se infatti è giustificato parlare di pittura lombarda come di affermazione di un modo di osservare la realtà nel particolare e di letteratura lombarda come di testimonianza civile impegnata a cogliere i significati sociali e morali della vita quotidiana, è lecito ammettere un coefficiente di «lombardità» in manifestazioni musicali che probabilmente più di altre forme elaborate in Italia svolsero compiti sociali profondi avendo scelto la chiesa (non quella maggiore di rappresentanza del grande potere ma quella della devozione quotidiana) come luogo di contatto con il popolo tutto, verificando un raggio di comunicazione sconosciuta alle altre espressioni musicali del tempo per la sua vastità.

    A gettare nuova luce su questa ipotesi ha provveduto Miroslaw Perz, attirando l’attenzione sul maggiore documento testimoniante il grado di penetrazione del gusto musicale italiano in terra polacca: l’intavolatura secentesca di Pelplin presso Danzica, contenente ben 800 composizioni di cui la parte italiana costituisce il 53%. Orbene di questa porzione non già i romani (10%) o i veneziani (14%), cioè gli autori allora internazionalmente più noti, fanno la parte del leone, bensì i maestri lombardi (56%). Come interpretare tale massiccia presenza – sostiene il ricercatore polacco – se non considerando il tipo di cultura sviluppato nell’ambiente cattolico baltico a contatto diretto col versante protestante svedese e tedesco, e quindi sottoposto a pressioni inducenti alla ricerca di adeguate risposte in una cattolicità non già di parata bensì sostanziale e sostanziata da espressioni in grado di competere con l’essenzialità dell’espressione musicale luterana, conferma ipotetica (ma forse illuminante più di qualsiasi altra) dell’integrità funzionale della musica religiosa lombarda che a suo modo Carlo Borromeo volle di frontiera e concorrenziale sia rispetto alle sontuosità romane e veneziane sia rispetto all’elementarità dei canti protestanti?