• Diario d'ascolto
  • 25 Novembre 2019

    Il rigorismo di Frank Martin

      Carlo Piccardi

    Come molti musicisti cresciuti in Svizzera Frank Martin si affacciò subito sulla scena musicale con sembianze eclettiche. La matrice francese si lascia riconoscere nei suoi primi saggi a volte in modo fin troppo limpido – come dimostra la Pavane couleur du temps (1920) dove la lezione raveliana appare assai più che una reminiscenza –, senza tuttavia implicare un allineamento nei confronti di acquisizioni culturali organicamente delineate nel contesto europeo.

     

    Prima di giungere a produrre qualcosa che permettesse di riconoscere un discorso incamminato lungo linee direttrici capaci di tracciare una fisionomia definitiva della sua personalità, i primi vent’anni della sua esperienza denotano nel compositore l’esigenza di essere messo a confronto con esperienze disparate, spesso assunte con valore di costrizione imperativa.
    Rinunciando a rincorrere l’esito del capolavoro è questo il periodo di Frank Martin trascorso in ricerche condotte quasi al limite del privato, in un lento lavoro di applicazione perseguito con scopo indagante. Riascoltando ad esempio il Trio sur des thèmes irlandais (1925), orientato tra le complessità di strutture ritmiche sovrapposte in combinazioni dove la modernità della concezione sembra essere messa alla prova da un discorso che pretende tuttavia di continuare ad affermare le sue capacità argomentanti, non possiamo fare a meno di notare la presenza di un interesse quasi sperimentale per gli aspetti tecnici di un linguaggio rivolto al superamento di una norma.

     MARTIN FOTO

    Tale atteggiamento rimarrà una costante nel modus operandi del compositore il quale rifuggirà sistematicamente da soluzioni semplicistiche, ricavando ogni volta lo stimolo da ostacoli coscientemente frapposti e superati in gesto di sfida, capace di assicurare all’espressività generosamente effusa una funzione proclamatrice di valori umanistici. Ciò serve ad inquadrare il problematico assunto della dodecafonia che compare già intorno al 1933, senza voler significare – nonostante l’approccio avvenisse in un’epoca in cui il sistema dei dodici suoni iniziava appena a configurarsi come alternativa di linguaggio al di fuori della cerchia schönberghiana – un’adesione alle premesse che ne avevano dettato la formulazione.
    Anche e soprattutto in questo caso tale assunzione per il compositore svizzero acquista valore di provocazione nei confronti delle proprie capacità compositive: «J’aime assez les barrières, parce qu’elles apprennent à mieux sauter». Qui si rivela con chiarezza definitiva l’autonomia della sua esperienza condotta in modo appartato in uno spazio motivato da esclusiva ricerca personale, lontana tanto dalla tradizione francese che costituì la sua educazione quanto dalle correnti europee alle quali la ‘scelta’ dodecafonica sembrò avvicinarlo.
    L’idea compositiva in Frank Martin si realizza sempre in forma coercitiva, nella scelta autoimposta di un compito arduo da condurre a compimento, come pensum capace di trovare nella difficoltà affrontata la molla decisiva dell’operazione creativa.

     MARTIN PAVANE

    Per convincersene basta porre mente all’inaspettata decisione di dedicarsi alla composizione di un’opera comica dopo la lunga stagione oratoriale che da In Terra Pax (1944) fino a Le Mystère de la Nativité (1959) riuscì a consacrare la fama di un compositore, giunto alla maturità in un ruolo che la sacralità di opere totalmente risolte nella riflessione religiosa sembrava precludere ad ulteriori sviluppi.
    In tal modo Monsieur de Pourceaugnac (1962) diventò «une espèce de purge (ou de clystère) que je m’inflige pour me guérir de mes oratorios», costringendo il musicista a inventare un linguaggio a lui nuovo con l’intento di assicurare alla farsa di Molière il respiro della quotidianità. Con quest’opera tuttavia tocchiamo il limite delle risorse che Frank Martin ha saputo adeguare allo scopo senza con ciò pervenire all’equilibrio di un risultato senza pecche. Quando il comico non costituisce vocazione non può offrire scampo all’ambizione artistica. La poesia del reale, attraverso la riscoperta della semplicità ritmica e la riduzione del discorso alla struttura lineare, non poteva attuarsi rinunciando ad affrontare la dimensione cruda della rappresentazione, istintivamente riportata dal contesto raffinato della strumentazione a visione addolcita della realtà.

