Due figure apparentemente lontane quali Ferruccio Busoni (1866-1924) e Ermanno Wolf-Ferrari (1876-1948) - entrambi tormentati dal problema della «doppia nazionalità» italiana e tedesca, culturale prima ancora che politica – si trovarono a vivere la questione dell’identità stilistica in maniera lacerante proprio negli anni in cui il nazionalismo rinasceva più acceso a frapporre barriere e pregiudizi culturali di non poco conto fra le varie tradizioni.
La musica, si sa, deve molto nel suo sviluppo al ruolo dei regnanti. In non pochi casi tale rapporto giunse al punto da identificare i suoi produttori nei regnanti stessi. Ce lo sancisce programmaticamente la Bibbia mostrandoci il re Davide con la lira in ruolo di cantore, in una condizione in cui la sua posizione di potere si coniuga tranquillamente con la funzione epica. In negativo la stessa situazione è riscontrabile nell’immagine tramandata di Nerone intonante il lamento su Roma da lui stesso incendiata, in un paradossale esercizio del potere dove l’atto politico appare asservito all’ideale estetico in un rovesciamento delle parti.
La musica, come ogni altro fatto pubblico, si nutre anche di casi e di polemiche. Una di queste, risalente al gennaio 1989, fu la rivelazione del compositore italiano Vieri Tosatti pubblicata in prima pagina sul «Il Giornale della Musica»: «Giacinto Scelsi c’est moi». Dove stava il caso? Nel fatto che, a pochi mesi dalla morte dell’ottantaduenne Scelsi veniva dichiarato che la sua musica era stata scritta da un altro, suscitando scalpore nell’ambiente musicale internazionale che nel nome di Scelsi aveva individuato un nuovo punto fermo, un nucleo di soluzioni estetiche da cui far addirittura dipartire un ulteriore sviluppo della musica.
«Suonare bene Scarlatti – come ha sostenuto Massimo Mila – è qualche cosa di diverso dal suonare bene Bach o dal suonare bene Mozart: è un tipo di prestazione artistica particolare che non può essere sostituito con altre». Il complesso di qualità pianistiche riunito in questa musica costituisce una summa in grado di porla emblematicamente al di fuori del tempo come valore assoluto, che la circostanza che ci ha tramandato tali capolavori come messaggi in una bottiglia staccati dalla biografia del musicista ha certamente amplificato a mito.
Non so esattamente a quando risalga il primo concorso di esecuzione musicale, ma è un fatto che i concorsi in genere hanno condizionato l’intera vita musicale del Novecento. Il principio del concorso, nel suo far appello alla competitività, sottende un concetto di tipo «sportivo» ed è naturale che si sia imposto come abitudine nella stessa epoca che ha inventato le olimpiadi e le World Series.
Quando nel 1913 Luigi Russolo, il geniale pittore futurista consacratosi alla musica, ideò il primo «intonarumori», non poteva certo immaginare che un giorno le sue teorie sull’ “arte dei rumori” avrebbero potuto trovare applicazione superando gli ostacoli di uno strumentale artigianalmente precario. È un fatto però che, quando Pierre Schaeffer nel 1948 a Parigi iniziò alla radio francese i suoi esperimenti di «musique concrète», cioè di composizione sonora sulla base di rumori registrati e manipolati, inconsapevolmente non faceva altro che sviluppare un’indicazione formulata e attuata da Russolo più di trent’anni prima. Qualche anno dopo ne nacque addirittura una polemica, suscitata da Maurice Lemaître il quale, non trovando mai menzionato il nome di Russolo negli scritti di Schaeffer, giunse addirittura ad accusarlo di disonestà intellettuale.
Nel vastissimo ambito dei concerti vivaldiani non pochi sono i momenti in cui il musicista ha deliberatamente espresso il suo interesse per l’«imitazione della natura». Almeno ventotto composizioni portano un titolo specifico che si richiama ad evocazioni naturalistiche (Alla rustica, La Tempesta di Mare), a condizioni d’animo (L’amoroso, L’inquietudine, Il sospetto) oppure ad intenzionali delimitazioni stilistiche (Madrigalesco, Concerto funebre), sulla base di una consuetudine di origine rinascimentale che fino all’Ottocento mantenne viva nella teoria sull’arte dei suoni la contraddizione tra musica considerata nei suoi valori autonomi di linguaggio che nel proprio ordine interno esaurisce le sue finalità espressive e musica adibita a rispecchiamento di realtà ad essa esterne sviluppando particolari capacità mimetiche. Potrà stupire che, a più di un secolo di distanza dalla critica lanciata da Vincenzo Galilei (Dialogo della Musica Antica et della Moderna, 1581) contro gli eccessi del descrizionismo nei madrigali del tempo. sopravvivesse il gusto di una musica fondata su principî di rappresentazione.
