• Diario d'ascolto
  • 21 Ottobre 2018

    CHOPIN CON ORCHESTRA

      Carlo Piccardi

    Sui due concerti per pianoforte e orchestra di Chopin è troppo facile ripetere i giudizi formulati fin dal primo momento e vertenti sullo squilibrio strutturale nel precario rapporto tra solista e orchestra. 

     

    In risposta a tali obiezioni sarebbe troppo comodo accontentarsi di considerare le date di composizione (1829-1830) che mostrano un compositore balzato alla notorietà a vent’anni o poco meno, con tutti i limiti che le ragioni del debutto poterono comportare. Presentate a Varsavia poco prima di lasciare la Polonia, ambedue le composizioni nacquero come biglietti di visita richiesti da una società ormai abituata a giudicare la musica in termini di competizione, di spettacolarità, di stimolo a facili emozioni; e in tale veste Chopin li presentò al suo arrivo a Parigi ottenendo, almeno in quell’occasione, l’elogio del severo Fétis. 

    CONCERTO NUMERO 1

    Il musicista sapeva che la sua affermazione sarebbe dovuta passare attraverso il confronto con Ries, Hummel, Moscheles e tutti quei compositori convertiti, dal ruolo assunto dalla musica nella società borghese dell’Ottocento, all’esigenza di competere l’un contro l’altro in termini agonistici, a volte addirittura di sfida implacabile. Chopin, dunque, pure accettò questa regola, ma non ne rimase schiavo. 

    Dopo il concerto parigino del 26 febbraio 1832 il Fétis, insieme ai pregi del Concerto in fa minore, ne elencava i difetti: “sovrabbondanza di modulazioni e un certo disordine nella concatenazione delle frasi producono l’impressione di ascoltare, più che una musica scritta, una improvvisazione. Ma questi difetti appartengono all’età dell’artista; scompariranno con una più matura esperienza”. 

    Il fatto è che proprio nelle carenze denunciate Chopin dimostra una maturità, una capacità di liberarsi dagli schemi usuali che assicureranno alla sua opera una funzione determinante nell’acquisizione di nuovi concetti formali ed espressivi, essenziali per lo sviluppo dell’esperienza non solo pianistica dell’Ottocento e oltre. 

    PLEYEL

    Questo per dire che improduttivo sarebbe impostare il discorso sui concerti chopiniani commisurandoli ai più perfetti equilibri raggiunti dai modelli mozartiani e beethoveniani. Poiché, se queste composizioni assunsero la forma del concerto solistico, ciò è da imputare a un passaggio obbligato che al musicista era imposto dalle convenienze del tempo, mentre la materia che in essi si agita già indica l’esigenza di ben altri tipi di formulazione. 

    Innanzitutto, oltre alla disinvolta libertà assunta nei confronti di una forma corrente ed ereditata, vi è individuato uno spazio stilistico al di là di ogni delimitante coordinata di ascendenza nazionale, poiché Chopin appare in definitiva assai meno polacco di quanto tedeschi possano apparire Mendelssohn o Schumann. In questo senso egli non può considerarsi romantico in senso ortodosso, nella misura in cui la relativa trattatistica teorizzava per l’esperienza artistica l’approfondimento delle origini nazionali. 

    Il nazionalismo di Chopin è invece ancora oggi un problema ancora tutto da indagare, senz’altro da ridimensionare, poiché se è inevitabile ammettere l’amore per il suo paese nelle manifestazioni ad alta temperatura patriottica che conosciamo attraverso le testimonianze, la sua musica risente della Polonia tanto quanto di molte altre influenze.

    Per quanto riguarda le mazurche ad esempio siamo portati a dar ragione a Piero Rattalino quando fa notare che “il folclore polacco finisce per assumere una dimensione affine alla reminiscenza in Mahler”, nella misura appunto in cui l’esperienza vissuta si coagula in quanto tale nell’intuizione artistica al di là del possibile risvolto nazionale che vi è sotteso.

    CHOPIN SUONA

    Del Romanticismo Chopin incarna invece meglio di ogni altro l’esigenza di assolutezza, di universalità, assimilando nell’intuizione di forme avanzate l’accezione cosmopolitica dell’esperienza di quei grandi virtuosi di inizio secolo prodotti da un commercio concertistico ormai internazionale, i quali, nell’accesa e forsennata esibizione tecnico-strumentale avevano a loro modo, forse per la prima volta nella storia, epurato l’espressione, da eredità stilistica nazionale ribaltata in eccitata formulazione individualistica. 

    Non è un caso che fra le sue composizioni giovanili si trovino delle Variazioni sul “Carnevale di Venezia” di Paganini; e non è difficile riscontrare nel secondo tema del primo tempo del Concerto in mi minore un piglio di cabaletta italiana, trasfigurata al limite del riconoscibile ovviamente, poiché già in questo giovane Chopin avanza oltre ogni termine immaginabile la capacità di sintesi di modi disparati - pianistici e non, polacchi e non. Si pensi solamente alla generosa fioritura di ornamentazioni di ascendenza vocalistica di cui è abbondantemente venato il discorso solistico di questo concerto, restituite alla dimensione magica di riscoperte risonanze pianistiche. Sintesi possibile attraverso la penetrazione nella faccia nascosta dello strumento prediletto, spazio illimitato di timbri inauditi che, oltre il meccanico procedimento della produzione del suono (da cui bene o male anche i grandi che lo precedettero rimasero condizionati), risuonano finalmente librati nell’ineffabile cosmica estensione di riverberazioni che nutrono il discorso per forza interna, permettendogli di reggersi non più in virtù di strutture calatevi dal di fuori. 

    Concepiti sotto quest’ottica i due concerti chopiniani scoprono i loro meriti fondamentali rendendo superflua l’obiezione circa l’insignificante presenza orchestrale, cornice fortuita che tuttavia non impedisce di riconoscere la compiutezza di un discorso solistico che si assicura pienezza e pregnanza nella capacità di percorrere regioni timbriche estese al punto da scoraggiare qualsiasi tentativo dell’orchestra di rivaleggiare con le sue possibilità. Si consideri la stupita immobilità nella risonanza del registro acuto a battuta 277, lo scampanío a battuta 303 del primo tempo del Concerto in mi minore, le cristalline strutture sonore a battuta 101 della Romanza e moltissime altre intuizioni di un universo sonoro conquistato dal pianoforte. 

     CHOPIN IN SALOTTO

    Cosciente del valore della sua impresa, Chopin lascerà per sempre l’orchestra e rinuncerà a quelle possibilità di affermazione a cui erano usi attendere i grandi artisti: l’opera teatrale, a cui invano e ingenuamente lo spingeva il suo maestro Elsner. 

    Quando dieci anni dopo egli sarà tentato da una composizione brillante ad abbandonare momentaneamente l’abituale intimismo, concepirà l’Allegro da concerto sottintendendovi l’apporto orchestrale, che il pianoforte poteva ormai integrare al suo interno discorso senza necessitare di espresso sostegno esteriore. 

    La sua consacrazione al pianoforte appare quindi assai più di una vocazione. Si tratterà invece di una scelta che, condotta con tale coerenza, non è dato di riscontrare in nessun altro artista del secolo.

    CHOPIN RITRATTO