• Diario d'ascolto
  • 3 Luglio 2020

    JOHN CAGE, SACERDOTE DEL SILENZIO

      Carlo Piccardi

    Non è stato certamente il Novecento a scoprire il valore dell’utopia nel fatto artistico. L’Ottocento ne è stato anche più profondamente impregnato, ma con la differenza di averla in un certo senso attuata, perlomeno di aver trovato un certo equilibrio tra ipotesi avveniristiche e possibilità di coinvolgervi i fruitori del prodotto artistico. Il caso di Wagner è lì a dimostrarlo. 
    Su quella linea il Novecento non è stato da meno, con la differenza però che a un certo punto ha dovuto accontentarsi di ipotesi sulla carta, compiaciute nella propria formulazione e semplicemente sollecitanti l’immaginario collettivo.

     

    Due figure quasi coeve ci danno, in modo diverso e persino opposto, la misura di tale situazione. Alexander Skrjabin (1872-1915), continuando sulla linea wagneriana dell’arte come religione, arrivò a improponibili opere da eseguire in giganteschi templi hymalaiani in un delirio quasi fuori del tempo e dello spazio.

    ALEKSANDER SKRIABIN
    Alexander Skrjabin

    Eric Satie (1866-1925) ne costituì la replica sul versante ‘laico’, di una musica che si vuole profondamente radicata nel quotidiano fino a perdere del tutto l’aura di artisticità, ma ugualmente fuori del tempo nella ricerca del punto risolutore dell’opposizione tra l’atto creativo individuale e l’identità collettiva dell’opera d’arte, fino all’annullamento della presenza dell’artista creatore. In ambedue i casi, e per la prima volta, si tratta di formulazioni tendenziali, protocollate come un messaggio profetico più che determinate in uno spazio realizzativo.

    ERIC SATIE
    Eric Satie

    Nel primo caso si chiude una parabola, quella appunto di un’arte nutrita di spiritualismo tendente all’abbraccio sacrale con l’universo; nel secondo, nel ritorno a considerare il valore dell’umile atto quotidiano e di una concezione artigianale del fatto artistico, si apre uno spazio di ricerca all’altezza del processo di emancipazione laica della cultura del secolo.
    Rimane il fatto che l’obiettivo indicato da Satie (della sua “musique d’ameublement” e soprattutto di quelle opere aperte di cui non è indicato né l’inizio né la fine) si pone nettamente fuori dei canoni che dettano le usuali regole di comunicazione: le sue ipotesi, anche quando le composizioni approdassero a un’esecuzione, ne vanno quindi ben al di là e trovano la loro maggiore consistenza in un’idea.

    Con la forza di questa stessa idea John Cage (1912-1992) venne a turbare i sonni dei compositori europei negli anni Cinquanta, risvegliando una coscienza che si era assopita di fronte al rapporto feticistico con la materia sonora. Si tratta di un capitolo scontato e di un luogo comune che, dopo la frase di Bruno Maderna (“Dopo Cage siamo tutti cageani”) è stato ripercorso in lungo e in largo. Il suo appello a guardare oltre il suono, a scoprire nel silenzio l’ordine alternativo alle nostre concezioni, alle nostre abitudini, alle nostre pigrizie mentali non era però solo incentivo a correggere il modo di intervenire sulla materia sonora, ma richiedeva una specie di conversione che a conti fatti non ci fu.

    KARKHEINZ STOCKHAUSENKarlheinz Stockhausen

    Ciò che i vari Stockhausen, Boulez, Nono, ecc. videro nel suo esempio era la messa in discussione della posizione dell’artista creatore nel processo estetico che l’avanguardia non solo aveva mantenuto, ma aveva addirittura rinforzato nella sua centralità.

    PIERRE BOULEZ
    Pierre Boulez

    La dodecafonia e il serialismo, come sviluppo attraverso Schönberg della concezione argomentante evoluta sull’asse Beethoven-Brahms, implicando il primato della razionalità si fondava ancora sul principio del potere plasmante della mente individuale. L’abdicazione del soggetto di fronte alla forza del materiale era lungi dal compiersi e l’introduzione del concetto di alea, propiziato dall’irruzione di Cage nella scena europea, più che una nuova via era il tentativo di preservare le centralità dell’atto creativo ammettendovi delle deroghe.
    John Cage era quindi altra cosa, a cominciare dalla tradizione diversa che gli stava alle spalle, quella americana.

    CHARLES IVESCharle Ives

    Charles Ives, Edgar Varèse, Henry Cowell e altri sono i predecessori di un modo d’intendere la musica considerata come un terreno vergine, da scoprire e da colonizzare, con l’atteggiamento del pioniere capace di convivere serenamente con l’ignoto che incombe su di lui. Là dove gli europei si fermano tracciando il confine tra la giurisdizione del proprio territorio storico e ciò che ne sta al di là, l’americano prende coscienza della possibilità di modificare il suo orizzonte, le sue prospettive, senza soggiacere all’illusione che pretende l’individuo al centro dell’universo. È lì che avviene la presa di coscienza da parte dei grandi artisti americani di come un ordine si instauri non a partire dall’individuo, ma inglobandolo, secondo leggi che gli dettano il comportamento e dove lo spazio di libertà è dato nel decifrarle più che nel modificarle.

    EDGAR VARESE
    Edgar Varèse

    In tale resa attonita alla natura (in America si deve sussumere in questo concetto tutta la realtà al di fuori dell’individuo, quindi anche quella urbana e industriale che, benché creata dall’uomo, a un certo punto sfugge al suo controllo) si determina una diversa spiritualità. L’artista europeo ha vissuto una parabola che nei secoli l’ha portato dalla tutela dell’istituzione ecclesiastica alla libertà dello stato laico, in un processo di caduta della spiritualità ricostituita solo come religione dell’io, quindi non comunicabile (si veda soprattutto Wagner). L’America dei pionieri ha conosciuto invece un rigurgito di spiritualità come risposta al contatto con l’ignoto, contatto non individuale ma di civiltà, esigente risposte collettive presto fornite da un modo profondamente comunitario di vivere la religione anche se al di fuori degli schemi dogmatici della sua forma organizzata istituzionalmente.

    THOREAU
    Henry David Thoreau

    La realtà dei bizzarri predicatori che percorrevano il West è paragonabile solamente ai predicatori del Medioevo e al rapporto di massa instaurato dalle loro persuasive parole. Benché nella loro eterodossia essi derivassero il loro atteggiamento dalla lettura evangelica di ceppo protestante, nulla in comune con il protestantesimo europeo (quello della solitudine dell’individuo davanti a Dio) esso aveva. La spiritualità, la religione, in America sono un fatto di gruppo, ancor oggi confermato dagli effetti a volte sorprendenti dei nuovi predicatori televisivi. La maniera dei predicatori ottocenteschi americani, capaci di ridurre la vasta problematica spirituale in semplici e chiare regole di vita, ha certamente lasciato il segno in Thoreau e nei filosofi trascendentalisti, fissando un comportamento non estraneo a Ives e che spiega pure John Cage, il quale, senza porsi in posizione messianica, è stato un propagatore di idee miranti non tanto a modificare le basi del pensiero musicale quanto una concezione esistenziale. Non per niente le sue idee, più che contribuire a modificare lo scenario europeo dell’avanguardia, sono all’origine di una diversa avanguardia americana (quella dei minimalisti) che non conosce confini di dottrina e di ceto culturale, capace di far proseliti fra i giovani estranei alla formazione accademica in comportamenti che alla lunga hanno inciso assai di più nel vasto ambito della comunicazione culturale.