• OFFICINA LETTERARIA
  • 21 Luglio 2017

    Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline

      Alessia Moretti

    Se volessimo trovare un antesignano della scrittura contemporanea dovremmo sicuramente volgere le nostre ricerche verso Céline, con Viaggio al termine della notte del 1932.

     

    Il personaggio principale, Ferdinand Bardamu, è un giovane francese che durante la prima guerra mondiale decide di arruolarsi nell’esercito come volontario. Una volta ferito, inizia il suo lungo viaggio tra l’America, l’Africa per poi tornare in Francia nel ruolo di medico.

     CELINE UNO

    Ma cos’è che rende questo romanzo un taglio nella tela? In fondo di romanzi sulla guerra ce ne sono differenti e dall’intreccio piuttosto competitivo. Ma è l’approccio narrativo che cambia, coinvolgendo il lettore in una nuova esperienza artistica, in cui ogni strumento letterario del passato decade. Ci si sente inizialmente spaesati, per poi essere immersi totalmente in un’atmosfera tragicomica, la cui tinta predominante è composta da una scala illimitata di grigi.

    Il tessuto del testo è ordito da una scrittura asciutta, diretta, che nel solo togliere racconta più di una riga affollata di parole. Una lingua, di frequente, che si piega anche verso il parlato comune, sciatto e sfuggente, ma incisivo e reale. Un incipit che già ci preannuncia, in una linea, lo stile che seguirà:

    È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare.

    Arriva così, come il suono di una granata in lontananza che tronca il silenzio. Attesa, turbamento, curiosità. L’attenzione viene afferrata subito dallo stomaco.

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    Questo il mezzo di Céline per animare il testo con una forza inconsueta, quasi viva. Le parole si avvicinano al lettore, denudate di ogni peso superfluo. Tali da essere assorbite immediatamente sotto pelle. Ciò permette all’autore di potersi esprimere anche attraverso immagini molto creative. Spesso anche azzardate, ma decisamente espressive.

    Dopo, nient’altro che fuoco e poi rumore insieme. Ma proprio uno di quei rumori che uno non crederebbe mai possano esistere. Ci ha riempito a tal punto gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca all’improvviso, il rumore, che ho creduto proprio che era finita, che ero diventato fuoco e rumore io stesso.

    Infatti quando il suo editore, Robert Denoël, ricevette il manoscritto, vide in quell’opera una scommessa audace e si entusiasmò. Il corpo del romanzo era inconsueto, quasi stravagante, ma aveva un respiro ardente. I tipografi all’inizio decisero di rimaneggiare il testo: tolsero le virgole e aggiustarono la punteggiatura. Quando l’autore venne a sapere del rimaneggiamento, andò su tutte le furie: “Non aggiungete una sillaba senza dirmelo! Mi buttereste all’aria il ritmo come niente!”

    E pertanto non si riuscì a ribattere ad un grande concertista delle humanae letterae come lui. D’altronde la poesia è dominata da una regola aurea, “la musica prima di tutto”, come enunciò Verlaine.

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    Celine si è dimostrato, inoltre, anche un linguista attento. Egli infatti aveva un interesse maniacale, quasi da antropologo, per il parlato quotidiano. Capì in quel modo che nella composizione del testo doveva essere attento a dosare i diversi registri. Usare solo e troppo il gergo, sarebbe stato poco digeribile. Invece comprese che l’unica strategia vincente sarebbe stata quella di scatenare continue rotture semantiche per rendere il periodo più incalzante, con lampi di straniamento e di rivelazione.

    Il suo romanzo, o meglio, il suo Voyage, è l’ossessione di un uomo per l’incommensurabile. Nonostante Bardamu affronti diverse esperienze, incontri tante persone, il protagonista non riesce a dare un senso ai gesti inconsueti e meschini degli esseri umani. Esegue quindi, nel corso del romanzo, un’analisi molto cruda della società.

    È degli uomini e di loro soltanto che bisogna avere paura, sempre. Quanto tempo doveva durare il loro delirio, perché si fermassero stremati, alla fine, ‘sti mostri?

    I viaggi di Bardamu, da un continente e l’altro, confermano i suoi dubbi. Anche se peregrina per molto tempo è difficile per lui trovare una sua via nel mondo. Parte, esplora mondi lontani, per poi tornare al punto di partenza e dedicarsi a quegli stessi afflitti che a loro volta sono anche carnefici.

    La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra.

    CELINE DUE

    L’aspra polemica di Céline diventa anche sociale. La guerra, infatti, è la lente attraverso la quale riesce a focalizzare la mediocrità dell’uomo, posto di fronte ad una situazione di sopravvivenza o di violenza gratificante. Il conflitto armato è visto soprattutto come un ordigno diabolico, destinato ad esplodere arbitrariamente, coinvolgendo chiunque, senza neanche quel perché, che ci possa consolare dalle barbarie.

    Le immagini che scorrono sulle pagine sono, di fatto, quelle di una collettività ipocrita e feroce, che ignora quali siano i crimini su cui poggiano i propri privilegi, trascurando quale sia il significato della pietà e della dignità. Temi questi, purtroppo, ancora molto attuali. Come volevasi dimostrare, aggiungerebbe Céline.

    Ah! Cosa avrei dato in quel momento per essere in prigione invece d’esser lì, come un cretino! Per avere, per esempio, quand’era così facile, con un po’ di previdenza, rubato qualcosa, da qualche parte, quando c’era ancora tempo. Si pensa a niente! Dalla prigione ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto, sono parole.

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