• SCIENZE NATURALI E DELL’UOMO, ECOLOGIA
  • 6 Dicembre 2017

    Cibo e banchetti nell'età di Nerone

      Letizia Annunziata

    Per avere un'idea dell'alimentazione a Roma in età imperiale, i documenti certamente più preziosi e interessanti dal punto di vista scientifico sono i reperti archeologici, ossia i resti di cibo che gli scavi ci hanno restituito, e i resti umani, che, sottoposti ad analisi scientifiche, ci informano sulle caratteristiche nutrizionali dei cibi e su quelli che, al tempo, si ritenevano i loro effetti sull'organismo.

     

    Dai reperti archeologici, anche se rappresentano solo una selezione casuale conservata dalla storia, abbiamo indicazioni dirette sugli alimenti allora consumati: un esempio particolarmente prezioso ci deriva dalle città vesuviane.

    Archeologia

    Nella moderna disciplina dell'archeologia, che tende ad avvicinarsi sempre di più alle metodologie scientifiche, assumendone gli strumenti, l'archeologia ambientale studia tutti gli aspetti fisici e biologici dell'ambiente e delle interazioni dell'uomo con esso nel tempo, con tecniche derivate dalle scienze naturali. Ne fa parte la bioarcheologia che studia tutti i reperti organici, a sua volta suddivisa in archeobotanica, che si occupa dei reperti vegetali, archeozoologia che analizza i resti animali e paleoantropologia che si occupa dei resti umani. Quest'ultima, grazie ad analisi chimiche, ci informa sulle patologie degli individui ma anche sulle loro abitudini alimentari.

    L'improvvisa eruzione del Vesuvio, avvenuta nell'agosto del 79 d.C. ha infatti sorpreso Pompei, Ercolano e gli insediamenti della campagna circostante nel pieno della loro vitalità, restituendo uno spaccato fedele della vita quotidiana romana.
    A Pompei ad esempio, in un grande panificio, sono state rinvenute forme di pane in attesa di essere vendute, pane ancora nel forno, pentole con cibo in attesa di esser consumato e dispense piene di alimenti.
    Il quadro è dunque più completo di quello offerto tipicamente da uno scavo archeologico, poiché quest'ultimo documenta luoghi progressivamente abbandonati dall'uomo e dunque con meno tracce di vita.

     UOVA IN UNA SCODELLA
    Pompei. Uova

    I materiali conservati dalla lava sono cibi presenti anche sulla nostra tavola: noccioli di pesca, acini d'uva, fichi, noci, mandorle, melograni, cipolle, ma anche frutta “importata” dai paesi più caldi e già allora considerata esotica.
    Dalla dispensa di una casa di Ercolano proviene una discreta quantità di datteri, verosimilmente importati dalla Siria, che ne era la maggiore produttrice.

    Dalle città vesuviane provengono poi tracce degli alimenti più diffusi: i cereali, in grani di diverso tipo, ossia orzo, grano tenero, farro, ma anche uova e residui di formaggio, e anche carcasse di suini, valve di cozze e di vongole, o ricci di mare, scheletri di pesce, o, anche, il condimento più noto della cucina romana. Conservato nel fondo di recipienti da trasporto, sono stati rinvenuti resti di garum la salsa di pesce che aveva reso famosa Pompei e che Plinio elogia per la sua squisitezza, oltre che per le sue doti terapeutiche.

    MANDORLE

    Pompei. Mandorle

    Una casa di Pompei ha restituito, in una pentola di bronzo, i resti di una zuppa di fave, con cipolle e residui di foglie di cicoria; la favina (Vicia faba) era infatti il legume più consumato, accanto ai piselli, ai fagioli e alle lenticchie.
    In un piccolo recipiente in una villa del suburbio di Pompei sono stati rinvenuti semi di lattuga conservati per la semina, e sappiamo comunque che i Romani erano grandi consumatori di molti altri tipi di verdura, come rape, ravanelli, carote, asparagi, carciofi e cavoli, zucche e cetrioli.

