• SCIENZE NATURALI E DELL’UOMO, ECOLOGIA
  • 1 Luglio 2016

    Evoluzione: da Australopithecus a Homo, parte seconda

      Fabio Di Vincenzo

    I cambiamenti ambientali che occorsero in Africa a seguito della formazione della Rift Valley e delle catene montuose ad essa correlata

    (https://www.nutrirsi.eu/item/341-l-ambiente-l-alimentazione-e-le-origini-dell-uomo), portarono in Africa Orientale a una rarefazione dell’ambiente di foresta e alla sua progressiva sostituzione con boscaglia aperta e poi savana che a partire da 2.5 Ma, anche a seguito di fenomeni globali di raffreddamento climatico (periodi glaciali), si impose come il bioma prevalente nei territori occupati dai nostri antenati ominini e dalle forme ad essi strettamente collegate.

     2-SAVANA

    E’ in questo contesto di generale diradamento della foresta e aumento di eterogeneità ambientale che è da collocarsi la diversificazione in specie e generi delle australopitecine e la progressiva acquisizione di adattamenti dentali e cranio-facciali da vegetariani iper-specialisti che caratterizzerà l’evoluzione dell’intero gruppo fino alla sua completa estinzione avvenuta poco più di un milione di anni fa. Tale evoluzione può essere seguita a partire da un primo numero di specie vissute tra i 4.2 e i 2.5 Ma, tutte riferibili al genere Australopithecus.

    Queste erano legate a un ambiente ancora relativamente caldo e umido dove le estensioni forestali si incuneavano in profondità in contesti prativi e savanicoli più ampi, determinando un ambiente vegetazionale variegato definito “a macchia di leopardo”.
    Vivendo al margine tra ambienti di foresta e prateria queste specie, tra cui figura Australopithecus afarensis (discendente diretto di Australopithecus anamensis) cui appartiene lo scheletro della famosa Lucy rinvenuto nel 1974 da Donald Johanson nella depressione di Afar in Etiopia, riuscivano probabilmente a sfruttare con successo le risorse disponibili in entrambi i contesti naturali, rappresentate sia da cibo che da protezione dai predatori.

    AS-lucy-australopithecus 1

    L’analisi degli isotopi stabili del carbonio (rapporto 13C/14C) condotta sullo smalto dentario di una di queste forme, Australopithecus africanus diffuso nelle regioni dell’Africa meridionale, ha permesso di risalire alle proporzioni relative, nella sua dieta abituale, di vegetali a metabolismo C3, tipici di ambienti di foresta, rispetto a quelle di erbe e arbusti tropicali a metabolismo C4 più abbondanti in ambiente di savana (https://www.nutrirsi.eu/item/341-l-ambiente-l-alimentazione-e-le-origini-dell-uomo).

    I risultati hanno evidenziato come A. africanus avesse accesso a un’ampia varietà di alimenti rappresentati sia da foglie e frutta di foresta che da materiali più fibrosi e coriacei come erbe di prateria, semi e noci (Sponheimer & Lee-Thorp 1999).

    Inoltre i dati suggeriscono che questa dieta prevalentemente vegetariana veniva integrata da vari apporti di origine animale, come larve, insetti e prodotti di questi come il miele ma anche uova, nidiacei e piccoli animali “cacciati” presumibilmente con tecniche di stretta collaborazione tra i membri di uno stesso gruppo sociale come occasionalmente avviene oggi tra gli scimpanzé.

    Ciò che colpisce di più però, è l’estrema variabilità che si riscontra nella composizione della dieta tra singoli esemplari provenienti dagli stessi siti e quindi vissuti in contesti ambientali presumibilmente simili.
    La variazione nella tipologia degli alimenti tra i diversi esemplari raggiunge anche il 60% della dieta complessiva (van der Merwe et al. 2003), come se ogni individuo avesse assecondato un personale gusto alimentare nella scelta di certi alimenti e avesse seguito prevalentemente le proprie preferenze piuttosto che la disponibilità ambientale e stagionale. Un comportamento questo sorprendentemente umano.

    In pratica queste prime specie australopitecine vivevano inserite all’interno di una rete trofica estremamente ampia, così come avviene per le specie che vivono in habitat ecotonali, cioè di confine tra due o più ambienti diversi, dove la biodiversità è massima, e al cui interno si comportavano come dei veri e propri “opportunisti alimentari” arrivando a consumare in media il 30 e il 40% di vegetali di savana nel caso rispettivamente di A. afarensis e A. africanus (White et al. 2009; Sponheimer et al. 2005).

