Il riso praticato dai moderni non è quella manifestazione in tutto liberatoria e rigenerante conosciuta dagli antichi, per i quali poteva ancora valere la psicologia dello sdoppiamento della personalità, la coesistenza allo stesso livello di coscienza di leggero e di grave, di serio e di faceto, di nobile e di umile. Dopo Mozart non è più possibile mantenere distinti in separato ordine i due piani espressivi: il rovescio di senso, che prima nella parodia confermava il modello, non può più attuarsi in una situazione di compenetrazione degli estremi dove all’adeguamento funzionale si sostituisce l’ambiguità. Concordando con Karl Barth siamo infatti indotti a riconoscere come in Mozart «quanto vi è di grave è come se levitasse e quanto vi è di lieve ha un peso infinito».
"Sono (...) la musica e la poesia tanto simili e di natura congiunta che ben può dirsi (non senza misterio di esse favoleggiando) ch’ambe nascessero ad un medesimo parto in Parnaso (...). Ma come a nascere fu prima la poesia, così la musica lei (come sua donna) riverisce ed onora. In tanto che, quasi ombra di lei divenuta, la di muover il piè non ardisce dove la sua maggiore non la preceda".
Rare e per di più di statura minore sono le donne compositrici. Chi ricorda ancora oggi i nomi di Josefine Lang, Johanna Kinkel, Louise Farrenc, Maria Félice Clemence de Grandval e Pauline Viardot? Solo i nomi di Clara Schumann o di Fanny Mendelssohn dicono qualcosa, ma sicuramente più per la gloria riflessa del rispettivo marito o fratello che per i propri meriti. A questa schiera appartiene Pauline Viardot, artista di chiara fama per essere stata una grande interprete operistica dell’Ottocento ma i cui meriti di compositrice furono riconosciuti solo da pochi.
Probabilmente quando Igor Stravinsky e Charles-Ferdinand Ramuz si accinsero a dar vita all’Histoire du Soldat non immaginavano di creare un’opera destinata a riprodursi a distanza di anni con frequenza sulle scene. La motivazione della scelta di un teatro da camera (anzi di un teatro di fiera che pretendeva di fare a meno addirittura del consueto spazio scenico) si richiamava allo stato di necessità che nel 1918, a guerra non ancora conclusa, teneva il musicista relegato in Svizzera durante la paralisi internazionale della vita musicale e dello spettacolo.
Certamente il teatro è sempre stato fucina di riforme estetiche, anche quello musicale. Quando dalle riforme si passò alla rivoluzione, esso dovette cedere il passo ad ambiti di comunicazione che, prima di procurarle la vasta risonanza del luogo scenico, le consentissero di verificare i provocanti aspetti innovativi in termini riservati al privato collaudo di un’inedita maniera. Quanto contasse per la Scuola di Vienna il “Verein für musikalische Privataufführungen” è risaputo e le composizioni che Arnold Schönberg e compagni vi presentarono sarebbero state inconcepibili nei luoghi deputati del consumo musicale dell’epoca.
Chi ha avuto la fortuna di assistere ai recital di Cathy Berberian (1925-1983) si sarà reso conto di come ciò equivalesse a una pretta fenomenologia della comunicazione musicale. In tutti i sensi. Innanzitutto nel senso più comune della verifica delle capacità di un interprete di stabilire col pubblico un rapporto di stretta interdipendenza, sorvegliato in ogni momento del suo sviluppo, mutevole quel tanto che basta a rilanciare l’interesse, dosato quel tanto che serve a manifestare le scelte di un gusto infallibile. In secondo luogo nel senso di ripensamento della stessa prassi concertistica, liberata da ogni residuo di riverenza verso la tenace consuetudine del rito culturalistico ereditato dall’Ottocento idealista.
Indubbiamente Luciano Berio è un nome che negli ultimi decenni è venuto a incarnare l'emblema stesso della musica contemporanea, forma espressiva che si è mantenuta più per l'inerziale spinta dello sviluppo del moderno linguaggio dei suoni condotto in luoghi-laboratorio che attraverso l'affermazione fra il pubblico.
La musica di Bach non è certo un modello di arte consolatoria e sicuramente non si presta a livelli di lettura in chiave emotiva, vale a dire a quello stadio su cui si usa far leva quando si intende mirare al responso sicuro da parte degli ascoltatori. In verità il fascino che emana dalle pagine bachiane dipende da un linguaggio regolato da evidenti e serrati rapporti di necessità in tutto il suo procedere. La costatazione è importante nella misura in cui conferma la possibilità di far leva sull’interesse del pubblico (non dei singoli, ma proprio della massa) non al più scontato grado dell’emotività, bensì ai livelli di coscienza più insospettati.
Un’esigenza di drammatizzazione è rilevabile fin nelle radici più remote del canto di chiesa. All’inizio fu il semplice canto responsoriale dove il popolo interveniva con brevi ritornelli alla fine del recitativo del celebrante: poi fu la volta del canto antifonico che, originato in Persia, attraverso l’Antiochia conobbe una vasta diffusione in occidente nella forma dell’alternanza tra due cori.
Storicamente ai visitatori venuti dal nord la civiltà musicale italiana ha sempre interessato per la sua apparenza organica, come prodotto leggendario di una civiltà classica, in particolare ai romantici come espressione del genio collettivo di un popolo provvisto di un senso innato della bellezza.