    Il garum

    Il garum è uno degli alimenti più discussi e più nominati nella letteratura antica. Si trattava di una salsa da condimento ottenuta disponendo su strati successivi pesci di vario tipo salati e conditi. Secondo Eugenia Salza Prina Ricotti, archeologa, autrice di una ricostruzione precisa delle più importanti ricette dell'antichità romana, il metodo per ottenere la salsa era quello comunque diffuso per fare le acciughe sotto sale, e ne esisterebbe un parallelo quasi esatto nel nuoc-nam nei paesi dell'Oriente asiatico. Plinio ne parla comunque nel contesto in cui si occupa delle sostanze saline, e definisce il garum un liquame ottenuto facendo macerare nel sale intestini e frattaglie di pesce e oltre al suo sapore squisito elogia anche le sue doti curative, contro le ustioni, i morsi dei cani e dei coccodrilli, contro la scabbia, contro la sciatica e, per i suoi poteri astringenti, contro la dissenteria. Ma leggiamo insieme Plinio il Vecchio, Storia Naturale, 31, 93:

    “Vi è ancora un altro tipo di liquido squisito, chiamato garum, ottenuto facendo macerare nel sale gli intestini di pesci e le altre parti che sarebbero da buttare via; il garum è perciò il marcio di materie in putrefazione. Un tempo si preparava col pesce che i Greci chiamavano garos, e notavano che facendo fumigazione con la testa bruciata di quel pesce usciva la placenta; oggi quello più gustoso si fa dal pesce sgombro, nei vivai di Cartagine Spartaria – si chiama garum dei soci..... A parte i profumi, non c'è quasi altro liquido che sia diventato più prezioso di questo: ha reso famosi anche i popoli. Gli sgombri vengono catturati in Mauretania e a Carteia, nella Betica, quando vi entrano procedendo dall'Oceano, né servono ad altro. Per il garum sono rinomate anche Clazomene, Pompei, Leptis, come per la salamoia sono rinomate Antipoli e Turii, e adesso anche la Dalmazia. L'allex, sedimento non lavorato e non filtrato del garum, ne costituisce lo scarto.......E' poi diventato una raffinatezza e le sue specie sono aumentate all'infinito; vi è anche un garum che ha colore di vino melato vecchio, così fluido e buono che si può bere. Ve n'è poi un altro, riservato alle pratiche superstiziose della castità e alle cerimonie sacre giudaiche, che viene fatto con pesci privi di squame......”

    Esiste anche un'altra fonte altrettanto precisa e attendibile per la ricostruzione dei costumi alimentari dei Romani in epoca imperiale, ossia la ricca documentazione dipinta che ancora una volta hanno conservato le città vesuviane.
    Le pareti domestiche di molte case presentano affreschi in forma di piccoli quadretti, che simulano l'interno delle madie con gli alimenti. Vi si riconosce frutta di vario tipo, disposta in recipienti o sparsa in apparente disordine, con fine resa della verosimiglianza, e cacciagione, ritratta ancora in vita.
    Tali immagini definiscono a volte la destinazione a sala da pranzo degli ambienti ove sono collocate, e sono da ricondurre anche a un genere pittorico denominato dal termine greco xenia (= doni), che evoca un uso antico dell'ospitalità. Il padrone di casa accoglieva l'ospite (in greco xenos, appunto) con piccoli doni alimentari, come dolci, frutta, uova; glieli faceva trovare nei suoi appartamenti per regalargli un ristoro immediato dopo il viaggio.

    SPIGHE DI GRANO
    Pompei, Casa dei Vettii. Covone di grano e fiscelle di formaggio fresco


    Dall'uso antico di onorare l'ospite derivano poi i quadretti che rappresentano gli stessi doni, un genere pittorico ben preciso che avrà molto successo nella nostra cultura occidentale, definito dal termine olandese “Stilleven” ossia “Natura morta” (letteralmente: “natura silenziosa”), che coglie l'aspetto decorativo e ben augurante delle immagini del cibo.

    NATURA MORTA 2 A
    Pompei. Natura morta


    Dall'esame della pittura e, insieme, dei reperti possiamo ricostruire di quali cibi si componesse la dieta più tipica.