    Quasi per una crudele legge di contrappasso però anche queste specie erano incluse nella catena alimentare in qualità di alimenti, venendo predate soprattutto negli stadi infantili, ma anche da adulti, da un gran numero di predatori come grandi uccelli rapaci e carnivori come il leopardo e l’ormai estinto Megantereon da cui si difendevano probabilmente vivendo in piccoli gruppi sociali organizzati e collaborativi formati da individui strettamente imparentati e al cui interno è presumibile esistessero forme già sviluppate di cooperazione e suddivisione del lavoro.

    Questa organizzazione in gruppi sociali collaborativi risultava vantaggiosa anche nel caso del reperimento di risorse alimentari utili per la sopravvivenza di tutti i membri del gruppo, specialmente in condizioni di scarsa disponibilità alimentare, ed è testimoniata a livello scheletrico dalla progressiva perdita di caratteri “aggressivi” legati alla competizione tra maschi come i canini affilati e a forma di zanna delle antropomorfe attuali e fossili (https://www.nutrirsi.eu/item/341-l-ambiente-l-alimentazione-e-le-origini-dell-uomo).

     2-LAETOLI

    Tra i 3 e 2.5 Ma le condizioni climatiche subirono un ulteriore deterioramento verso condizioni più aride in conseguenza di fattori astronomici che innescarono il ciclo delle grandi glaciazioni quaternarie e nelle regioni tropicali dell’Africa abitate dai nostri antenati portarono a un ulteriore arretramento della foresta e a una espansione della prateria fino ad approssimare per vastità e struttura vegetazionale l’ecologia che si rinviene attualmente in quelle zone.

    Le australopitecine si adattarono alle nuove condizioni esasperando il modello “molarizzato” del loro apparato masticatorio così che a partire da circa 2.5 milioni di anni tutte le australopitecine precedenti vengono “sostituite” da un nuovo gruppo di ominini più specializzati, i parantropi (inclusi nel genere distinto Paranthropus secondo l’uso corrente, anche se non mancano autori che preferiscono mantenere la denominazione tassonomica di Australopithecus anche per queste forme) o australopitecine “robuste” così definite per via dell’estremo sviluppo dell’apparato masticatorio rispetto a quello delle australopitecine “gracili” (genere Australopithecus) loro antenate, sebbene le dimensioni corporee (statura e peso) tra i due gruppi rimangano sostanzialmente invariate (vedi https://www.nutrirsi.eu/item/344-evoluzione-da-australopithecus-a-homo, tabella 1).

    Nei parantropi, la dentatura posteriore che già nelle forme gracili era sviluppata, diventa enorme, una condizione definita megadonzia. Le aree occlusali (le superfici masticatorie) dei molari si espandono e lo strato di smalto che li ricopre si ispessisce ulteriormente per proteggere il dente dalle continue abrasioni prodotte dalla masticazione prolungata di alimenti “duri” e fibrosi. I premolari diventano simili a piccole macine (si molarizzano) sviluppando ampie aree occlusali. Le mascelle si fanno più alte per accogliere radici dentali più profonde ed estese e così pure la mandibola che diventa estremamente robusta sia nel corpo (la porzione che porta i denti) che nel ramo (la porzione articolare).

    2-PARANTHROPUS

    Denti e mandibole così grandi richiedono per essere agite fasci muscolari estremamente potenti e sviluppati. Sul cranio delle australopitecine robuste si trovano delle strutture ossee per aumentare la superficie di inserzione dei muscoli masticatori così accresciuti. Come avviene attualmente nel gorilla, i parantropi sviluppano sulla sommità del capo una cresta mediana (sagittale) per permettere al muscolo temporale (uno dei principali muscoli masticatori) di crescere fino a circondare completamente la piccola scatola cranica da entrambi i lati.
    La pressione esercitata da questo muscolo era tale che il cranio di questi ominini visto dall’alto appare come “spremuto” a livello delle fosse temporali che sono ampie per permettere alle possenti fibre del muscolo di raggiungere il ramo mandibolare; di conseguenza gli zigomi (le ossa che nel viso sostengono le gote) appaiono vistosi ed espansi lateralmente, fornendo lungo tutto il margine inferiore e l’arcata zigomatica un’ampia area di inserzione per il muscolo massetere (altro importante muscolo masticatorio).

    Di contro, la dentatura anteriore si riduce grandemente, i canini diventano nella forma simili agli incisivi e nel corso della vita vanno incontro ad una usura apicale (sulla punta) molto estesa, non superando mai il piano occlusale degli altri denti.
    Gli incisivi si riducono in dimensioni e retrocedono fino ad allinearsi perfettamente con i canini a seguito dell’arretramento dell’intero complesso mascellare che si verticalizza, tanto che le australopitecine robuste non presentano in pratica nessun tipo di prognatismo alveolare e anzi sviluppano uno scheletro facciale ampio e piatto, leggermente incavato a livello delle ossa nasali, in modo da ottimizzare la leva muscolare facendo ricadere i carichi dello sforzo masticatorio quasi unicamente sulla porzione posteriore della dentatura al livello dei premolari e dei primi molari.

