• Diario d'ascolto
  • 2 Ottobre 2021

    RELIGIOSITA' DI STRAVINSKY

      Carlo Piccardi

    Solo all’apparenza Igor Stravinsky fu in prima linea a dettare i modi d’essere della musica del Novecento. Come in ogni grande artista vi troviamo livelli che lo collocano quasi al di fuori del tempo. È ciò che Massimo Mila riscontrava in uno dei suoi capolavori:
    "La religiosità della Sinfonia di salmi [1930] è quella, totale e ieratica, delle vecchie icone bizantine. Immagini dove nulla rimane di umano che non sia la fede. La voce umana e quella strumentale si mescolano l’una all’altra, così come in quelle icone dell’antica pittura russa il fondo d’oro penetra talvolta nel colore della figura, quasi a sostanziarlo d’una realtà ultraterrena".

    Le sue composizioni religiose sono quelle che più recano il segno del rapporto con la tradizione. In verità non c’è musica del grande russo che non denoti il confronto con forme e modi storici; la stagione ‘neoclassica’ addirittura programmaticamente.
    Ma certamente è nelle composizioni religiose che egli rivela maggiormente la portata di tale relazione. E non poteva essere altrimenti in un compositore ‘moderno’ sì nella coscienza di appartenere al grado avanzato della coscienza estetica, ma in cui non è mai venuto meno il senso del far musica come servizio reso alla società, nel solco della tradizione, addirittura rivalutando il principio della sua funzionalità. Se i Tre cori (Pater noster del 1926, Credo del 1932, Ave Maria del 1934) si sono diffusi e sono riconosciuti su testo latino nella versione ‘romano-cattolica’ pubblicata da Boosey&Hawkes nel 1949, originalmente erano stati pubblicati nelle Éditions Russes de Musique di Kusevickij, portando l’indicazione “per il servizio ecclesiastico” e avendo il solo testo slavo.
    Così la Messa (1944-1948) fu concepita negli stessi termini. In Memories and Commentaires (trad. it. Igor Stravinsky-Robert Craft, Ricordi e commenti, Adelphi, Milano 2008) leggiamo: "Volevo che la mia Messa fosse utilizzata liturgicamente, e questo era impossibile nella Chiesa russa perché essa proscrive gli strumenti nelle sue funzioni, e io posso sopportare il canto non accompagnato soltanto nella musica armonicamente più primitiva.

    Canticum sacrum 

    Il compositore, che ha sempre sottolineato la sua fedeltà alla chiesa ortodossa, ha riconosciuto l’importanza della Chiesa rimpianta come sede di uno sviluppo di forme musicali impareggiabili, tanto da renderci più poveri senza le funzioni musicali sacre (le messe, i mottetti, i vespri, le lamentazioni dei cattolici, le passioni e le cantate per tutto l’anno dei protestanti), sostenendo che “queste non sono forme defunte ma parti dello spirito musicale in disuso”. Di qui la constatazione secondo cui "La musica dell’Ottocento e del Novecento è tutta profana, e 'espressivamente' e 'emotivamente' va più in là di qualsiasi cosa della musica dei secoli precedenti: l’Angst in Lulu [di Alban Berg], per esempio – dove più che la gloria risuona la violenza -, o la tensione, il perpetuarsi del momento dell’epitasi nella musica di Schönberg. Dico soltanto che senza la Chiesa, 'lasciati fare a modo nostro', siamo impoveriti di molte forme musicali".

    Non c’è quindi da meravigliarsi se l’ultima fase dello sviluppo di Stravinsky, quella che lo portò a incorporare sorprendentemente la dodecafonia nel proprio orizzonte linguistico sia avvenuta nelle composizioni religiose. Ne fa stato già il Canticum ad Honorem Sancti Marci Nominis composto nel 1955 per essere eseguito nella Basilica di San Marco a Venezia, che si presenta come una sintesi del patrimonio secolare della musica religiosa occidentale.
    Il passaggio definitivo fu sancito tre anni dopo in Threni, id est Lamentatio Jeremiae Prophetae eseguito pure a Venezia nella Sala della Scuola Grande di San Rocco. Tuttavia qui non si avverte uno stacco sostanziale rispetto alle precedenti esperienze stravinskiane. Giustamente Roman Vlad ha notato come “in effetti, ascoltando Threni, che pure è un’opera interamente dodecafonica e seriale, si riceve l’impressione di un’opera governata dalla stessa sensibilità tonale e modale che era tipica di tutte le opere di Stravinsky, dalla sua prima maturità in poi”.

     STRAVINSkY COVER

    Nonostante il vasto dispiegamento di mezzi sonori – benché siano assenti i fagotti e le trombe vi troviamo 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 4 clarinetti, 4 corni, 3 tromboni, flicorno contralto (bugle), sarrusofono, tuba, pianoforte, arpa, celesta, tam-tam, timpani, violini primi e secondi, viole, violoncelli, contrabbassi – egli evita di impiegarli in modo compatto ma è orientato a selezionarli nelle più svariate combinazioni, giungendo a creare varie forme di addensamento e a produrre una vasta differenziazione di zone timbriche caratterizzate da una trasparenza che non può non rimandare al significato spirituale del tutto. L’impianto dodecafonico certamente non manca di imporvi una configurazione di intervalli divaricati, ma, a trattenere il tutto in una sostanziale linearità del discorso, sono le figurazioni fondate sui gradi congiunti rispettosi dell’unità della parola, non di rado sancita dai passaggi ‘recitativi’ basati sulla stessa nota ribattuta con ritmica insistenza. Mai in tale scelta di scrittura Stravinsky giunge a quegli esiti di vocalità lacerata che caratterizzarono gli esiti ‘espressionistici’ della dodecafonia delle origini. Viceversa egli rivela una straordinaria capacità di svolgere il discorso in una scorrevolezza senza pari. Semmai, nell’economicità dei mezzi dispiegati, il compositore denota la coerenza di sempre nel mirare all’essenzialità, all’asciuttezza dell’espressione.