    Il cibo più frequente era il pane, che forniva il maggior quantitativo di carboidrati; ne esistevano vari tipi: quello di farro (panis farreus) quello di grano (panis siligineus), quello meno raffinato (panis plebeius), quello dei legionari (panis militaris) e quello dei marinai (panis nauticus); ne esisteva anche un tipo arricchito con altri ingredienti come miele, vino, latte, olio, frutta candita e pepe (panis astrolaganus).

    Diversamente dalle popolazioni italiche delle origini, che si nutrivano soprattutto di vegetali, il regime alimentare documentato nella media età imperiale, forse anche per il nuovo alto tenore di vita che si era diffuso a Pompei e nelle città campane, era ricco di proteine animali, soprattutto di suini, ovini e pollame. La carne di bovini era invece più rara poiché destinata ai sacrifici religiosi.

    Quanto ai pesci, i preferiti erano la murena, l'orata e l'anguilla, e ne esistevano allevamenti in vasche in prossimità del mare ma anche nei giardini delle ville e delle case comuni.


    Aneddoto

    “Prima di altri escogitò un vivaio riservato alle murene Gaio Irrio, il quale, per le cene trionfali di Cesare, gli prestò peso su peso 6000 murene. Non volle infatti scambiarle con denaro o con qualche altra merce. Per queste piscine, la sua villa, meno che modesta, fu venduta al prezzo di 4000000 di sesterzi.”
    Plinio NH, IX, 171

    Un alimento molto presente sulle tavole e nei ricettari era il formaggio fresco, ottenuto dal latte bovino e ovino. Lo troviamo nella descrizione di una natura morta tramandata da Filostrato: “Su foglie di fico miele chiaro già rivestito di cera e pronto a traboccare se uno vi preme sopra; su un’altra foglia poi, cacio fresco appena rappreso e tremolante, e vasi pieni di latte, non solo bianco, ma anche lucente per la panna che vi galleggia sopra” (Filostrato, Im I, 31, 4).

     La ricetta

    Ecco qui di seguito una ricetta di Columella, uno scrittore vissuto nel I secolo d.C., contemporaneo di Seneca (4-65 d.C.), e autore di un'opera sull'Agricoltura, dal titolo De Re rustica, il cui ultimo libro contiene molte preziose ricette di cucina e tutte le modalità per produrre olio, vino e conserve.

    Ricetta per fare il moretum
    Metti nel mortaio della santoreggia, della menta, della ruta, del coriandolo, del sedano, del porro da taglio, o in mancanza di questo, della cipolla fresca, foglie di lattuga, di ruchetta, di timo verde o di nepitella e anche del puleggio verde e del cacio fresco e salato; pesta insieme tutte queste cose, aggiungendovi un pochino di aceto piperato; quando avrai disposto questa composizione in un piccolo piatto, versavi sopra dell'olio” Columella, R.R., XII, LIX

    Seguono nel testo antico altre due varianti, con aggiunta di noci sgusciate o semi di sesamo.

    L'inclinazione dei Romani per cibi ricercati li induceva anche ad allevare animali selvatici come i ghiri, affini agli scoiattoli, in recinti all'aperto, per poi metterli all'ingrasso in apposite gabbie e cucinarli come prelibatezze. Alcuni menù menzionano altri animali ancora “più” esotici, come il pavone, l'asino e la cicogna.

     I ghiri

    I ghiri (latino glis): appartengono alla famiglia dei roditori, e somigliano molto ai comuni scoiattoli, con la differenza che la loro lunga coda resta tesa a terra. Sono lunghi 30 cm dei quali la metà è costituita dalla coda e pesano circa 75 grammi (Fig. 8). Vivono nel sottobosco fino ad altitudini di circa 1500 metri e si nutrono di ghiande e vegetali di vario tipo.
    I Romani li ritenevano un cibo di lusso ed esotico: usavano allevarli in un recinto, detto glirarium e poi metterli all'ingrasso in recipienti cilindrici forati con all'interno una mensola a spirale (Fig. 9). Apicio, il celebre cuoco della romanità, tramanda una ricetta con ghiri ripieni di carne di maiale e arrostiti in forno.


