• Diario d'ascolto
  • 14 Novembre 2023

    GAETANO DONIZETTI, SINFONIA IN RE MINORE

      Carlo Piccardi

    Nell’Ottocento musicale italiano la musica strumentale si lascia scoprire come un continente sommerso. Senza aver lasciato tracce dirette nell’evoluzione generale del linguaggio essa concerne, più o meno, tutti i compositori i quali, pur essendosi dedicati al teatro operistico, affinarono il loro mestiere in una pratica invero non mai scomparsa dalle scuole. Ciò significa che gran parte di quelle testimonianze, in quanto risultato di apprendistato scolastico, si pone in subordine nell’investigazione critica. Un’altra parte fa eccezione cosicché, senza arrivare al maturo Verdi e alla sua deliberazione di cimentarsi nella composizione quartettistica con lo straordinario e ben noto esito, converrà almeno soffermarci sulla vastissima produzione strumentale di Donizetti (15 sinfonie, 19 quartetti, 3 quintetti, 1 sestetto, 4 concerti, 4 «suonate» e una cinquantina di pagine pianistiche).

    Pur situandosi tali opere nel periodo formativo del musicista, esse non si possono semplicemente assimilare a esercizi dimostrativi. È vero che la partitura di uno di questi suoi lavori reca in calce «fatta in un’ora e un quarto», ma ciò è da intendere piuttosto come indice di quella facilità di scrittura che il musicista, sotto l’assillo di implacabili scadenze, avrebbe messo a frutto soprattutto nella composizione operistica. Il carattere e la maturità del corpus strumentale donizettiano è invece da riportare alla disciplina impostagli da Giovanni Simone Mayr, dotta personalità di musicista bavarese il quale, pur essendosi situato da protagonista nel filone operistico italiano che precede l’avvento di Rossini, mai dimenticò la propria origine e la propria formazione culturale di cui fece partecipi gli alunni che ebbero le ventura di frequentarlo all’ombra della sua funzione di maestro di cappella in S. Maria Maggiore a Bergamo. 

    SIMONE MAYR 2
    Simone Mayr

    Fra i prediletti è certamente da annoverare Gaetano Donizetti, il quale apparteneva al primo gruppo di allievi della scuola di musica istituita dal Mayr nei 1806 con il sostegno di alcune istituzioni locali di carità (com’era spesso regola allora). Ciò significò quindi per il musicista la fortuna di entrare in contatto con il retaggio strumentale austro-tedesco tutt’altro che assimilato dall’Italia del tempo, fatto basilare i cui effetti sono riscontrabili nell’agilità e nell’originalità delle soluzioni orchestrali della sua produzione operistica. Non si trattò tuttavia, nemmeno all’inizio, di assoggettamento a modelli esterni. Quando Mayr si rese conto delle possibilità del suo allievo più dotato, nel 1815 lo inviò a Bologna finanziandogli parzialmente lo studio presso Padre Stanislao Mattei, il quale non solo figurava fra i più rinomati maestri di contrappunto (chiamato a rinfocolare la fama della dottrina di Padre Martini) ma era anche il continuatore di una locale tradizione della sinfonia (a Bologna come altrove in Italia) principalmente praticata nelle orchestre di chiesa e che, pur lasciando riconoscere un ceppo distinto dal filone internazionalmente tramandato, con lui si era notevolmente rinnovata nel gusto e nella concezione. 

    STANISLAO MATTEI
    Stanislao Mattei

    LIBRO MATTEI

    La Sinfonia in re minore che, ritornato a Bergamo, Donizetti compose nel 1818, è in un certo senso la sintesi dei due mondi rappresentati dai suoi due maestri. Dal bavarese gli discende la perizia strumentale, il senso drammatico che si impone fin dalle prime battute dell’inizio, il tragico rintocco di timpano che non solo si collega con l’occasione della morte di Antonio Capuzzi (altro suo maestro bergamasco) per cui fu concepito il lavoro, ma che coglie dello strumentale di tradizione nordica la vasta prospettiva di significati. Dal bolognese gli deriva la fedeltà alla sinfonia italiana in un solo movimento, articolato in introduzione lenta e tempo veloce con accelerazione finale, e una trasparenza formale fondata sul nitido disegno melodico. Giustamente ritenuta il prodotto più riuscito tra la dozzina e più di sinfonie composte in quegli anni, l’omaggio a Capuzzi ribadisce l’estraneità italiana allo sviluppo motivico abbozzato in una sorta di crescendo rossiniano presto interrotto per lasciar posto a un episodio meditativo nel quale, se può far sorridere l’ingenua applicazione dell’evanescente glissando del primo violino evocante il venir meno dell’anima spirante, s’impone un’atmosfera rarefatta, spirituale, con soluzioni timbriche singolari e fuori di ogni convenzione, rivelanti quale investimento di originalità potesse ancora costituire un campo ormai marginale nella pratica musicale italiana.