• Diario d'ascolto
  • 11 Aprile 2019

    ARTE DELLA VECCHIAIA

      Carlo Piccardi

    Nei suoi ottantacinque anni di vita Richard Strauss si trovò a essere testimone dell’ascesa e della caduta della Germania, dapprima come affermazione e scomparsa dell’impero bismarckiano, poi come sopraffazione del potere da parte di Hitler e della relativa disfatta.  

     

    Contemporaneamente - sul versante estetico - egli si trovò investito dalla rivoluzione dei musicisti radicali che, da un giorno all’altro, relegarono un ‘moderno’ come egli era stato alla condizione di esponente conservatore della tradizione.
    In verità, impegnato fino alla fine nelle strutture musicali istituzionali, aggrappato alla necessità di fare della sua musica un messaggio integrato alla vita sociale, il compositore bavarese subì senza sottrarvisi tutte queste accelerazioni in un difficile equilibrio tra le ragioni della necessità e l’affermazione di un proprio modello estetico ritenuto valido al di fuori del tempo, al quale non mancò mai di fedeltà e nel quale si fonda la sua grandezza.

    STRAUSS 1948 

    Le sue ultime opere nacquero nel periodo della guerra - quando ormai il musicista, che in qualche modo aveva aderito al nazismo, si rendeva conto del disastro a cui stava per essere condotta la Germania – e dell’immediato dopoguerra, quando l’occupazione della Baviera da parte degli Americani, con i sospetti che gravavano sulla sua persona, lo indussero a lasciare l’amata Garmisch e a emigrare per un certo tempo in Svizzera, a Baden, a Ouchy (Losanna), a Pontresina, dove portò a termine le straordinarie opere che siglano non solo il suo congedo dal mondo, ma anche la coscienza del tramonto della cultura tedesca che, assolutizzata in una forma chiusa su se stessa e incapace di sciogliersi dall’unilateralità dello sguardo retrospettivo, sembrava soccombere insieme col regime che in modo delirante e tragicol’aveva spinta verso l’abisso. 

    Fu anche a Lugano per qualche mese nella primavera del 1947 dove apparve in concerto con la locale orchestra radiofonica alla quale dedicò il Duett-Concertino op. 147 per clarinetto, fagotto e orchestra d’archi più arpa, eseguito in prima mondiale nel 1948 sotto la direzione di Otmar Nussio a Radio Monte Ceneri. Se consideriamo le Metamorfosi op. 142 per archi (1945) dedicate al basilese Paul Sacher e i Vier Letzte Lieder (1948), vi troveremmo conferma di quella dimensione dell’arte della vecchiaia che lo accomuna all’ultimo Beethoven, alla cupa astrazione di un linguaggio ermetico (distillazione della musica ridotta alla sua essenza vitale, pensando a una sua vita al di fuori del tempo).

     STRAUSS SCRIVE

    Viceversa Richard Strauss era molto legato alla vita. La facilità con cui venne a patti con i regimi era proprio l’indice della sua incapacità di vivere ai margini, fuori del contesto sociale. Fu così che assunse la funzione di presidente della Reichsmusikkammer, una specie di consiglio superiore della musica compiacente con la dittatura, nonché quella di presidente dal 1934 al 1942 del Conseil Permanent pour la Coopération internationale des Compositeurs de Musique creato quando Goebbels impose l’uscita della Germania dalla Società Internazionale di Musica contemporanea accusata di promuovere le forme ‘degenerate’ di musica. Stefan Zweig - librettista della sua opera Die schweigsame Frau che riuscì a far rappresentare nel 1934 ottenendo direttamente ed eccezionalmente da Hitler che il suo nome, in quanto ebreo, non fosse cancellato negli stampati – così ne tratteggiò il ritratto: “Nel suo egoismo artistico, che egli sempre e apertamente confessava, ogni regime gli era in ultima analisi indifferente”.

    Egli fu un grande comunicatore: fu moderno in quanto attribuiva valore al gesto di sfida, non in quanto si accontentasse di gettare in mare il messaggio in una bottiglia, implicante il rischio di non mai giungere al destinatario. Vi è quindi un altro aspetto della sua arte di vecchiaia, quello della nostalgia delle epoche in cui la musica era riuscita a svilupparsi in un modo perfettamente aderente al tessuto sociale, in cui l’artista non era messo in discussione nel suo ruolo, in cui la dimensione dell’artigiano aveva acquisito alta dignità.

     STRAUSS DIRIGE

    Eccolo quindi a subire la tentazione delle forme trasparenti, proprio di quelle composizioni (i concerti solistici) che alla ricerca di comunicazione diretta sono di stimolo all’interprete di levatura a dare la stura al suo eloquio strumentale, ancorandosi ancor più al rapporto col pubblico: Secondo Concerto per corno e orchestra (1942), Concerto in re magg. per oboe e piccola orchestra (1945). Tuttavia Strauss è tentato da questa via non ripercorrendo l’ovvietà del virtuosismo plateale ottocentesco, bensì stabilendo una testa di ponte con il Settecento, con le forme mozartiane, di un’epoca più lontana e non più ripristinabile nei termini originali.

    Il Mozart rococò a cui fa riferimento nei suoi ultimi concerti solistici è uno specchio della nostalgia riflettente un magistero in cui pulsa l’espressione felice di modi dove la dimensione dell’ornamento fine a se stesso è ancora possibile, funzionante, ma che al sorriso intreccia l’ombra di un dolore, di una sofferenza, carica della memoria di tutto ciò che paralizza l’immagine del passato.

     STRAUSS RITRATTO