• Diario d'ascolto
  • 15 Aprile 2021

    L’idea della morte in Dvořák

      Carlo Piccardi

    Mai musicista così impegnato a sviluppare una civiltà musicale nazionale poté, al pari di Dvořák, godere di vasta fama al di là dei confini del proprio paese. Più del consenso che subito gli arrise nell’area tedesca, nella quale storicamente e politicamente la nazione ceca oltretutto si collocava, è sorprendente il successo che la sua musica ottenne in Inghilterra e più tardi in America, dove nel 1892 si recò per dirigere il conservatorio di Nuova York

    DVORAK GIOVANE.

    In particolare l’Inghilterra vittoriana, dove la pratica musicale riservava largo spazio alle sontuose esecuzioni oratoriali che cercavano di rivaleggiare con le memorabili testimonianze di Händel, con la presentazione a Londra nel 1883 del suo Stabat Mater gli tributò onori altissimi che in quel pubblico risvegliarono lo stesso interesse e lo stesso desiderio di appropriazione decenni prima riservati a Händel e a Haydn, importati dal continente a risollevare le sorti di una musica che continuava a languire nell’accademismo.

    STABAT MATER 3

    Più volte Dvořák fu invitato in Inghilterra a dirigere le proprie opere e spesso la composizione di grandi affreschi corali dipese dalle occasioni che in suo favore furono predisposte in quel paese.
    In verità il Requiem op. 89 fu composto per il Festival di Birmingham del 1891 e precede di poco il conferimento del dottorato honoris causa che gli sarebbe stato concesso dall’Università di Cambridge. Tuttavia poco più di una veste esteriore giustifica la predilezione della società vittoriana per la sua produzione corale, la quale invece concentra le sue preoccupazioni sul compito di assicurare un respiro epico a una musica che, sulla scorta dell’eredità di Smetana, si era ormai assicurata una caratterizzazione nazionale. Nonostante il fatto che il Requiem fosse presentato in prima mondiale a Birmingham, la verifica come sempre sarebbe stata condotta successivamente sul pubblico di Praga.

    REQUIEM

    Ugualmente, di fronte agli inviti allettanti di scrivere un’opera teatrale su libretto tedesco per garantirle sicura circolazione, il compositore rimarrà sempre coerentemente fermo alla responsabilità di sviluppare l’opera in lingua ceca a cui, per il significato che rivestiva nella cultura del paese soprattutto dopo la fondazione del Teatro nazionale di Praga, riservò le sue migliori energie se non proprio la parte migliore del suo talento. Qualità che è accertata nella sua produzione oratoriale, nel dolente respiro dello Stabat Mater soprattutto, ma anche nella candida fede che il Requiem riesce a esprimere come equilibrio fra la predisposizione alla semplicità e un modello di comunicazione esemplato sull’espressione popolare.
    Il Requiem rivela un impianto che, nelle dimensioni, regge il confronto con i monumentali modelli sinfonico-corali dell’Ottocento, ma in realtà solo esteriormente vi si apparenta. Le squillanti intonazioni del “Dies Irae”, è vero, ripercorrono lo stesso luogo comune suscitato dalla rappresentazione del giorno del giudizio con gesto fremente e minaccioso, ma, oltre al furore indotto dal testo in altri momenti cruciali della composizione, non possiedono altra funzione che quella di mostrare l’assunto in un modo che evita l’accademismo e in un rapporto che si risolve tutto a favore di una concezione capace di piegarsi umilmente al significato di edificazione collettiva che Dvořák ricava dalla provocazione liturgica. Così più che dalla cromatica cellula tematica che ricorre come leitmotiv, il filo del discorso è condotto dalla mesta voce del corno inglese il quale emerge in quasi tutti gli incisi strumentali, chiamato in causa a stemperare il furore iniziale di “Confutatis maledictis” ad esempio, oppure a diluire i densi impasti timbrici in una visione capace in qualsiasi momento di recuperare una serenità contemplativa che, accondiscendendo addirittura al pastorale, riporta in evidenza il richiamo popolaresco come motivazione di fondo della creatività del compositore boemo. 

    DVORAK MATURO

    Uguale stampo si lascia riconoscere nel trattamento corale che, in particolare negli episodi a cappella, costituisce una vera e propria resa all’omoritmia popolaresca. Il contrappunto realizzato negli avvii fugati emerge in soli due casi (“Rex tremendae majestatis” e “quam olim Abrahae”); non più di una sottolineatura come riferimento a una retorica d’obbligo, peraltro risolta senza soggiacere ai troppo severi vincoli di una forma oratoriale mai messa in discussione. L’idea della morte infatti in questo Requiem non è vissuta come conflitto di coscienza confrontata con la tragedia, ma trova sbocco esemplare in una serenità ritrovata al livello di una semplicità quasi infantile, in particolare nell’angelica evanescenza delle intonazioni corali riservate alle voci femminili dell’“Amen” che conclude il “Lacrimosa” o del “Sanctus” che consegue risultati ancor più eterei nelle riverberazioni del registro acuto degli strumentini.

    L’accento naïf di una musica che rifugge da ogni ambizione proclamatoria riconferma la qualità del magistero di Dvořák nella sincerità dei propri limiti ideologici che, per mezzo dell’apporto di un sicuro artigianato formale, lo preserva sia dalla tentazione di troppo alti voli sia dai pericoli della maniera. Accettando la propria condizione di ‘compositore ceco’ puro e semplice Dvořák poté assumere un ruolo di fronte al quale musicisti meno cauti fallirono e che l’avventura inglese, che già aveva consacrato al successo la serena predisposizione di un Haydn, gli assicurò in un modo che non può più sorprendere.