La prima presentazione dell’opera di Paul Hindemith il 9 novembre del 1926 ebbe una risonanza enorme, sulla spinta certamente della rinascita d’interesse per il teatro musicale moderno che le istituzioni teatrali tedesche in quegli anni coltivavano con preciso senso di responsabilità sociale e culturale legato alla politica progressista della Repubblica di Weimar: basti dire che lo stesso anno della prima a Dresda, altri 17 teatri presentarono Cardillac nel loro cartellone.
«SELVA dico dunque per non seguire in essa un filo continuato, così veggiamo nelle Selve gli arbori posti senza quell’ordine che ne gli artificiosi giardini veder si suole».
La dichiarazione di intenzione di Orazio Vecchi posta in capo alla Selva di varia ricreazione (1590) suona programmatica di un atteggiamento trasgressivo che ancor oggi fa del musicista modenese un personaggio anomalo, appartato nel pur frastagliato filone madrigalistico cinquecentesco.
«Bussotti par lui-même» (titolo che diedi a un mio programma concepito nel 1975 per la Televisione della Svizzera italiana con la partecipazione di Elise Ross, Giancarlo Cardini, Italo Gomez, Rocco e romano Amidei): l’autoritratto è sembrato l’unica possibilità per descrivere Sylvano Bussotti nella molteplicità dei suoi ruoli che, attraverso la musica, l’hanno portato alla pittura, al teatro, alla danza in una prospettiva che imprevedibilmente riscatta in tempi difficili quali i nostri, l’ideale aristocratico e polivalente dell’artista rinascimentale.
L’autoritratto era anche la sola possibilità per fermare in un’immagine riassuntiva le mille sfaccettature di un’esperienza artistica che, esaltando le occasioni più improponibili (la favola, la danza, il teatro da camera, il melologo, ecc.), aperte alla più sfrenata fantasia e all’intuizione più inconfessabile, non si lasciava ordinare in indagine sistematica. Nel momento stesso in cui il musicista si sottopone a intervista, il frammento dell’opera sua chiamato in causa rinasce sotto nuove spoglie, tessendo nuovi rapporti dove suono, immagine e parola, perfino nello spazio condizionato del documentario televisivo, ritrovano l’intuizione di un ordine capace di ricostituirsi attraverso diverse apparenze al di là dell’unicità usualmente riconosciuta a ogni opera d’arte.
Da vari decenni ormai la musica contemporanea si è liberata dall’arido nozionismo dodecafonico che aveva visto il prevalere della componente teoretica sul fatto comunicativo. Sylvano Bussotti può vantarsi di aver sostenuto un ruolo di decisa sconfessione della composizione strutturalmente predeterminata, fin dalla sua apparizione nel 1958 ai famosi corsi estivi di Darmstadt, assurti durante gli anni Cinquanta a cittadella della Nuova Musica. Da allora in poi il compositore italiano si fece strada in campo internazionale legittimando la necessità di recuperare all’arte dapprima il principio stimolante del piacere («Passion selon Sade») e in seguito la dimensione fantastica («Bergkristall»), abbattendo ogni scrupolo di falso accademismo e ogni ostacolo che impedisse di riconoscere stretti rapporti di dipendenza con i precedenti storici, non solo con quelli ammissibili ma anche con quelli improponibili (non solo Mahler ma anche Puccini).
Da quando la sua esperienza ha cessato di confrontarsi deliberatamente alle fasi storiche dell’avanguardia (concezione seriale, alea, ecc.) per procedere lungo una linea chiamata a esaurire la propria dialettica all’interno della sfera personale, per non dire intima (esibita attraverso atteggiamenti tanto vistosi da sconcertare non poco gli osservatori critici abituati ad affrontare i problemi della musica contemporanea attraverso verifiche sui risultati al di là di ogni accento individualistico), è emerso inevitabilmente come termine di discorso il rischio dell’involuzione. In verità il caso Bussotti mette in imbarazzo non solo prendendo atto di questo orientamento, ma soprattutto nell’assenza di ritegno ad incentrare il discorso intorno ai presupposti personali, autobiografici addirittura, della propria esperienza.
