• Diario d'ascolto
  • 21 Dicembre 2018

    Stradivari tra mito e realtà

      Carlo Piccardi

    Antonio Stradivari (1644-1737), celebratissimo già in vita per la bellezza e la perfezione dei suoi prodotti, alimentò subito la fantasia popolare. I suoi violini, risultato di supremo artigianato, non poterono mai essere imitati da nessuno. 

     

    Il segreto di un mestiere, che lo pose nel ruolo centrale nello sviluppo della musica italiana ed europea del Sei e del Settecento, fu portato dall’artefice nella tomba lasciando immaginare chissà quali patti diabolici.
    Era d’altronde quella l’epoca delle meraviglie per una civiltà musicale che, in campo strumentale, bruciò con sorprendente rapidità le tappe.
    Non si dovettero attendere infatti gli ardori e le esaltazioni del secolo romantico e l’infuocato mito paganiniano per nutrire l’immaginazione popolare di credenze stregonesche.

     violino Soil

    La leggenda del demonio che detta in sogno a Giuseppe Tartini la più celebre delle sue sonate (quella che avrebbe preso il titolo di “Trillo del diavolo”) è un’eloquente anticipazione dell’odore di zolfo che gli spettatori più invasati giurarono di avere sentito emanare da Paganini durante le sue mirabolanti esibizioni. Lo sviluppo della tecnica e dell’arte violinistiche fu tale e talmente rapido da stupire, e da suscitare presso gli attoniti ascoltatori le più impensate spiegazioni: ciò che la ragione non riusciva ad ammettere veniva compensato dalla fantasia.
    In verità la ragione, che non ha mai perso i suoi diritti, è in grado benissimo di situarci il fenomeno Stradivari nel suo contesto storico, che non è fatto di geni diabolici e di misteri magici, bensì di una precisa tradizione.

    Sul frontespizio dell’edizione a stampa dell’Orfeo di Monteverdi (1607), nelle indicazioni sull’organico strumentale destinato ad accompagnare le voci, l’autore scrisse “doi violini piccoli alla francese”. È evidente che il compositore, cremonese, alludesse ai modelli di Andrea Amati (1505-1579), fondatore della scuola di liuteria di Cremona, famoso per essere stato scelto dal re di Francia Carlo IX per la fornitura di una serie di strumenti ad arco, considerati non solo capolavori di arte liutaria ma il prototipo di ulteriori sviluppi.

     VIOLINO 1

    Nonostante ciò che si usa dire intorno alla generica destinazione timbrica della musica strumentale del Seicento, ciò che aveva in testa Monteverdi era una precisa sonorità, esatta, familiare. Lo sviluppo del madrigale concertato e del concerto poi si inserisce in un intreccio che lega stabilmente la nuova ricerca linguistica con l’evoluzione degli strumenti chiamati a sostenerla.
    L’Italia del Seicento, oltre all’opera, diventa il paese a cui fa riferimento qualsiasi tradizione strumentale, non solo per avere creato il concerto ma anche per avere sviluppato gli strumenti relativi.

    Se l’asse principale di tale prassi compositiva si stabilisce tra Venezia e Bologna, è del tutto naturale che nella stessa area italiana settentrionale (con centro a Cremona) metta radici la più importante scuola di liuteria. Ad Andrea Amati succedono i figli Antonio e soprattutto Girolamo (1561-1630), il più importante e sensibile all’evoluzione del gusto, che, oltre a prediligere la dolcezza e la nitidezza del suono (caratteristica principale degli strumenti del padre), richiedeva un grado superiore di potenza sonora, secondo l’esigenza degli ambienti più vasti in cui si cominciava a presentare la musica.
    Fino a Nicola Amati (1596-1684), figlio di Girolamo, l’obiettivo a cui mira il costruttore è ancora quello di un suono intimo, filato, fatto per deliziare orecchi fini. Per quanto ci siano stati trasmessi come manufatti bellissimi e incantevoli, nessun violinista oggi potrebbe impiegarli nelle moderne sale opportunamente adattati a eseguirvi i concerti del repertorio classico-romantico.

