Alla gioviale cerchia del divertimento musicale cresciuta intorno a Schubert il modo innocuo in cui si profilava, sulla spinta della gioia di vivere e dell’edonismo tipicamente viennese, non bastava a sottrarla all’attenzione dell’occhiuto capo della polizia Sedlnitzky. Una sera in cui Schubert con gli amici era riunito in casa di Johann Senn irruppero gli sbirri a perquisire l’appartamento. Ne nacque l’imputazione di appartenenza ad associazione studentesca illegale, partecipazione a una riunione vietata ed “emulazione della vita degli studenti tedeschi”. Schubert e altri se la cavarono con l’accusa di insulto a pubblico ufficiale. Senn fu arrestato e trattenuto in carcere per quattordici mesi. A distruggere la sua carriera era bastata la frase colta nel diario di un suo compagno: “Senn è l’unica persona che ritengo capace di morire per un’idea”. Nutrire fede in un ideale a quel tempo e in quel luogo era una colpa che poteva stroncare il destino di un individuo.
L’Italia, si sa, fu una delle ultime nazioni in Europa a costituirsi politicamente in quanto stato. Mentre i regni di Francia, di Spagna e d’Inghilterra possono vantare un’esistenza secolare, essa ha atteso secoli per superare i particolarismi e, avendo raggiunto l’unità politica solo nell’Ottocento, è da considerare una “giovane” nazione che la storia successiva oltretutto (le guerre coloniali, la prima guerra mondiale, il fascismo e la resistenza) ha rivelato incompiuta nel suo “risorgimento”.
Sicuramente il primo contatto degli europei con la musica americana avvenne all’ascolto della Sinfonia “dal nuovo mondo” (1893) di Antonin Dvořák che era sbarcato nel 1892 a New York per dirigervi il neocostituito conservatorio. Se il grande compositore boemo, assediato dai giornalisti, parlò spesso del valore delle melodie dei negri a cui si era ispirato (“Vi scopro ciò che è necessario per far fiorire una grande e nobile scuola nazionale”) è però la musica degli indiani quella che nella sua sinfonia vanta una presenza maggiore. Il suo secondo movimento si ispira dichiaratamente al popolare poema di Longfellow (Hiawatha) mentre lo scherzo, nel suo incitato galoppare, rimanda a feste e a danze indiane nella foresta. Il primo sentore musicale d’America non venne quindi dal ritmico e fragoroso prorompere delle espressioni degli ex schiavi negri (ragtime, jazz, ecc.), che avrebbero conquistato l’Europa solo due decenni dopo, bensì da manifestazioni più flebili e lontane che stimolavano la riflessione sulla natura selvaggia ai confini della ‘civiltà’.
La musica è fra le espressioni artistiche quella che più di ogni altra si dimostra in grado di affermare la sua autonomia di senso. Nel momento stesso in cui viene assegnata a compiti sociali, in cui viene a svolgere funzioni persino prosaiche, essa rivela la sua capacità di sfuggire all’abbraccio del reale per conservare un coefficiente di imponderabilità che ne fa una manifestazione conturbante e temibile.
I trattati di storia della musica ci insegnano che molta musica strumentale deriva dalla danza: la gagliarda, la sarabanda, la corrente, la ciaccona, la passacaglia prima di diventare forme musicali autonome erano danze vere e proprie. Il minuetto, prima di trovare collocazione come tempo di sonata, di quartetto, di sinfonia, viveva già come danza. Non esiste però danza più del valzer che sia riuscita a impregnare di sé la musica di un intero secolo.
L’Istoria musicale dovrà un giorno registrare che nella tal epoca, alla morte di un Uomo celebre, tutta l’arte italiana si riunì per eseguire nel San Petronio di Bologna una Messa da morto composta espressamente da molti Maestri, il cui originale si conserva sotto sigillo nel Liceo di Bologna.
Se volessimo indicare un genere in cui sia possibile sorprendere la precisa formulazione dell’evolversi del linguaggio musicale, questo è il quartetto per archi. È evidente che la storia della musica non va considerata settorialmente, tuttavia un colpo d’occhio capace di isolare il particolare nel generale può portare a illuminazioni più eloquenti di un rigoroso sistema di osservazione.