    VASO PER GHIRI

    I pasti comuni dei romani erano di norma tre: uno all'alba, ricco di proteine, a base di pane, carne e formaggio; uno leggero a mezzodì, che la gente comune poteva anche consumare fuori casa nelle caupone, le antiche osterie, non frequentate dall'aristocrazia; infine la cena, il pasto principale che iniziava in realtà nel primo pomeriggio.

    Proprio di una cena particolarmente ricca abbiamo un racconto fedele in un testo molto prezioso della letteratura del tempo di Nerone, ossia la celebre “cena di Trimalchione” descritta da Petronio nel suo romanzo intitolato Satyricon.
    Il banchetto, narrato a tinte forti ed espressive, si svolge in una sequenza teatrale di portate sempre più bizzarre, alle quali si alternano scenette e dialoghi tra i commensali, e colpi di scena del padrone di casa, Trimalchione, classico esempio di liberto (ossia ex schiavo) con grandi ambizioni sociali, divenuto latifondista grazie ai suoi esagerati redditi commerciali, ma rimasto ignorante e megalomane.
    Il testo, oltre alle notizie su un banchetto tipico di una casa ricca, ci regala uno spaccato molto vivace e preciso della società romana, e descrive con maestria il cattivo gusto, l'esibizionismo e la malinconia di questa nuova borghesia arricchita.

     Petronio Nigro Arbitro

    Sul personaggio sappiamo solo quello che racconta lo storico suo coetaneo, Tacito, (Annales, 16,18-19), che lo descrive come uomo di mondo, raffinato e alla moda, console nel 62 d.C., e poi chiamato a corte da Nerone, come “elegantiae arbiter (= maestro di buon gusto): “a tal punto, che l'imperatore, in tanta profusione di voluttà, non stimava dilettoso e delicato se non quello che Petronio gli avesse fatto gustare”. Proprio all'interno di intrighi di corte Petronio fu costretto a suicidarsi, e lo fece con spirito....

    Non uscì di vita bruscamente ma si fece aprire le vene; poi a capriccio, dopo averle fatte legare, le volle aperte di nuovo, e discorreva intanto con gli amici, non però di argomenti seri o tali da procurargli vanto di fortezza. E li ascoltava esporre non già opinioni sull'immortalità dell'anima o massime care ai filosofi, ma poesie piacevoli e versi licenziosi....sedette anche a tavola, s'abbandonò al sonno, in modo che quella morte, pur imposta, rassomigliasse ad una morte fortuita. Non scrisse nemmeno codicilli con adulazione a Nerone e Tigellino o qualche altro potente, come tanti fecero in punto di morte: ma registrò per esteso le infamie dell'imperatore, elencando i nomi dei suoi amanti e delle sue femmine e l'inaudita raffinatezza di ogni sua turpitudine; poi vi appose il suo suggello e mandò tutto a Nerone”.

    Il menù che qui vale la pena descrivere per la sua ricchezza, non solo in termini proteici (!), ma anche per la fantasia e le trovate teatrali con le quali viene offerto agli ospiti, era composto, come vedremo, quasi solo di carne e proteine animali.

    Inizia con l'antipasto: su un vassoio è un asinello di bronzo che regge due some cariche di olive bianche e nere, e intorno ghiri conditi con semi di papavero e miele; inoltre, salsicciotti arrosto presentati su graticole d'argento, al di sotto delle quali prugne di Siria e chicchi di melograno simulano le braci ardenti.
    Segue poi un secondo antipasto: una chioccia di legno che cova uova di pavone svuotate e riempite di uccelletti (beccafico) avvolti in tuorli d'uovo pepato.

    Ci si prepara alle portate principali: vengono apparecchiate mense singole per ciascun invitato e servito vino Falerno cui fa seguito la prima pietanza. Una grande teglia dove è rappresentato lo zodiaco, e dove ciascun segno porta un diverso cibo simbolico (sull'Ariete dei ceci, sul Toro un pezzo di bue, sui Gemelli rognoni e testicoli e così via), copre in realtà un piatto ben più ricco, fatto di polli e mammelle di scrofa arrosto, con al centro una lepre alata che deve ricordare il cavallo Pegaso (ancora un simbolo astrale), e intorno pesci immersi in una salsa versata da statuette ai quattro angoli del piatto.

