• Diario d'ascolto
  • 23 Ottobre 2017

    Bernstein a Brodway

      Carlo Piccardi

    Tipico esempio di carriera direttoriale americana debitrice dell’immancabile colpo di fortuna – nel 1943 il suo nome appariva su tutti i giornali per aver sostituito Bruno Walter (colpito da malore) alla testa della Philarmonic Symphony di Nuova York, l’orchestra di cui sarebbe in seguito diventato maestro stabile – Leonard Bernstein tradisce più di ogni altro la propria provenienza culturale anche e soprattutto nella composizione.

     

    Formato ad Harvard sotto la guida di Hill e Piston, senza remore egli imboccò la via di un accademismo che in campo sinfonico gli permise di produrre in gran copia sulla linea dei modelli neoclassici. Contemporaneamente la sensibilità coloristica, certamente sviluppata attraverso la pratica di direttore che lo portò verso soluzioni brillanti, e uno spiccato interesse per il teatro, lo aprirono agli influssi del filone popolare americano rappresentato dalla commedia musicale.

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    In realtà come compositore Bernstein, più che per le sinfonie Jeremiah (1944) e The Age of Anxiety (1949), è noto per West Side Story, il musical che dal 1957 compare nei cartelloni di tutti i teatri del mondo.
    In quest’ambito rispetto a Gershwin il quale, alla ricerca di uno sbocco più degno delle proprie capacità, preferì cambiare campo anziché tentare la via di un’evoluzione del genere - Porgy and Bess non ha infatti niente a che spartire con la commedia musicale essendo un’opera in piena regola, cantata da cima a fondo ed articolata ben al di là delle forme chiuse dei song la cui popolarità non deve trarre in inganno - l’operazione di Bernstein è esattamente opposta, avendo egli assunto e scontato tutte le caratteristiche del musical riprodotto fin nelle ingenuità di blandenti soste liriche e di divaganti battute ad effetto.
    Oltretutto il suo iter risulta opposto anche per il fatto di aver precedentemente affrontato il teatro sul piano dell’opera (Trouble in Tahiti, risalente al 1952) e del balletto (Fancy Free ecc.), ciò che delinea un processo di ‘discesa’ più che di ‘ascesa’ di preteso livello. In verità non è il caso di attribuire significati particolari a tali concetti in ambito americano, dove un vero problema di gerarchia dei valori non è mai esistito e che semplicemente giustifica una capacità di interscambiabilità comune non solo a Gershwin e Bernstein, perciò assai diffusa ed impensabile alle rigide latitudini europee.

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    La riuscita di Bernstein non sta quindi nella riforma di un modello per via di nobilitazione, ma nel tentativo di individuarvi gli spazi suscettibili di accogliere suggestioni nuove, estranee al genere ed assimilabili in una dimensione di sincretismo, tipico di visione disincantata del reale. Completamente errato sarebbe infatti rivendicare tale lavoro all’estetica del realismo, in nome della vicenda che mezzo secolo fa poteva scandalizzare mettendo in scena l’ambiente suburbano delle bande giovanili new-yorkesi in lotte la cui violenza scatenava direttamente tensione sociale e razziale di una realtà in ebollizione.

    Nel libretto di West Side Story ciò non è che un pretesto, più ancora di quanto non lo sia la virulenza della passionalità legata all’immutabile e tragico concetto d’onore della civiltà contadina in Cavalleria rusticana.
    Già molto ci sarebbe da discutere sul concetto di realismo in un’opera di teatro musicale, dove il canto sostituito al parlato vive per definizione una situazione sciolta da qualsiasi rapporto mimetico. Per di più nel caso di West Side Story abbiamo a che fare anche col balletto, vale a dire con ciò che di meno realistico l’arte scenica abbia potuto esprimere. Bernstein ha quindi assunto la commedia musicale in tutta la sua capacità di finzione, riconoscendola semplicemente come autentica manifestazione della cultura americana e campo d’azione adatto a sperimentare l’interesse per il composito, tipico di quella civiltà.

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    Eccolo allora prendere lo spunto dall’ambiente dei portoricani per innestarvi con dovizia ritmi afrocubani in un trattamento che, in ossequio all’estensione dello spettro espressivo al balletto vero e proprio, non si accontenta della semplice colorazione ritmica, ma sviluppa veri e propri episodi ritmici ossessivi che per crudezza, accanimento e coerenza, rimandano addirittura all’esperienza stravinskiana.
    Parimenti il disegno vocale non si adagia nei sinuosi percorsi melodici della tradizione di Broadway, ma si profila nei tratti rigidi e nervosi di una formulazione sorprendente per le conseguenze di una condotta armonica mobile e sfrontata nei salti di grado impegnati a contraddire i prevedibili percorsi del genere.
    L’operazione non è del tutto nuova e non può esimersi dal pagare un suo tributo ad esperienze quali quella di Kurt Weill approdato in America contribuendo a riformare i tratti scontati del musical, riecheggiato qua e là nella prevalenza dei momenti aggressivi e nel quintetto finale della prima parte, un vero e proprio concertato di stampo operistico che rappresenta il punto più avanzato dell’allargamento del ventaglio stilistico del lavoro.

    Leonard Bernstein recording studio 1974 billboard 1548

    C’è da chiedersi come mai la riuscita di West Side Story sia rimasta senza seguito. Che Bernstein non abbia più composto niente di simile può anche essere spiegato con la decisione di consacrarsi pressoché esclusivamente alla carriera direttoriale. Ma un esempio esso avrebbe potuto costituire per coloro che a Broadway ogni anno continuano ad alimentare i cartelloni teatrali. Ciò non è avvenuto a dimostrazione di quanto il pregiudizio sui livelli di compatibilità e di significato nella musica, vizio di origine europea, in qualche modo abbia continuato ad agire anche oltre Atlantico.

    leonard bernstein FINALE