Da sempre la musica è legata alle istituzioni, ma non da sempre i musicisti si interrogano sulle istituzioni. Ciò avviene solo da quando si è cominciato a vedere nell’apparato istituzionale non più l’emblema di un potere dato al dì là della volontà dei governanti e dei governati, bensì lo strumento di una progettualità basata sul consenso manifestato nella collettività. È dunque nella Rivoluzione francese che va individuato il nucleo di una presa di coscienza in grado di cogliere la dipendenza dell’espressione artistica dal suo ruolo nella società e dalle condizioni d’impiego e di diffusione postele dalle istituzioni. È nella Rivoluzione francese, nel relativismo di una situazione aperta alle prospettive di costruzione dell’utopia, che si apre uno spazio di confronto tra la condizione effettuale dell’arte e la sua possibile funzione alternativa all’ordine dato.
Ernest Ansermet, notoriamente apocalittico nei confronti del destino della musica moderna, nei compositori affacciatisi sulla scena europea nel dopoguerra vedeva solo dei «faux-génies», accomunando in questa categoria sia gli esponenti dell’avanguardia sia i moderati. A un solo musicista egli riconosceva il titolo di genio, a Benjamin Britten, rilevando nella sua intera opera e fin nelle prove della gioventù una spiccata qualità artistica. È questo probabilmente il giudizio più generoso espresso su di un compositore non solo ritenuto generalmente eclettico e marginale rispetto agli sviluppi della musica del secondo Novecento, ma egli stesso cresciuto con vocazione all’isolamento in una posizione personale accentuata dalla collocazione insulare di un’Inghilterra la quale oltretutto, pur avendo profuso sull’altare della musica la magnificenza di alti riti, dall’epoca di Purcell non era più riuscita a produrre una figura di musicista in grado di competere con i sacri mostri del continente. Britten risulta quindi personalità doppiamente isolata, sia come scelta estetica sia come capacità di innestarsi su una tradizione preesistente.
Come ogni avanguardia che si rispetti il «Groupe des Six» ebbe vita breve, non più di sette anni a partire dal 1918, con un primo periodo (fino al 1921) di coerente messa in pratica degli intenti comunitari, un momento di perdita di omogeneità a partire dal 1922 e la dissoluzione completa alla morte di Eric Satie nel 1925. Già la sua denominazione può spiegare questo destino: il termine fu lanciato dal giornalista Henri Collet all’insaputa degli stessi compositori (Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Georges Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre) riuniti solo dall’amicizia e dall’entusiasmo per il nuovo.
Molti studiosi ritengono Brahms il continuatore di Beethoven e del classicismo viennese. Tuttavia, a un esame più attento, questo giudizio si rivela piuttosto infondato. Infatti, in tale giudizio duro a morire, non si è mai tenuto conto dell’estraneità a Vienna di un musicista sceso dal nord, che aveva lasciato dietro di sé il grigiore e il freddo delle brume anseatiche.
Vi sono artisti sui quali il luogo comune ha agito con prepotenza a volte fastidiosa, ma che dal luogo comune diventato popolare ricavano illuminazione innegabile. Nel centenario della nascita di Vincenzo Bellini fu ad esempio facile a Gabriele D’Annunzio individuare il tema su cui tessere l’ode celebrativa, ritrovando nella «semplice, nuda e sola... melodia che vince ogni parola» il denominatore di un’estetica di evidenza allarmante. Ma appunto, nonostante gli sforzi che si possono dispiegare alla ricerca di livelli di maggiore problematicità, il discorso sul maestro catanese rimane ancorato a quel fondamento. Fragile fondamento, si è sempre detto, tanto da rilevare l’insignificanza di Bellini come codificatore di una poetica valida al di là del caso specifico.
La storia della musica moderna è anche storia di costume, perciò i manuali non mancano di soffermarsi sui tafferugli scatenati dalle celebri prime esecuzioni di Schönberg, Stravinsky, Varèse, ecc. L’immagine «tellurica» del Sacre du Printemps, determinata dalle taglienti sonorità di una musica che per prima lasciava dietro di sé gli impasti timbrici vaporosi cari alla scuola francese d’inizio secolo, ci è stata senz’altro tramandata anche dall’evento della rappresentazione parigina del 29 maggio 1913 e dal tumulto di pubblico che ne sortì, immancabilmente citato per misurare le capacità provocatorie di una composizione considerata a giusto titolo uno spartiacque. Il discorso potrebbe anche essere generalizzato e, passando per il celebre passo della Terza sinfonia beethoveniana contestato dai primi ascoltatori, risalire almeno fino alle censure dell’Artusi alla Cruda Amarilli monteverdiana.