Schumann, il quale in un certo senso può essere considerato lo scopritore di Brahms avendogli dedicato nel 1853 un famoso articolo sulla “Neue Zeitschrift für Musik”, è noto anche per aver intravisto nelle sonate per pianoforte di Brahms delle «sinfonie in potenza».
Al gennaio del 1788 risale La battaglia (K 535), contraddanza composta da Mozart un mese prima che Giuseppe II dichiarasse guerra ai Turchi. Il clamore della percussione «alla turca» e il penetrante suono dell’ottavino che attraversano le trame di questa svagata musica da ballo, destinata proprio a quell’imperatore, ne erano quindi il preannuncio, tant’è che la “Wiener Zeitung” ribattezzò la modesta composizione mozartiana col titolo L’assedio di Belgrado.
L’interesse di Darius Milhaud per il cinema, benché non più documentabile a causa della perdita della partitura, risale al 1925, quando compose la musica per L’inhumaine di Marcel L’Herbier.
Ci può essere gloria per un compositore di musica da film? Intendo la gloria vera, non quella commerciale legata a motivi indovinati destinati a fare il giro del mondo sulle correnti della moda e poi ad essere dimenticati con l’estinguersi della sua funzione trainante. Il discorso è complesso e richiederebbe una risposta articolata, anche se il sospetto che la musica cinematografica rimanga un accessorio incapace di significato autonomo si impone con prepotenza.
Nei suoi ottantacinque anni di vita Richard Strauss si trovò a essere testimone dell’ascesa e della caduta della Germania, dapprima come affermazione e scomparsa dell’impero bismarckiano, poi come sopraffazione del potere da parte di Hitler e della relativa disfatta.
Nessun compositore al pari di Bach (che trascriveva Palestrina, Frescobaldi, Vivaldi, ecc.) si è mai sentito sollecitato a convivere con ciò che era diverso dal suo linguaggio e dalla sua maniera. Senza attendere il giudizio dei critici è proprio in quest’ambito che la posizione di Bach, confrontata con premesse estetiche diverse (perfino opposte alla sua), viene messa a fuoco dall’autore stesso in una prospettiva dialetticamente motivata.
Se volessimo accertare la consistenza detenuta dalla musica italiana del Novecento presso il pubblico, dalla morte di Puccini in poi, rimarremmo piuttosto delusi.
Ogni periodo storico ha compiuto identificazioni in tipi letterari determinati, alcune volte ai limiti del mito come avvenne per la vicenda di Orfeo, regolarmente celebrata, cantata e messa in scena dalla prima fase della poesia rinascimentale fino alla nascita dell’opera in musica e oltre. Nella sfaccettata situazione estetica della ‘Fin du siècle’ è altrettanto rilevante la costanza del riferimento al capolavoro di Maurice Maeterlinck, all’intuizione lirica di Pelléas et Mélisande (1892) che ossessionò i musicisti del tempo a varie latitudini.
Il corpus dei concerti per clavicembalo di Bach risale al periodo di Lipsia, al periodo dell’educazione dei figli, due dei quali riconosciuti fra i maggiori esponenti dello sviluppo dell’arte clavicembalistica settecentesca.
La musica che arriva al pubblico non è soltanto il risultato di un processo creativo individuale ma, al di là del suo significato come manifestazione del radicamento nel contesto collettivo della comunicazione, come frutto di un sistema di produzione articolato su vari livelli.
Fra le forme storiche di dittatura il nazismo si distinse per la ferrea applicazione di principî che, in campo artistico e culturale, non lasciarono margini di compromesso.
Antonio Stradivari (1644-1737), celebratissimo già in vita per la bellezza e la perfezione dei suoi prodotti, alimentò subito la fantasia popolare. I suoi violini, risultato di supremo artigianato, non poterono mai essere imitati da nessuno.
L’elisir d’amore è un capolavoro in più sensi. Lo è innanzitutto come momento emergente nel vasto corpus compositivo donizettiano, che ha tramandato al repertorio meno di una decina di opere sulla settantina effettivamente composte.