• OFFICINA LETTERARIA
  • 4 Settembre 2018

    L'immensità del frammento e l'eternità dell'attimo. Suggestioni del Japonisme nella cultura occidentale tra Ottocento e Novecento. Prima parte

      Alberto Panza

    Negli anni Trenta del Novecento Alfred Barr, primo direttore del Museum of Modern Art di New York, allestì due mostre memorabili: Cubism and Abstract Art nel 1936, seguita da Fantastic Art, Dada and Surrealism nel 1937, una operazione critica che favorì un approfondito confronto tra gli artisti statunitensi e l’opera delle Avanguardie europee. 

     

    Nella copertina del catalogo della prima mostra venne pubblicato un diagramma dei movimenti che attraversano la prima parte del Novecento europeo (fig.1), una specie di genealogia dell’arte contemporanea in cui in alto a sinistra, all’origine di tutta questa diramazione, vengono poste le stampe giapponesi. 

    Si tratta di un esplicito riconoscimento del ruolo svolto dal Japonisme nel profondo rinnovamento che investì l’espressione artistica in Occidente, non solo nell’ambito delle arti figurative, ma anche nelle cosiddette arti applicate e nella nascita del design, in architettura, in musica e nella poesia. Per designare questa tendenza viene correntemente utilizzato il termine Japonisme, dato che il suo epicentro fu Parigi, da cui si diffuse in tutto l’Occidente.

    Fig. 1
    Fig.1. Copertina del catalogo della mostra Cubism and Abstract Art, (1936).

    Nel 1853 il Giappone, dopo un lungo isolamento, aveva riaperto le proprie frontiere e cominciarono ad affluire, anche per il tramite delle Esposizioni Universali, tutta una serie di manufatti e soprattutto le stampe dell’Ukiyo-e, che per gli occidentali erano più facili da capire, ma che conservavano comunque le tracce dello spirito più autentico della pittura giapponese. 

    Nell’XI secolo, in corrispondenza del nostro romanico, si era diffusa nella terra del sol levante quella corrente del buddhismo detta C’han in Cina e Zen in Giappone, che aveva permeato in profondità la vita e la cultura di quel popolo. Vennero costruiti diversi monasteri, che godevano del favore degli imperatori e degli Shogun: il terzo e più celebre degli imperatori della dinastia degli Ashikaga, che governò il Paese dal 1300 al 1500, abdicò a trentasei anni e si fece monaco, come molti altri dopo di lui. 

    I monasteri, caratterizzati da una originale concezione dello spazio architettonico, divennero anche centri di pittura e in quel periodo iniziarono le rappresentazioni del teatro NŌ, che traggono origine dalle recite dei monaci pellegrini. Dunque pittura, architettura, poesia, teatro, musica restano solo parzialmente comprensibili senza il riferimento allo spirito dello Zen. 

    La pittura, ad esempio, non produce oggetti da contemplare passivamente, ma è essenzialmente, una fase della esperienza meditativa. A differenza della pittura occidentale, che predilige il formato quadrato, i supporti tipici della antica pittura ad inchiostro, di derivazione cinese, sono il rotolo orizzontale (makemono) e il rotolo verticale (kakemono). Il modo corretto di contemplare questi manufatti (fig.2) era quello di svolgerli lentamente, dal basso verso l’alto per i rotoli verticali e da destra verso sinistra per quelli orizzontali, avendo cura di riavvolgerli progressivamente, scoprendo ciò che vi era raffigurato poco a poco, come se si compisse un percorso all’interno dello spazio raffigurato. Inoltre, per lo spirito giapponese antico la pittura aveva una funzione simile ad altre pratiche come la cerimonia del tè, l’ikebana o il tiro con l’arco, che ad una osservazione superficiale possono sembrare passatempi salottieri o attività ricreative, non comprendendone così la profondità e la ricchezza originarie. 

    Fig. 2Fig. 2. Makemono, Paesaggio invernale. Inchiostro su carta (XVIII sec.).

    In Giappone si tratta di pratiche che hanno una dimensione di ricerca spirituale e in questo senso vengono accumunate dalla medesima denominazione di “via” (do): Ken-do (la via della spada), Kyu-do (la via dell’arco), Cha-do (la via del tè), Sho-do (la via del pennello, che comprendeva pittura e calligrafia). 

