"Sono (...) la musica e la poesia tanto simili e di natura congiunta che ben può dirsi (non senza misterio di esse favoleggiando) ch’ambe nascessero ad un medesimo parto in Parnaso (...). Ma come a nascere fu prima la poesia, così la musica lei (come sua donna) riverisce ed onora. In tanto che, quasi ombra di lei divenuta, la di muover il piè non ardisce dove la sua maggiore non la preceda".
Rare e per di più di statura minore sono le donne compositrici. Chi ricorda ancora oggi i nomi di Josefine Lang, Johanna Kinkel, Louise Farrenc, Maria Félice Clemence de Grandval e Pauline Viardot? Solo i nomi di Clara Schumann o di Fanny Mendelssohn dicono qualcosa, ma sicuramente più per la gloria riflessa del rispettivo marito o fratello che per i propri meriti. A questa schiera appartiene Pauline Viardot, artista di chiara fama per essere stata una grande interprete operistica dell’Ottocento ma i cui meriti di compositrice furono riconosciuti solo da pochi.
Probabilmente quando Igor Stravinsky e Charles-Ferdinand Ramuz si accinsero a dar vita all’Histoire du Soldat non immaginavano di creare un’opera destinata a riprodursi a distanza di anni con frequenza sulle scene. La motivazione della scelta di un teatro da camera (anzi di un teatro di fiera che pretendeva di fare a meno addirittura del consueto spazio scenico) si richiamava allo stato di necessità che nel 1918, a guerra non ancora conclusa, teneva il musicista relegato in Svizzera durante la paralisi internazionale della vita musicale e dello spettacolo.
Certamente il teatro è sempre stato fucina di riforme estetiche, anche quello musicale. Quando dalle riforme si passò alla rivoluzione, esso dovette cedere il passo ad ambiti di comunicazione che, prima di procurarle la vasta risonanza del luogo scenico, le consentissero di verificare i provocanti aspetti innovativi in termini riservati al privato collaudo di un’inedita maniera. Quanto contasse per la Scuola di Vienna il “Verein für musikalische Privataufführungen” è risaputo e le composizioni che Arnold Schönberg e compagni vi presentarono sarebbero state inconcepibili nei luoghi deputati del consumo musicale dell’epoca.
Chi ha avuto la fortuna di assistere ai recital di Cathy Berberian (1925-1983) si sarà reso conto di come ciò equivalesse a una pretta fenomenologia della comunicazione musicale. In tutti i sensi. Innanzitutto nel senso più comune della verifica delle capacità di un interprete di stabilire col pubblico un rapporto di stretta interdipendenza, sorvegliato in ogni momento del suo sviluppo, mutevole quel tanto che basta a rilanciare l’interesse, dosato quel tanto che serve a manifestare le scelte di un gusto infallibile. In secondo luogo nel senso di ripensamento della stessa prassi concertistica, liberata da ogni residuo di riverenza verso la tenace consuetudine del rito culturalistico ereditato dall’Ottocento idealista.
Indubbiamente Luciano Berio è un nome che negli ultimi decenni è venuto a incarnare l'emblema stesso della musica contemporanea, forma espressiva che si è mantenuta più per l'inerziale spinta dello sviluppo del moderno linguaggio dei suoni condotto in luoghi-laboratorio che attraverso l'affermazione fra il pubblico.
La musica di Bach non è certo un modello di arte consolatoria e sicuramente non si presta a livelli di lettura in chiave emotiva, vale a dire a quello stadio su cui si usa far leva quando si intende mirare al responso sicuro da parte degli ascoltatori. In verità il fascino che emana dalle pagine bachiane dipende da un linguaggio regolato da evidenti e serrati rapporti di necessità in tutto il suo procedere. La costatazione è importante nella misura in cui conferma la possibilità di far leva sull’interesse del pubblico (non dei singoli, ma proprio della massa) non al più scontato grado dell’emotività, bensì ai livelli di coscienza più insospettati.
Un’esigenza di drammatizzazione è rilevabile fin nelle radici più remote del canto di chiesa. All’inizio fu il semplice canto responsoriale dove il popolo interveniva con brevi ritornelli alla fine del recitativo del celebrante: poi fu la volta del canto antifonico che, originato in Persia, attraverso l’Antiochia conobbe una vasta diffusione in occidente nella forma dell’alternanza tra due cori.
Storicamente ai visitatori venuti dal nord la civiltà musicale italiana ha sempre interessato per la sua apparenza organica, come prodotto leggendario di una civiltà classica, in particolare ai romantici come espressione del genio collettivo di un popolo provvisto di un senso innato della bellezza.
“L’artista libero S. Rachmaninov dona al libero esercito l’onorario del suo primo concerto in un paese libero”: queste parole appaiono nella lettera pubblicata nella rivista “Russkiye vedemosti” nel marzo 1917 dopo un concerto in favore dell’armata in cui il musicista aveva eseguito il suo Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra. In verità di fronte ad avvenimenti che, con l’abdicazione dello zar Nicola II, stavano modificando profondamente i rapporti di vita, di cultura, di lavoro, Sergej Rachmaninov si trovò estraniato e privato di quei riferimenti su cui si reggeva la sua arte.
«L’artista crede nel futuro perché vive nel futuro», in questa frase contenuta in una lettera alla fedele amica e protettrice, Ludmila Scestakova è racchiuso con somma preveggenza il destino di Modest Mussorgski. È difficile in tutto l’Ottocento (secolo che, dati i presupposti romantici, aveva tutte le premesse per dare la luce ai geni incompresi) trovare personalità d’artista più sfuggente alle categorie dell’epoca in cui visse.