La prospettiva di un’involuzione si scontra allora con un tipo di giudizio incapace di mettere in discussione l’esito artistico a livello dei significati individuali. In effetti, a chi affidasse la conoscenza di Bussotti non direttamente alla sua musica, bensì ai luoghi comuni impiegati dalla critica per definirne la natura e la provocazione, egli apparirebbe un D’Annunzio redivivo con diramazioni morbose, che nei tratti scopertamente confidenziali chiamerebbero in causa addirittura un Ciaikovski o qualche altro personaggio irrimediabilmente «schedato» dalle operazioni sopravvissute nella critica sotto forma di osservanza moralistica. Il parallelo tiene in verità fino a un certo punto, poiché, se di preziosismo decadente, di compiacimento sensuale o di esplorazione morbosa della sfera intima si può parlare, ciò va inquadrato in un contesto estremamente raffinato di mediazioni culturali che, come principio, escludono il passivo concedersi a un modo d’essere spontaneo. Il fatto spiega altresì la ragione che giustifica la seria presa in considerazione dell’esperienza bussottiana la quale, nei suoi ricorsi ad atteggiamenti estroversi e a gusti discutibili d’antiquariato, ha introdotto nella musica contemporanea, a un livello inconsueto di profondità, la coscienza della crisi. La crisi appunto vissuta come ebbrezza e non come angoscia, dove il fatto di saper guardare in faccia alla decadenza ritrova energia positiva nel risorto principio del piacere, al quale lo stato di terra bruciata raggiunto dalla musica attraverso le innumerevoli operazioni «decompositive» del dopoguerra offre spazio sconfinato di conquista.
L’opera scolastica Colui che dice di sì di Bertolt Brecht con musica di Kurt Weill può essere considerata l’ultimo prodotto della collaborazione dei due celebri autori. Il lavoro risale infatti al 1930, mentre I sette peccati capitali nacquero fuori di Germania, nel 1933 a Parigi, dove Brecht e Weill si ritrovarono occasionalmente riuniti da comune destino dopo aver lasciato il loro paese al tragico destino nazista.
Figlio di padre turco e di madre italiana, Fernando Corena (1916-1984) nacque a Ginevra. La mescolanza delle origini, la carriera internazionale a cui deve la celebrità, non impedirono mai che egli si sentisse fondamentalmente svizzero e nel proprio paese ritornasse periodicamente a ritessere relazioni professionali e d’amicizia, fino a trasformare i soggiorni periodici nella sua casa di Castagnola, panoramicamente affacciata sul golfo di Lugano, in residenza definitiva dopo il ritiro dalle scene.
Intitolata «Risposta pratica di un compositore ad una giusta critica», applaudita dai burocrati di partito il 21 novembre 1937 in occasione della prima esecuzione a Leningrado, la Quinta di Sciostakovic segna il momento di rappacificazione tra il compositore precedentemente bersagliato dai tutori dell’ordine artistico sovietico e l’apparato da lui già causticamente satireggiato nell’opera Il naso (1930).
Nell’Ottocento musicale italiano la musica strumentale si lascia scoprire come un continente sommerso. Senza aver lasciato tracce dirette nell’evoluzione generale del linguaggio essa concerne, più o meno, tutti i compositori i quali, pur essendosi dedicati al teatro operistico, affinarono il loro mestiere in una pratica invero non mai scomparsa dalle scuole. Ciò significa che gran parte di quelle testimonianze, in quanto risultato di apprendistato scolastico, si pone in subordine nell’investigazione critica. Un’altra parte fa eccezione cosicché, senza arrivare al maturo Verdi e alla sua deliberazione di cimentarsi nella composizione quartettistica con lo straordinario e ben noto esito, converrà almeno soffermarci sulla vastissima produzione strumentale di Donizetti (15 sinfonie, 19 quartetti, 3 quintetti, 1 sestetto, 4 concerti, 4 «suonate» e una cinquantina di pagine pianistiche).
Erik Satie, periodicamente recuperato dalle avanguardie del nostro secolo come esempio di musica «oggettiva» (da Debussy al Gruppo dei Sei, dall’Ecole d’Arcueil a John Cage), è ancor oggi interpretato alla lettera (secondo il senso delle sue lapidarie asserzioni) come artista senza radici, capace di sfidare il tempo. In verità la sua coscienza del nuovo (dell’impossibile addirittura) si colloca nella precisa geografia culturale francese che, reagendo alla dominante e opprimente estetica naturalistica, segnò negli ultimi decenni dell’Ottocento la conversione alle tematiche spiritualistiche ai limiti addirittura dell’infatuazione religiosa.
Al di là della funzione del personaggio femminile nell’opera in genere è fuori dubbio che nel ruolo assegnatogli sia possibile rintracciare l’ago della bussola estetica romantica.
L’epoca moderna è impietosa con gli artisti anziani. Il logoramento dei mezzi linguistici, l’accanita tendenza alla fuga in avanti da più di un secolo ormai non lasciano più spazio alle lunghe parabole individuali.