Potrà sembrare paradossale, ma occorre riconoscere che il principio, ancor oggi riconosciuto dalla teoria della musica come mezzo per interpretare il funzionamento del linguaggio musicale classico-romantico (quello della ‘forma sonata’), non venne formulato né ai tempi di Haydn né a quelli di Beethoven. Il termine stesso non esisteva a quell’epoca e quando noi cercassimo di trovarne una conferma nei trattati del periodo posteriore, troveremmo descrizioni vicine per certi versi all’idea oggi corrente relativa a questo principio, ma per altri versi lontana e contraddittoria.
Pagina più celebre di quanto lo sia diventato il suo autore, il Poème di Ernest Chausson, insieme ai concerti più famosi, si è istallato stabilmente nel repertorio dei violinisti come riuscita indiscussa senza con ciò aprire un varco alla conoscenza più profonda di un compositore le cui qualità, per quanto riguarda il resto della sua opera, rimangono tutte da scoprire.
Il concerto come oggi lo concepiamo, nel suo irrinunciabile rituale serio e compito, è un’eredità della borghesia, la quale tuttavia giunse a formalizzarlo solo intorno alla metà dell’Ottocento, non a caso grazie a Franz Liszt. Il grande musicista, al culmine della carriera di virtuoso che gli aveva dato il potere di stregare i pubblici di ogni nazione d’Europa con la fantasmagoria delle sue esibizioni - dopo aver scontato tutti gli effetti possibili dell’estroversione circense richiesta allora ai pianisti - impose il modello del concerto monografico (di brani compiuti in relazione tra di loro). Con la forza della sua personalità, pervenuta a un grado di coscienza intellettuale che riscattava la musica dalla semplice funzione di intrattenimento, la innalzava allo stadio di alta manifestazione dello spirito.
La parodia non è sempre una forma di attacco a scopo denigratorio, a volte è anche la consacrazione di ciò che si vuole bersagliare. In altre parole, di satira è degno colui che in qualche modo è riuscito ad affermarsi. Dalla concentrazione di parodie su una determinata personalità o su un determinato fenomeno è quindi anche possibile misurare il relativo “indice di gradimento”.
Nato a Mosca il 29 febbraio 1896 da padre tedesco e da madre russa, Wladimir Rudolfowitsch Vogel si trovò fin dall’adolescenza a subire l’effetto di esperienze determinanti: l’incontro con Alexandr Skrjabin (la cui spinta spiritualistica oltre i confini della tonalità e la cui inconfondibile scrittura influenzarono i primi brani pianistici del Nostro) e il senso di rottura prodotto dalla Grande Guerra e dalla Rivoluzione d’Ottobre, il cui significato di riscatto sociale avrebbe per molto tempo marcato le sue idee politiche.
Gli intrecci tra espressioni musicali di consumo e musica di tradizione colta non sono più una novità. Hanno dilagato al punto da non più imporsi come una categoria. Furono dapprima le ragioni turistiche a far crescere gli incontri dell’opera lirica con la massa in spazi aperti (Arena di Verona, Sferisterio di Macerata, Caracalla a Roma, ecc.), estendendo palcoscenico e platea per un’espressione che tuttavia rimane sempre integra e fedele alla propria fisionomia originale.
Nel 1958, quando Michele Straniero (1936-2000) con Sergio Liberovici e Fausto Amodei diede vita ai “Cantacronache”, il riferimento non era alla canzone di consumo, di puro intrattenimento, ma alla canzone di testimonianza e di denuncia, «di protesta» come si diceva, in una prospettiva di contrapposizione all'organizzazione industriale dell’evasione che in Italia culmina ancora emblematicamente nel Festival di Sanremo.
Il gazzettiere Macrobio in un’aria del primo atto de La pietra del paragone di Rossini intona le parole: “Chi è colei che s’avvicina / È una prima ballerina / sul teatro di Lugano / gran furor nel Solimano”. Si potrebbe pensare che il librettista Luigi Romanelli sia caduto sul nome della cittadina ticinese per una semplice ricerca di corrispondenza nella rima.
Non è stato certamente il Novecento a scoprire il valore dell’utopia nel fatto artistico. L’Ottocento ne è stato anche più profondamente impregnato, ma con la differenza di averla in un certo senso attuata, perlomeno di aver trovato un certo equilibrio tra ipotesi avveniristiche e possibilità di coinvolgervi i fruitori del prodotto artistico. Il caso di Wagner è lì a dimostrarlo.
Su quella linea il Novecento non è stato da meno, con la differenza però che a un certo punto ha dovuto accontentarsi di ipotesi sulla carta, compiaciute nella propria formulazione e semplicemente sollecitanti l’immaginario collettivo.
Il tango non è una forma o uno stile di musica, ma piuttosto una concezione del mondo, come la musica gitana, come il jazz. Esso nasce alla fine dell’Ottocento fra l’umanità diseredata della capitale argentina, fra gli emigranti italiani, tedeschi e d’altri paesi d’Europa spinti dalla necessità e carichi di passato, fra i gauchos scesi da cavallo e inurbati, trascinanti nella grande città la memoria della prateria.