    Evoluzione-Fig.2
    Figura 2. Apparato masticatorio di un’australopitecina robusta esemplificato nella morfologia cranio-facciale del reperto OH5 di Paranthropus boisei rivenuto nella Gola di Olduvai in Tanzania. Ricostruzione tridimensionale del modello eseguita dalla Justeleven Animation su indicazioni dell’autore.

    In pratica la straordinaria morfologia dentale e cranio-facciale di queste australopitecine (figura 2) risulta come “progettata” dalla selezione naturale per affrontare gli ingenti e prolungati sforzi masticatori legati ad una iper-specializzazione nel consumo di alimenti duri e resistenti, minimizzando sia il “costo” energetico della masticazione attraverso un più potente ed efficiente sistema di leve muscolari, sia i maggiori rischi di fratture ossee e dislocazioni sviluppando un sistema di rinforzi ossei e dissipando i carichi di sforzo su tutta la superficie cranica in base a precisi principi biomeccanici.

    Tutto ciò può essere messo bene in evidenza (e quantificato) attraverso l’analisi della FEA di cui si è già parlato a proposito delle proprietà meccaniche dei denti di A. anamensis, in questo caso però estesa all’intero cranio, in cui si evince come a parità di sforzo masticatorio applicato a livello dei molari, il complesso cranio-facciale dei parantropi fosse molto meno soggetto a stress rispetto a quello delle australopitecine gracili (figura 3).

    Evoluzione-Fig.3
    Figura 3. Distribuzione a falsi colori dello stress osseo associato a un carico masticatorio di pari intensità applicato a livello del secondo molare destro in tre diversi ominini. Lo stress è massimo  approssimando la scala del rosso mentre tende ad annullarsi spostandosi verso il blu. Analisi FEA eseguita presso il Computational Biomechanics Research Group dell’università del New South Wales, sotto il coordinamento del dottor Stephen Wroe.

    In questo modo i parantropi potevano sfruttare in maniera molto efficiente le diverse risorse disponibili nell’ambiente sia mantenendo lo stesso tipo di dieta delle australopitecine precedenti, sia, avendo accesso a nuove risorse trofiche, specializzandosi per la sopravvivenza in ambiente di savana.

    Esempi di queste due strategie sono rappresentate da un lato da Paranthropus robustus che viveva nelle stesse aree di Australopithecus africanus in Africa meridionale anche se in tempi successivi e che rispetto a quest’ultimo mantiene invariato il livello di consumo di vegetali di prateria C4 intorno al 35% della dieta totale (Sponheimer et al. 2005), ma con grandi variazioni stagionali nell’apporto dei diversi nutrienti (Sponheimer et al. 2006), dall’altro da Paranthropus boisei, contemporaneo di P. robustus ma diffuso in Africa Orientale, soprannominato “schiaccianoci” dal suo scopritore, il famoso paleoantropologo Louis Leakey, che in base all’analisi degli isotopi stabili del Carbonio eseguita sullo smalto dentario, risulta essere un consumatore di erbe di savana e semi di piante C4 fino all’80% della sua dieta complessiva (White et al. 2009).

    Paul O’Higgins dell’università di York assieme al suo gruppo di lavoro ha dimostrato con tecniche di morfometria geometrica e di morphing tridimensionale (cioè di trasformazione digitale di una morfologia in un’altra attraverso l’impiego di opportuni algoritmi) che è possibile “trasformare” o “far evolvere” tramite una simulazione digitale, una australopitecina gracile in un parantropo semplicemente variando le dimensioni relative di denti, mandibole e mascelle.
    In questo modo è possibile generare al computer un gran numero di morfologie “ideali”, selezionando poi solo quelle in cui non si registra un aumento dello stress masticatorio distribuito sulle superfici ossee, misurato tramite il metodo della FEA, di cui si è già parlato.
    La cosa interessante è che queste morfologie virtuali corrispondono molto bene a quelle che effettivamente si rinvengono nel record fossile delle australopitecine robuste (O’Higgins et al. 2010).
    Da ciò risulta come i cambiamenti evolutivi osservati nella morfologia cranio-facciale delle australopitecine nel tempo, sono in massima parte determinati proprio da mutamenti negli adattamenti masticatori. 

     2-LAETOLI-FINE

    fine della seconda parte