Solo all’apparenza Igor Stravinsky fu in prima linea a dettare i modi d’essere della musica del Novecento. Come in ogni grande artista vi troviamo livelli che lo collocano quasi al di fuori del tempo. È ciò che Massimo Mila riscontrava in uno dei suoi capolavori:
"La religiosità della Sinfonia di salmi [1930] è quella, totale e ieratica, delle vecchie icone bizantine. Immagini dove nulla rimane di umano che non sia la fede. La voce umana e quella strumentale si mescolano l’una all’altra, così come in quelle icone dell’antica pittura russa il fondo d’oro penetra talvolta nel colore della figura, quasi a sostanziarlo d’una realtà ultraterrena".
“I cantici celesti hanno cessato di essere una leggenda. Le voci del cielo sono divenute una realtà. Questo è il miracolo della telefonia senza fili”: questo leggiamo in “Le Monde musical” del 7-8 aprile 1923 a proposito della TSF, cioè della radiofonia. Fin dall’origine quindi la diffusione radiofonica, con la separazione delle voci dai corpi, ha caricato i suoi messaggi di significati trascesi: paradossalmente il mezzo più tecnologicamente avanzato di allora, anziché legare il messaggio alla dimensione del reale, lo liberava dal vincolo con l’immanenza predisponendolo a sostenere messaggi proiettati oltre il vissuto, addirittura oltre la terza dimensione.
Le etichette che identificano i movimenti artistici a volte, più che orientare la comprensione del relativo fenomeno, lo sviano. Ciò si verifica soprattutto quando una denominazione trasmigra da una disciplina all’altra.
“Mia moglie è una casalinga incapace, ma un’eccellente attrice. Non sa leggere una nota, ma quando canta la gente la sta ad ascoltare come fosse Caruso. (D’altra parte si può forse lamentare un compositore la cui moglie non sappia leggere la musica?). Non si cura del mio lavoro (questo è uno dei suoi più grandi pregi). Ma andrebbe su tutte le furie se io non mi interessassi del suo. Ama circondarsi di alcuni fedeli amici, e spiega ciò col fatto di trovarsi assai male con le donne. (Forse le capita di trovarsi tanto male con le donne proprio in quanto si accontenta della compagnia di alcuni amici). Mi ha sposato con l’intenzione di conoscere la bruttezza e oggi afferma di essere riuscita a esaudire il suo desiderio in misura sufficiente. Mia moglie si chiama Lotte Lenya” (14 aprile 1929).
La storia della musica sovietica, come quella politica, è una storia separata dal contesto europeo. Dopo il primo decennio di illusione rivoluzionaria, che fece per breve tempo credere in una possibile identità di interesse tra radicalismo politico e radicalismo artistico, la musica, più di ogni altra espressione, fu richiamata al principio dell’integrazione sociale, a svolgere la funzione di strumento di conciliazione. Ben note sono le disavventure di Prokof’ev e di Sciostakovic all’inizio degli anni Trenta, dell’autocritica che fu loro imposta al pari degli esponenti del cosiddetto revisionismo o decadentismo borghese.
Rivelatasi come cantante rossiniana, nel 1826 Giuditta Pasta vive la svolta con la Niobe di Giovanni Pacini che, nell’interiorizzazione delle sventure che colpirono questo personaggio mitico, mostra la transizione all’area romantica. Nel 1831 ella segna, e ne è nel contempo segnata, il personaggio della Norma belliniana che, nel passaggio di registro da mezzo soprano a soprano, marcò un nuovo passo verso la passione epurata dalle scorie della condizione terrena, innalzata allo stadio del “sublime tragico” come lo stesso Bellini riconobbe.
A tutti è capitato, magari senza conoscerne l’origine, di ascoltare l’apertura del poema sinfonico Also sprach Zarathustra di Richard Strauss. Da quando Stanley Kubrick lo impiegò in 2001, Odissea nello spazio (1965), il rombante suono informe che cresce dal caos verso una luce abbagliante si è impresso talmente nell’immaginario contemporaneo che assistiamo quasi quotidianamente alla sua replica come luogo comune cinematografico e negli spot pubblicitari, per attirare l’attenzione degli acquirenti sul senso di mistero che si vorrebbe celato dietro il più innocuo profilo di un’automobile ultimo modello e persino dell’utensile più domestico.
Tutti sappiamo che Mozart compose opere massoniche (Maurerische Trauermusik K 477, ecc.). Sappiamo che il Flauto magico è addirittura un programma della massoneria che, nella solennità ieratica delle scene al tempio di Sarastro, conquista una cifra musicale sua. Più difficile è individuare il percorso che, attraverso almeno un secolo di esperienza, porta a tali esiti di Mozart. Una tappa intermedia può essere individuata nel Carmen saeculare di Quinto Orazio Flacco messo in musica da François-André Philidor, presentato nel 1777 alla Freemason’ Hall di Londra, eseguito nel 1780 a Parigi e innumerevoli volte altrove in distinte cerchie massoniche, fino in Russia per interessamento di Caterina II, dedicataria dell’edizione a stampa: fu lei a pagare le spese della prestigiosa edizione in rame della partitura pubblicata a Parigi nel 1788.
Nella storia della musica vi sono opere-manifesto. La serva padrona di Pergolesi lo è per l’opera buffa; Carmen lo è per l’opera realista. Proprio l’opera più fortunata di Georges Bizet è un punto fermo a cui hanno fatto riferimento i successori, i veristi italiani soprattutto. Spesso tale aspetto di esemplarità è diventato riduttivo, per non dire fuorviante. Ciò è sicuramente il caso di Carmen, in cui la nozione operistica ha prevalso sull’originale nozione letteraria