    Interpretare l’arte giapponese in senso formalistico o come una riproduzione oggettiva della realtà significa fraintenderla: l’arte, come le altre pratiche rituali, era essenzialmente un dispositivo di accordatura, una forma di armonizzazione e pacificazione della mente, un supporto alla ricerca dell’equilibrio psicofisico.

    Il procedimento operativo del maestro pittore prevedeva una sequenza di atti che andavano scrupolosamente eseguiti in successione (fig.3) e comprendevano:

    -  la scelta e la disposizione dei pennelli, che venivano costruiti con le proprie mani, utilizzando cannucce di bambù e pelo morbidissimo;
    -  la scelta dei colori, in bastoncini o in polvere, che venivano accuratamente diluiti secondo varie gradazioni;
    -  la scelta del supporto in carta o in seta.

    Fig. 3
    Fig. 3. Disposizione preliminare degli strumenti per la pittura ad inchiostro.

    Per i nostri pittori queste sono mere operazioni preliminari, che di solito venivano affidate ad aiuti o collaboratori, mentre per il maestro giapponese facevano parte integrante del rituale. Compiuta questa preparazione, il maestro si raccoglieva in una lunga meditazione silenziosa, cercando di raggiungere uno stato di concentrazione assoluta. 

    Ecco come Wang Yuan Chi, autore di un famoso manuale di pittura del XVII secolo descrive questo procedimento: “Si deve concepire l’idea prima di afferrare il pennello, questo è il punto principale della pittura. Quando il pittore prende il pennello deve essere completamente tranquillo, sereno, calmo e raccolto ed escludere tutte le emozioni volgari. Deve sedere in silenzio davanti al rotolo di seta bianco, concentrando il suo spirito e controllando la sua energia vitale”.
    E all’improvviso, di getto, senza esitazioni, senza correzioni, potremmo dire senza pensare, la mano partiva ed il maestro realizzava la pittura. “Le japonais dessine vite, très vite, comme un éclair”, scriveva, pieno di ammirazione Vincent van Gogh al fratello Théo nel giugno del 1888. 

    Fig. 4
    Fig. 4. Maestro di Shodo.

    La lunga concentrazione preparava questo evento che doveva condensarsi in un unico atto, tanto più che il tipo di strumento utilizzato, il pennello a punta morbida, per non spandere l’inchiostro o il colore deve essere condotto con un gesto rapido e continuo, senza la minima esitazione e senza possibilità di correzione. L’arte del dipingere ha un elemento essenziale nel gesto stesso, una specie di parte coreografica (fig. 4): bisogna infatti dipingere senza appoggiare la mano sul foglio o su un supporto, con il braccio teso, come nella pratica del tiro con l’arco, con cui ha diverse analogie, dato che si tratta, in entrambi i casi, principalmente di una disciplina psicofisica che mira alla ricerca della integrazione corpo-mente.  Questo aspetto può ricordare la danza della pittura gestuale di Jackson Pollock (fig. 5) in cui tutto il corpo partecipa: il gesto pittorico è come un’onda che si propaga dall’interno verso l’esterno. 

    Fig. 5
    Fig. 5. Jackson Pollock nel suo atelier (1949).

    Questo aspetto coreografico richiama il concetto di gesto espressivo: per dipingere il becco di un rapace ci vuole un gesto secco, incisivo, energico, diverso da quello che occorre per dipingere una foglia, le ali di una farfalla o di una libellula.

    Secondo lo spirito Zen la pittura non ha lo scopo di produrre oggetti belli, questo è una specie di effetto collaterale, ma è un dispositivo di accordatura del pittore stesso che mira a raggiungere una coesione di tipo intimo, non intellettualistico ma empatico, con ciò che viene raffigurato, ma soprattutto tende a favorire una coesione e una armonizzazione tra i pensieri e le tonalità emotive che accompagnano, come una musica di sottofondo, la nostra vita psichica.
    Non tutti gli artisti occidentali erano in grado di comprendere questa complessità di implicazioni, ma rimasero comunque affascinati dalla straordinaria forza delle soluzioni formali.