Se Luigi Boccherini fosse gloria tedesca anziché italiana, oggi avremmo a disposizione probabilmente una ponderosa sua opera omnia dalla quale farci un’idea dei contributi dati alla musica europea. Invece occorre accontentarsi di un catalogo delle opere e di sparse edizioni moderne che rispecchiano solo parzialmente quella che fu la torrenziale produzione di quartetti, quintetti, sestetti, sinfonie, concerti, ecc. che lo rese celebre in tutta Europa.
È destino di coloro che vissero a cavallo di due mondi, di due distinte situazioni estetiche, quello di apparire scarsamente riconoscibili e quindi di non poter offrirsi a immediata sintesi di giudizio. Se Mahler riuscì a essere capito e a diventare popolare solo mezzo secolo dopo la sua scomparsa ciò è da imputare sicuramente a questo fatto, che permette alla sua fisionomia di trasparire pienamente solo a distanza di tempo, dopo che l’epoca dei confronti con il suo immediato passato è ormai giunta ad operare decantazioni definitive. Esatto contemporaneo di Mahler e non inferiore alla sua grandezza, Hugo Wolf non ha comunque ancora trovato il suo momento, rimanendo confinato nel limbo degli epigoni che brillano di luce riflessa.
Sullo scorcio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, entrato profondamente in crisi il «positivismo» strutturale che svolse fino alle più assurde ed estreme conseguenze l’idea seriale, l’interesse dei moderni compositori, ormai predisposto ad accogliere senza più riserve le componenti estemporanee del fatto musicale, iniziò quel processo di anatomia dei mezzi meccanici utilizzati per produrre musica che in breve tempo ristabilì l’antico equilibrio tra compositore e esecutore e che conseguentemente recuperò pure l’alone di mito destinato ad accompagnare la figura dell’interprete almeno dall’Ottocento in poi, quell’interprete che era rimasto esautorato nella ricerca tutta rivolta ai valori astratti dell’immediato periodo postweberniano.
Bertolt Brecht e Kurt Weill autori di un balletto? Nella loro crociata contro l’«arte culinaria», contro le espressioni consolatorie, già il loro approdo all’opera (Ascesa e caduta della città di Mahagonny, 1930) avvenne fra mille cautele e trasformazioni del modello operistico di tipo illusionistico. Figurarsi quindi il balletto, che fra le arti dello spettacolo rappresenta la manifestazione più evasiva, più svincolata dal reale! Eppure l’incontro avvenne nel 1933 con la composizione de I sette peccati capitali. E si trattò di un doppio incontro.
In un’intervista rilasciata a Jean-Claude Piguet nel 1963 così Ernest Ansermet si espresse: «Fino alla mia generazione compresa, i direttori d’orchestra possedevano in generale una formazione musicale nazionale, e ciò spiega il fatto che si consacrassero a un ben determinato repertorio. Per questo motivo si può sostenere che potessero facilmente cogliere il senso della musica nella quale erano educati (...).
Il primo incontro di Bach con il pianoforte avvenne probabilmente nel 1726 su uno strumento costruito da Gottfried Silbermann, che non gli piacque. Un altro incontro dev’essere avvenuto in occasione dell’invito a Potsdam dove poté visitare la collezione dei nuovi strumenti posseduti da Federico II. È anzi probabile che il Ricercare a 3 dell’Offerta musicale venisse improvvisato da Bach su un pianoforte Silbermann della raccolta regia. Al di là di queste occasioni non è accertata nessuna prova dell’interesse di Bach per lo strumento che sarebbe diventato uno dei principali veicoli della sua musica.
Il riso praticato dai moderni non è quella manifestazione in tutto liberatoria e rigenerante conosciuta dagli antichi, per i quali poteva ancora valere la psicologia dello sdoppiamento della personalità, la coesistenza allo stesso livello di coscienza di leggero e di grave, di serio e di faceto, di nobile e di umile. Dopo Mozart non è più possibile mantenere distinti in separato ordine i due piani espressivi: il rovescio di senso, che prima nella parodia confermava il modello, non può più attuarsi in una situazione di compenetrazione degli estremi dove all’adeguamento funzionale si sostituisce l’ambiguità. Concordando con Karl Barth siamo infatti indotti a riconoscere come in Mozart «quanto vi è di grave è come se levitasse e quanto vi è di lieve ha un peso infinito».