     VIOLINO

    Antonio Stradivari imparò il mestiere da Nicola Amati e fin verso il 1680 rimase nella sua orbita. Nel decennio successivo cominciò a scostarsene, a rinforzare gli angoli dello strumento e a renderlo più sonoro. Dopo il 1690 i prodotti di Stradivari acquisirono la loro piena individualità inaugurando una nuova epoca nella fattura violinistica. Oltre alle qualità estetiche esteriori, di una bellezza fatta per l’ammirazione degli occhi, i violini si allungano per acquisire le qualità sonore degli antichi maestri bresciani, famosi per il loro timbro scuro.
    Il periodo d’oro di Stradivari si situa negli anni tra il 1700 e il 1720: a quest’epoca risalgono gli strumenti più famosi recanti la sua firma. Sono anche gli anni in cui il suo interesse si estende al violoncello, nella costruzione del quale primeggia con le stesse qualità individuali, in particolare per la ricchezza di timbro che lo strumento riesce a mantenere anche suonando pianissimo.

    Il primato che la sua produzione riuscì a garantirsi in vita ne fece immediatamente leggenda e gli procurò imitatori che si accaniscono ancor oggi a studiare il rapporto fra proporzioni, materiale, vernice, impiegati nella fattura dello strumento e le sue qualità sonore. Il rapporto dell’artefice con il proprio strumento non è mai stato infatti di tipo scientifico-industriale, bensì intuitivo. Si pensi alla componente rituale che in Stradivari accompagnava la fase di costruzione. La scelta del legno era dettata dalle fasi in cui si trovava la luna al momento in cui era stato tagliato. In seguito lo esponeva al sole per molto tempo affinché immagazzinasse energia e calore. E quando lo strumento era montato usava conservarlo per un mese nella propria camera da letto dove dormiva con la moglie, forse allo scopo di trasmettergli la sua vigorosa energia. Chi sostiene questo allude maliziosamente al fatto che Stradivari visse fino a novantatré anni, che ebbe due mogli e undici figli, e che costruì il suo ultimo violino (denominato “Canto del cigno”) un anno prima della morte.

    stradivari al lavoro 

    D’altra parte occorre riconoscere che gli strumenti di Stradivari, i 400 oggi in circolazione degli oltre mille che uscirono dalla sua fucina, sono maturati nel tempo (e si sono probabilmente trasformati nella loro natura) a seguito di un impiego inizialmente non previsto. Nell’Ottocento, obbedendo a un gusto e a una pratica che per la sala da concerto richiedeva una sonorità moltiplicata, le corde in metallo sostituirono quelle originali in budello, mentre lo strumento nel suo insieme fu sottoposto ad accresciuta tensione.

    La personalità di un violino antico è quindi quella di un continuo divenire. Interessante è l’opinione di Salvatore Accardo, secondo cui lo strumento recherebbe l’impronta del violinista che l’ha posseduto e suonato per lungo tempo: “L’ultimo Stradivari che ho comprato è appartenuto al grande Francescatti. Zino Francescatti era famoso per possedere un’intonazione perfetta, E anche il suo violino suona con la stessa perfetta intonazione tutte le note, non ha nessuna nota morta. Ora, l’anno scorso eseguivo a New York il secondo concerto di Paganini con questo violino che Francescatti mi aveva dato in prova e nell’intervallo viene un vecchietto a salutarmi in camerino. Era emozionato. ‘Sentendola suonare’, mi dice, ‘si capisce che lei ama molto Francescatti’. Veramente, se devo esprimere una preferenza, il violinista che ammiro di più è Ojstrach: però a quelle parole mi sono incuriosito egli ho chiesto perché. ‘Lei ha il suono di Francescatti’, mi ha risposto”.

     MESSIAH

    Non è privilegio di tutti i violinisti possedere uno Stradivari, ma di ognuno è sicuramente l’aspirazione. Accardo riuscì a procurarsi il suo nel 1968 dopo dieci anni di carriera. Cosa significhi perderlo, occorrerebbe invece chiederlo a Pierre Amoyal il quale nel 1987, lasciandolo incustodito nella sua automobile durante una sosta in una località italiana, se li lasciò rubare (strumento e vettura) quasi sotto il naso. Si trattava del Kochanski risalente al 1717 appartenuto allo Zar Nicola II e rispuntato due anni dopo con una richiesta di riscatto di tre miliardi di lire. Lieto fine: strumento recuperato e rapitori assicurati alla giustizia grazie all’irruzione dei carabinieri nel loro nascondiglio nel 1991.

    FINALE 2