    MOSAICO CON PESCI

    Roma, Cantrale Montemartini. Mosaico con pesci (dal fondo di una piscina di una domus romana)


    La seconda portata è un gigantesco cinghiale con appesi alle zanne due panieri pieni di datteri secchi e freschi, che simulano le ghiande, e porcellini di pasta appesi alle mammelle; un servo ne apre la pancia e ne volano via uccelletti, prontamente catturati dai servi. Il cinghiale viene presentato con in capo il berretto conico degli schiavi liberati, ad alludere -spiega poi Trimalchione- che era stato liberato, ossia era stato già servito a un banchetto il giorno prima, ma non consumato.

    Segue ancora un'altra portata, di forma simile, con un maiale intero arrosto (presentato prima vivo agli ospiti), ripieno di salsicce e mortadelle.
    La terza portata è costituita da un vitello bollito che un servo travestito da Aiace, l'eroe greco, che al ritorno dalla guerra di Troia, impazzì e, credendo di essere in battaglia, fece strage di un gregge di pecore, fa appunto energicamente a pezzi davanti agli ospiti.

    Segue un altro colpo di scena: dal soffitto scende un cerchio al quale sono appese corone e ampolle di profumo come doni conviviali, mentre, in contemporanea, viene servito un altro vassoio coperto di torte con al centro un Priapo (il dio romano della fertilità) in pasta di pane con in grembo uva e frutta d'ogni tipo.

    Infine, dopo una pausa, si allestiscono di nuovo le mense, cospargendole di una segatura mista a zafferano, minio e polvere di talco e arriva l'ultima portata, che nessuno più desidera, composta di un'oca arrosto circondata da tordi fatti di pasta farcita, di uva passa e noci, e mele cotogne decorate da aculei come ricci di mare.
    Trimalchione giura poi che tutto ciò che sta offrendo è in realtà fatto con carne di maiale e che il suo cuoco, in grado, come uno scultore, di dare alla carne le forme e le sembianze più diverse, è stato per questo denominato Dedalo, come il mitico scultore dei Greci.

    Satyricon

    Il Satyricon è un romanzo ambientato in Campania, soprattutto a Pozzuoli, e vede protagonista, come voce narrante, un giovane di nome Encolpio e le sue peripezie, i suoi incontri sentimentali e i colpi del destino che gli regala il dio Priapo, in un percorso molto colorito e spesso triviale a contatto con varia umanità, che condivide con il giovinetto Gitone, con l'amico Ascilto, e con il poeta Eumolpo. Un episodio centrale è appunto la lussuosa cena in casa del liberto Trimalchione dove Encolpio e Ascilto capitano per caso.

    Una cena simile certo non era consumata tutti i giorni e voleva soprattutto esibire la ricchezza del proprietario e simulare i banchetti degli imperatori nelle gigantesche sale dei palazzi, ai quali accorrevano centinaia di invitati e che duravano anche diversi giorni.

    Il menù di Trimalchione è però un esempio di un rituale sicuramente centrale nella giornata di un romano, che amava stare a tavola a lungo e cibarsi di alimenti elaborati e stuzzicanti anche solo per l'immaginazione...

     Apicio

    L'antichità ci ha tramandato un solo vero manuale di cucina il “De re coquinaria” (“L'arte di cucinare”) di Caelius Apicio. Si tratta di una voluminosa opera in 10 libri risalente al IV secolo d.C.; raccoglie numerose ricette di diversa provenienza e cronologia, e tra queste anche quelle di Marco Gavio Apicio, un ricco romano vissuto ai tempi di Tiberio (14-37 d.C.) dedito soprattutto alla vita conviviale, nella quale spese tutto il suo patrimonio. Per avere scampi particolarmente grossi allestì una nave ma poi si tolse la vita poiché si accorse di aver speso troppo. A lui si devono numerose ricette di piatti e condimenti.

        ERCOLANO 2 A

    Ercolano. Natura morta con uova e cacciagione