I trattati di storia della musica ci insegnano che molta musica strumentale deriva dalla danza: la gagliarda, la sarabanda, la corrente, la ciaccona, la passacaglia prima di diventare forme musicali autonome erano danze vere e proprie. Il minuetto, prima di trovare collocazione come tempo di sonata, di quartetto, di sinfonia, viveva già come danza. Non esiste però danza più del valzer che sia riuscita a impregnare di sé la musica di un intero secolo.
L’Istoria musicale dovrà un giorno registrare che nella tal epoca, alla morte di un Uomo celebre, tutta l’arte italiana si riunì per eseguire nel San Petronio di Bologna una Messa da morto composta espressamente da molti Maestri, il cui originale si conserva sotto sigillo nel Liceo di Bologna.
Se volessimo indicare un genere in cui sia possibile sorprendere la precisa formulazione dell’evolversi del linguaggio musicale, questo è il quartetto per archi. È evidente che la storia della musica non va considerata settorialmente, tuttavia un colpo d’occhio capace di isolare il particolare nel generale può portare a illuminazioni più eloquenti di un rigoroso sistema di osservazione.
Schumann, il quale in un certo senso può essere considerato lo scopritore di Brahms avendogli dedicato nel 1853 un famoso articolo sulla “Neue Zeitschrift für Musik”, è noto anche per aver intravisto nelle sonate per pianoforte di Brahms delle «sinfonie in potenza».
Al gennaio del 1788 risale La battaglia (K 535), contraddanza composta da Mozart un mese prima che Giuseppe II dichiarasse guerra ai Turchi. Il clamore della percussione «alla turca» e il penetrante suono dell’ottavino che attraversano le trame di questa svagata musica da ballo, destinata proprio a quell’imperatore, ne erano quindi il preannuncio, tant’è che la “Wiener Zeitung” ribattezzò la modesta composizione mozartiana col titolo L’assedio di Belgrado.
L’interesse di Darius Milhaud per il cinema, benché non più documentabile a causa della perdita della partitura, risale al 1925, quando compose la musica per L’inhumaine di Marcel L’Herbier.
Ci può essere gloria per un compositore di musica da film? Intendo la gloria vera, non quella commerciale legata a motivi indovinati destinati a fare il giro del mondo sulle correnti della moda e poi ad essere dimenticati con l’estinguersi della sua funzione trainante. Il discorso è complesso e richiederebbe una risposta articolata, anche se il sospetto che la musica cinematografica rimanga un accessorio incapace di significato autonomo si impone con prepotenza.
Nei suoi ottantacinque anni di vita Richard Strauss si trovò a essere testimone dell’ascesa e della caduta della Germania, dapprima come affermazione e scomparsa dell’impero bismarckiano, poi come sopraffazione del potere da parte di Hitler e della relativa disfatta.
Nessun compositore al pari di Bach (che trascriveva Palestrina, Frescobaldi, Vivaldi, ecc.) si è mai sentito sollecitato a convivere con ciò che era diverso dal suo linguaggio e dalla sua maniera. Senza attendere il giudizio dei critici è proprio in quest’ambito che la posizione di Bach, confrontata con premesse estetiche diverse (perfino opposte alla sua), viene messa a fuoco dall’autore stesso in una prospettiva dialetticamente motivata.
Se volessimo accertare la consistenza detenuta dalla musica italiana del Novecento presso il pubblico, dalla morte di Puccini in poi, rimarremmo piuttosto delusi.