    MONSIEUR DE POURCAUGNAC
    Frank Martin, Monsieur de Pourceaugnac. Opéra de Lausanne, 28 gennaio 2007

    Del comico in quest’opera rimangono solamente i piacevoli ammiccamenti timbrici a mimare una gestualità artefatta, alla quale la predisposizione all’astrattezza impedisce di conseguire capacità di caratterizzazione. L’aspetto pensoso, meditativo, della personalità di Frank Martin risulta infatti imprescindibilmente legato alla sua musica, dove la gravità costituisce il registro medio dell’espressione anche quando il messaggio non implica per necessità il riferimento alla condizione di cupa religiosità, come invece avviene nel cammino oratoriale da Golgotha (1948) al Requiem (1972), che tende a spostare verso il momento rituale e pubblico un’esperienza interamente votata al raccoglimento.

     FRANK MARTIN RIDE

    Perfino le composizioni che apparentemente sfuggono a questa osservazione, ad esempio la Petite Symphonie concertante (1945) divenuta celebre per limpida chiarezza di proporzioni e vaghezza di ricerca timbrica, sottendono un laborioso processo di concepimento. L’Adagio in particolare si esibisce come studio di strutture multiple che si sovrappongono ponendo in primo piano il sentimento di greve discorso che lentamente si organizza. L’affidamento a una forma canonica qui non si apparenta alla corrente neoclassica proprio in quanto la forma non vi emerge mai plasticamente riconfermata, ma viene ripercorsa attraverso un iter tortuoso al cui termine si situa come raggiungimento problematico e non ripetibile.
    L’applicazione intorno all’organizzazione cromatica del discorso non attua azioni scardinanti di sganciamento da strutture ovvie né agisce esasperatamente come funzione catartica, bensì obbedisce a un’esigenza di concentrazione, di ripiegamento teso a cogliere nella sostanza il gesto interiore. In questo senso nemmeno la monumentalità dei suoi oratori riesce a riconvertire il gesto nell’esteriorità, ma affidandosi al prevalere dell’ostinato trattiene la tensione dallo scaricarsi in vettori drammatici risolutori.

    IN TERRA PAX 

    Queste osservazioni si attagliano perfettamente alla sostanza di quello che rimarrà il capolavoro di Frank Martin, Le vin herbé (1938–1941) dove l’economia dei mezzi a disposizione, oltre a ridurre la portata del meccanismo contrappuntistico spesso paralizzato in statica ripetitività, toglie alla sonorità la capacità avvolgente e divagante per lasciarla affiorare come pallida emozione tradita da un’interiorità restìa a manifestarsi. Il lirismo di questo «chant d’amour» esorcizza il fuoco travolgente della passione con lo sguardo fisso al presentimento del destino in rapimento visionario.

     LE VIN HERBEFrank Martin, Le Vin herbé. Staatsoper di Berlino, 2013.

    Anche se in nessun altro lavoro egli non riuscirà più a riaccendere la carica trasfigurante che gli fu resa possibile dal contatto con la vibrante sostanza del poema di Bédier, Martin non cessò di percorrere l’itinerario dell’anima che in Der Cornet e nei Six Monologues de Jedermann, ambedue scritti nel 1943, lo collega al filone liederistico tedesco, quello della decadenza ovviamente, nel quale l’empito dei trasporti romantici rivive come mondo perduto, come nostalgia, ritrovando nel monologo il momento esemplare in cui confluisce, oltre alla cupa predisposizione all’autoriflessione, la seriosità e il rigorismo della propria calvinistica personalità, segregata lontano dai fasti.

    LE VIN HERBE 2Frank Martin, Le Vin herbé. Staatsoper di Berlino, 2013.

    In Frank Martin è infatti totalmente assente la mondanità, mentre la forte componente meditativa si risolve a volte in pura religiosità, privatamente esperita s’intende e mai liturgicamente affermata. Tale quadro problematico, prevalentemente risolto in un cammino personalissimo, pone spesso la sua opera al di fuori delle coordinate che hanno lasciato riferimenti durevoli nella moderna esperienza culturale, ma, anche se molto di quanto ha composto sarà riconosciuto come inattuale, la profondità del suo momento lirico continuerà ad assicurare a Frank Martin una posizione emblematica nella cultura musicale del nostro tempo.