• Diario d'ascolto
  • 16 Agosto 2023

    GLI ECCESSI DI BERLIOZ

      Carlo Piccardi

    Una cosa risulta apparentemente inspiegabile nel destino della musica di Hector Berlioz: come mai la sua febbre creativa è stata capace di farci accettare tante e tali banalità di senso? Se leggiamo il programma letterario che l’autore stese a commento della Symphonie fantastique, la quale porta il sottotitolo Épisode de la vie d’un artiste, non possiamo non riconoscere la grossolanità di un’evocazione decaduta a feuilleton, in un pozzo di luoghi comuni che ci restituiscono l’immagine più vieta e consunta dell’artista in preda al sacro fuoco della rivelazione estetica, rappresentato nel suo ruolo esaltante genio e sregolatezza ed esprimente la tragedia come clamoroso vaneggiamento di furie scatenate.

    La musica stessa trova radice in tale rappresentazione, eppure non solo è perdonabile ma giustamente è considerata come un traguardo determinante dell’estetica ottocentesca. Ciò che nessuno è disposto ad accettare in tutti quegli autori che hanno infiorato la loro musica di eccessi romanzeschi, noi lo ammettiamo e lo apprezziamo in Berlioz. Eppure non esiste composizione più farraginosa della Symphonie fantastique, minuziosa e pedante nel descrizionismo, ambiziosa nel contenuto divinatorio e farneticante nell’esaltazione individualistica.

    SINFONIA FANTASTICA INIZIO

    La risposta all’interrogativo non ha niente di remoto se siamo capaci di misurare il terreno sul quale è avvenuto il mostruoso parto della fantasia di Berlioz. Ciò che rimarrà sempre impressionante è l’arrabbiata coerenza con cui il musicista ha saputo impostare il suo esplosivo discorso, superando come nessun altro ha mai saputo fare compromessi ed esitazioni.
    Berlio
    z ha esorcizzato il «cattivo gusto» risolvendo il processo compositivo in follia inventiva, laddove gli imitatori sono caduti ignominosamente cercando di arginare l’arbitrio e la sfrenatezza nella ricerca di superflue giustificazioni per mezzo di compromessi con la tradizione del bello in musica. Berlioz non rifiuta la tradizione, anzi si dimostra un formidabile conoscitore del passato e non si lascia sfuggire la comprensione delle più rilevanti esperienze del tempo, ma la sua mira si pone indomabilmente oltre ogni eredità. Quando egli critica l’ovvietà delle soluzioni armoniche delle concilianti cadenze risolutorie dello stile musicale italiano non ci interessa affatto l’inopportuna accusa di prevedibilità che giustifica invece quel tipo di estetica, ma esce confermata la chiarezza di un principio da lui portato agli ultimi svolgimenti come affermazione di una concezione dell’espressione intesa nella più pura accezione di creazione individuale. Probabilmente non si è mai sottolineato abbastanza il fatto che Berlioz non compose mai musica da camera e che la sua opera non sia classificabile secondo suddivisione di generi. Nel suo catalogo figurano certo opere teatrali, ma l’adeguamento alla consuetudine dei generi è totalmente estraneo alla sua mentalità (Romeo e Giulietta ne è forse la dimostrazione più appariscente). Berlioz sfugge alle distinzioni di categoria e rappresenta un caso forse unico, per il quale non è possibile stabilire un confine tra espressione lirica ed espressione drammatica. 

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    La sua musica non è né poesia né dramma ma, come qualcuno ha acutamente fatto notare, piuttosto prosa. Lo possiamo desumere dal suo disinteresse per l’affinamento delle sonorità cameristiche, dalla sua insensibilità alla concisione e alla sintesi. La più chiara conferma di questa evidenza si ritrova nell’articolazione delle frasi melodiche dove non solo è negata la simmetria che in poesia corrisponde alla versificazione, ma dove l’estensione sottintende un discorso capace di circoscrivere narrativamente l’assunto. Il «programma» della Symphonie fantastique non è sovrastrutturale rispetto alla logica musicale, ma vi è immanente. Come nella prosa, la sua sintassi è aperta a ogni tipo di rappresentazione e non si lascia solidificare in modelli formali, in «forme poetiche» che si pretendono canoniche. Di qui l’estrema varietà delle risorse messe in opera, ritmiche soprattutto nella rottura della periodicità dell’accentuazione che, prima di lui, costituiva la garanzia dei celebrati modelli di simmetria.

    Basti citare il secondo movimento della composizione (Un bal), dove l’andamento di valzer non s’impone di primo acchito, ma si coagula intorno al tremolo degli archi i quali, prima di fissare l’itinerario del moto rotatorio in tre quarti, si librano in fantasmagorico recitativo. L’atteggiamento recitativo contraddistingue un’eloquenza che non si lascia irretire dall’intuizione lirica, ma che la travolge in una somma di sensazioni contrapposte dove la ricerca dell’unità non si fissa nell’immagine emblematica, ma risiede nella rappresentazione, nell’azione e nel divenire.

    UN BAL 1
    UN BAL 2

    L’idée fixe, descritta come richiamo della memoria alla donna amata, solo apparentemente può dare l’impressione di fermare il discorso nell’estasi di una visione. In realtà essa agisce come persistenza di un riferimento in un contesto dove il vissuto è esaltato come movimento, come avventura, come peripezia in successione di accadimenti. L’idée fixe non conta in sé, ma come funzione psicologica capace di orientarci nello spazio narrativo. La componente letteraria non è dunque in Berlioz un’acquisizione pretestuosa, ma sorge come concetto musicalmente inteso che ha permesso al compositore di evitare le pecche del descrizionismo. Il debito verso la letteratura è in realtà inesistente e, per quanto analogie possano essere riscontrate con esperienze extramusicali, le composizioni di Berlioz ricavano la loro capacità di persuasione esclusivamente da energie musicali liberate a livello di suono prima ancora che in fase di discorso. Ciò spiega lo spostamento della sua ricerca verso la dimensione timbrica, ma soprattutto spiega come, nella gerarchia che pone la funzione sonora al vertice dei valori, la sua esperienza sia musicale in modo perfettamente ortodosso