    La scoperta dell’arte giapponese coincise con un momento di ripensamento generale sui fondamenti stessi della rappresentazione artistica; il modo tradizionale di dipingere, così come era stato codificato dalle varie Accademie, si basava soprattutto sulla importanza del contenuto: al vertice c’era la triade dei generi nobili (pittura religiosa, pittura di storia o di soggetto mitologico), quindi il ritratto celebrativo e il nudo accademico. Seguiva il paesaggio, considerato quasi un sottogenere e infine la natura morta, pure apprezzatissima dal pubblico borghese, che si situava quasi al confine con l’esercitazione. 

    Un esempio del gusto dominante può essere il quadro Les Romains de la décadence, di Thomas Couture (fig. 6), per cui l’autore venne insignito della Legion d’Onore, dopo il trionfo ottenuto al Salon della Académie des Baux Arts nel 1847. Per questo tipo di pittura gli oppositori coniarono il temine di stile ‘pompier’.Un quadro enorme (m. 5x7), comese la dilatazione delle dimensioni dovesse surrogare la perdita della forza espressiva. 
    Il giovane Edouard Manet frequentò per alcuni anni l’atelier di Couture, ma questo fu il suo commento: “Non so che ci faccio qui, quando arrivo all’atelier mi sembra di entrare in una tomba”.

    POMPIER
    Fig. 6. Thomas Couture, Les Romains de la decadence (1847). Paris, Musée d’Orsay.

    In questo clima, con l’Accademia arroccata nella difesa della tradizione e alcuni giovani pittori che si muovevano come personaggi in cerca di autore, cominciò a soffiare il vento del Japonisme (come quello che anima i paesaggi di Utagawa Hiroshige fig. 7), in cui si può notare l’uso di diverse gradazioni di tono in luogo del chiaroscuro uniforme o il movimento dinamico dato dal taglio diagonale rispetto alla adozione del punto di fuga centrale.

    Fig. 7
    Fig. 7. Utagawa Hiroshige, Paesaggio fluviale. Stampa dalla serie Le sessantanove stazioni del Kisokaido (1842).

    La passione per le stampe dell’Ukiyo-e è testimoniata da un quadro di James Whistler, il raffinatissimo pittore inglese amico di Edouard Manet, con cui condivise le beffe del pubblico al Salon des Refusées del 1863: in uno spazio chiuso da un paravento dorato (fig. 8) una modella, che indossa un raffinato kimono, è intenta ad osservare proprio una serie di stampe di Hiroshige.

    FIig. 8
    Fig. 8. James Whistler, Caprice en violet et or le paravent doré (1864). Washington, Freer Gallery of Art.

    Questo tipo di opere venivano esposte e vendute in alcune botteghe che divennero rapidamente un luogo di incontro non solo di amatori e collezionisti ma anche di artisti, come la bottega di Madame Desoy su Rue de Rivoli e soprattutto la bottega aperta in Rue de Provence da Siegfried Samuel Bing, figlio di un ceramista tedesco che si trasferì a Parigi nel 1854 e aprì la sua bottega di arte orientale nel 1871.
    Bing ebbe l’intelligenza di capire dove tirava il vento: oltre ad una memorabile serie di esposizioni delle stampe di Katsushika Hokusai, Hiroshige e Kitagawa Utamaro, promosse la fondazione della bellissima rivista mensile Le Japon artistique (fig. 9): La rivista trilingue, redatta in francese, inglese e tedesco, fu uno dei veicoli che contribuirono maggiormente alla diffusione del japonisme in Europa e sulle sue pagine apparvero una serie di studi, come quelli di Edmond de Goncourt che approfondirono l’importanza del fenomeno. 

    FIG. 9
    Fig. 9. Copertina di Le Japon artistique, n.14 (1889).

    Le Japon Artistique uscì per trentacinque numeri, fino al 1891, quando ormai il movimento japoniste era universalmente riconosciuto: in uno degli ultimi numeri il critico Roger Marx scrisse che il Japonisme aveva avuto, per l’arte moderna, una importanza pari a quella che l’antichità classica aveva avuto per il Rinascimento.
    Nel 1893 Samuel Bing cambiò sede e diede alla sua bottega e alla rivista un nome profetico: L’art nouveau (fig. 10) che designò la corrente artistica, che conobbe una estensione planetaria, dall’Europa centrale alla Russia e agli Stati Uniti, anch’essa profondamente permeata di Japonisme.

    Fig. 10
    Fig. 10. Ingresso della galleria L’art Nouveau (1901).