• Diario d'ascolto
  • 15 Maggio 2022

    BACH AL PIANOFORTE

      Carlo Piccardi

    Il primo incontro di Bach con il pianoforte avvenne probabilmente nel 1726 su uno strumento costruito da Gottfried Silbermann, che non gli piacque. Un altro incontro dev’essere avvenuto in occasione dell’invito a Potsdam dove poté visitare la collezione dei nuovi strumenti posseduti da Federico II. È anzi probabile che il Ricercare a 3 dell’Offerta musicale venisse improvvisato da Bach su un pianoforte Silbermann della raccolta regia. Al di là di queste occasioni non è accertata nessuna prova dell’interesse di Bach per lo strumento che sarebbe diventato uno dei principali veicoli della sua musica.

    La rivendicazione ufficiale di Bach al pianoforte avvenne con il musicologo ottocentesco Philipp Spitta il quale, riconoscendo che il musicista non poteva essere attirato dal pianoforte primitivo, sosteneva che certamente avrebbe trovato soddisfazione nell’equivalente moderno.
    In verità a quel momento Bach al pianoforte era già una realtà, grazie soprattutto ai didatti che ne avevano praticamente fatto la bibbia dei pianisti. Muzio Clementi aveva introdotto Bach nell’elenco dei compositori riuniti nell’appendice del suo metodo, mentre dopo il 1830, con i romantici il musicista assurse addirittura a categoria didattica, non a un primus inter pares quindi ma a punto supremo di riferimento al di fuori del tempo. Tale esito è evidentemente da porre in relazione con la riscoperta di Bach quale punto focale della storia della musica, riconosciuto come compimento di una sintesi senza uguali tra passato e futuro.

    Muzio Clementi
    Muzio Clementi

    A capo di tale processo di rivalutazione è da porre Carl Czerny il quale, in quanto allievo di Beethoven, aveva ereditato dal maestro l’amore per Bach e in particolare l’apprendistato sul Clavicembalo ben temperato, di cui curò un’edizione che dettò legge per molti decenni.

    Un approccio a questa edizione più che servire a una lettura di Bach è l’occasione per penetrare nel gusto dell’epoca, attraverso la velocità rapida, la violenza degli accenti e i bruschi effetti dinamici. L’opera non può sfuggire infatti alla necessità di sopravvivere attraverso il tempo e quindi all’inevitabilità di doversi adattare a mutevoli condizioni di gusto. In questo senso la musica di Bach costituisce un paradigma, confermando la dimensione estetica aperta dell’opera d’arte, prodotto bifronte della fantasia creativa del proprio autore e della propria epoca, destinata a coesistere con i tratti determinati dal modo d’intendere e di sentire delle epoche successive indotte ad appropriarsene. 

    Czerny
    Carl Czerny

    Si veda il destino della Fantasia cromatica e fuga risalente al 1730 circa ma stampata per la prima volta a Londra nel 1806 con aggiunte non autografe. L’edizione che ha segnato la fortuna del brano è però quella del 1809 curata da Friedrich K. Griepenkerl e integrante le modifiche risalenti a Johann N. Forkel (primo biografo bachiano) il quale le aveva a sua volta ricevute da Wilhelm Friedemann Bach, figlio del maestro ma esponente di una generazione successiva. Si dà quindi il fatto che tale edizione corrisponda più che altro allo stile «sentimentale» della Germania del nord, col risultato di favorire la sua diffusione presso il pubblico romantico. La libertà da «recitativo» di tale brano induceva d’altronde a una lettura libera che, senza testimonianze sonore, possiamo solo immaginare ma che sicuramente doveva essere molto lontana sia dai criteri interpretativi di Bach stesso sia da quelli validi oggi: Mendelssohn scriveva alla sorella affermando di intendervi l’esecuzione degli arpeggi secondo la maniera virtuosistica di Thalberg. Esistono tuttavia le revisioni stampate dell’opera capaci di rivelarci in che misura il diverso criterio interpretativo incidesse sulla sostanza della composizione.

    Fantasia cromatica e fuga

    La revisione di Hans von Bülow, attraverso i raddoppi, mira alla plasticità mantenendovi tuttavia l’espressività in senso lineare che viene invece messa in questione da Busoni la cui revisione è stata definita da Piero Rattalino «simbolistica», intesa cioè a mettere in luce la struttura per accordi («quasi organo») riservante all’arpeggio («quasi arpa») funzione ornamentale di collegamento.

    Fantasia cromatica e fuga
    Ferruccio Busoni

    Paradossalmente il problema è rimasto anche quando la sensibilità storicistica ha portato al recupero dell’originale sonorità del clavicembalo. L’operazione condotta da Wanda Landowska a partire dal primo decennio del Novecento in verità risulta più che mai ambigua, fondandosi su un clavicembalo da concerto concepito per la vastità delle moderne sale, per certi aspetti più vicino al pianoforte che al modello a cui s’ispira. L’audizione delle memorabili esecuzioni della grande clavicembalista attraverso il disco rivela come la novità della sonorità (pretesa originale) servisse a mascherare in realtà il ritorno a una concezione romantica esasperata, ricca di effetti di rubato e mirante a suscitare atmosfere di mistero, ecc. Una svolta radicale del gusto avvenne nell’ultimo dopoguerra, soprattutto da parte di Rudolf Serkin, le cui esecuzioni bachiane spoglie e ascetiche reggono ancora alla concorrenza dei clavicembalisti dell’ultima generazione, impegnati da una parte a restaurare lo strumento negli originali caratteri settecenteschi e dall’altra a ridare vita ai principî interpretativi riscoperti con la filologia. 

    Landowska
    Wanda Landowska

    Anche a questo livello tuttavia non mancano i paradossi. Il confronto tra una delle esecuzioni bachiane di Trevor Pinnock e il corrispondente pianistico risalente agli anni Trenta di Maria Judina, interprete stravinskiana fra le più illustri che dell’estetica oggettivistica del grande russo si era nutrita per sviluppare un tagliente stile interpretativo, rivela affinità sorprendenti e significative. Ciò che oggi figura come applicazione dei risultati dell’indagine scientifica in altre parole non sarebbe altro che il travestimento musicologico di un gusto ben circoscritto che ci lega alla nostra epoca.

    Serkin
    Rudolf Serkin

    A questo punto, di fronte alla relatività della situazione, si potrebbe anche perdere il coraggio: dove sta infatti il vero Bach? Oppure: è mai esistito un vero Bach attraverso l’interpretazione? In verità è necessario prendere il termine (interpretazione) alla lettera, nel senso che nel fenomeno indicato l’esecutore con i portati della sua epoca conta quanto l’autore stesso in un rapporto che, come gioco di specchi, instaura una dialettica a cui è impossibile sottrarsi. Prenderne coscienza non significa solo imparare a giudicare relativisticamente, ma sicuramente a cogliere la natura stessa dell’opera d’arte, da intendere non come statica testimonianza di esperienza individuale, ma più fondamentalmente come realtà rispecchiante le molteplici relazioni del collettivo e soprattutto come atto comunicativo, aperto verso i fruitori, come atto partecipato, vivo proprio per le ambiguità di senso sprigionate in un complesso rapporto che è indispensabile cogliere nel divenire.

    Immagine di copertina: Johann Sebastian Bach alla corte di Federico II