• Diario d'ascolto
  • 12 Luglio 2016

    Temi politici in musica

      Carlo Piccardi

    Dopo la temperie espressionistica che vide la musica confrontarsi problematicamente con la realtà del tempo, l’evoluzione del dopoguerra, con gli obiettivi concentrati nella verifica strutturale del linguaggio seriale, parve abdicare di fronte al compito di testimonianza nei confronti della società.

    Le lodevoli eccezioni, con Luigi Nono in prima linea, oltre che confermare la regola non riuscirono a sanare la situazione contraddittoria venutasi a creare nelle difficoltà di conciliare il significato della protesta con l’insufficiente prospettiva comunicativa, resa inoperante dalla difficoltà di un aggancio attivo con il pubblico. In questo senso il ‘68 non poteva passare senza lasciare traccia.

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    Se guardiamo all’esperienza dei ‘numi’ della “Nuova musica” la data fatidica sembra essere stata attraversata senza eccessivi contraccolpi, avendo semmai determinato una presa di coscienza in senso inverso, nella direzione cioè di un’accentuata individualizzazione delle rispettive posizioni, con ritorni più o meno palesi all’affermazione di ragioni espressive soggettivamente motivate, siano esse il misticismo visionario di Karlheinz Stockhausen, la liturgia comunista di Nono o la vocazione cosmopolitica di Luciano Berio. A questo livello di ‘ufficialità’, l’originaria spinta sperimentalistica è venuta meno nell’ideale di rinnovamento, che era lecito sperare di veder incrementato sulla base del rilancio della contestazione ai sistemi, rinata in quel periodo.

    Karlheinz Stockhausen 1980

    La traccia è quindi da cercare altrove, in quei ‘gruppuscoli’ che, in perfetta analogia con la maturazione di un nuovo costume politico, hanno sovvertito lo spazio artistico frantumandone i confini storici che in fondo le precedenti avanguardie non avevano messo in discussione.

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    I rovesciamenti periodici determinati dalle avanguardie presessantottesche si erano infatti attuati sul filone privilegiato di una tradizione dove una priorità assoluta era sempre affidata al discorso interno alla logica imposta e affermata da una cultura borghese che continuava a discriminare le esperienze subalterne condotte al di fuori della visione eurocentrica, mantenendo l’individuo nella funzione di garante della dignità artistica. A questa logica obbediva tutto sommato anche l’esperienza demistificante di John Cage e di quelle correnti americane che, entrate in rapporto dialettico con l’esperienza postweberniana, si erano limitati a confutarla dall’interno.

    CAGE

    Una spaccatura significativa poteva avvenire solo come scelta alternativa alla tradizione, contestata non tanto nei raggiungimenti bensì alle radici stesse del suo sviluppo.

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    Il ‘68 ha infatti aperto gli occhi su quell’insieme di attività subalterne che, come manifestazioni che dal revival folclorico si estendevano alla mobilitazione delle energie giovanili intorno al fenomeno della rock music, avevano creato lo spazio per un discorso di impegno critico nei confronti della società, non più rapportabile a un momento di coscienza individuale bensì collettiva.
    Che vi sia stato un legame tra questi fatti e il sorgere di attività artistiche a responsabilità collettiva è dimostrato dall’affermarsi del lavoro di gruppo, dai complessi che hanno ridato vita al principio dell’improvvisazione, ecc.
    Tale tendenza si è consolidata pur non potendo essa contare su canali adeguati di comunicazione che l’informazione culturale, ancora legata a vecchi schemi di selezione gerarchica, non consentiva. D’altronde l’abitudine a concepire il fatto artistico come azione determinata dall’atto individuale, come appare dalle proposte di Frederic Rzewski, Cornelius Cardew, Christian Wolff e Garrett List (per limitarci ad alcuni nomi), è sembrata ancora pesare come un abito di cui non si era capaci di fare a meno. Data per scontata l’impossibilità di ripartire da un grado zero, richiamandosi a collaudate esperienze di comunicazione di massa (jazz, folk, ecc.), questi tentativi sembravano condannati al vizio ineluttabile dell’eclettismo.

     Rzewski-The-People-United

    I Songs (1973-75) di Christian Wolff, qualificanti la sua portata ponendo in musica testi saggistici di Rosa Luxemburg, si presentano come un’alchimia di modi espressivi che dal blues, alla canzone fino all’innodia modellata sull’esempio di Eisler non sembra capace di pervenire a un grado di omogeneità sufficiente a fondare uno spazio linguistico condiviso. Un equilibrio più sicuro è invece garantito in Coming together di Rzewski basata sulla lettera di un prigioniero testimone della rivolta nel penitenziario di Attica (1972), reso possibile da una deliberata riduzione alla meccanicità di un testo ossessivamente ripetuto ed elementarmente strutturato in modo da ampliare criticamente l’istintiva portata del grido viscerale nel distacco dal sentimento di una voce spettatrice di speaker.

    Ma la tentazione celebrativa del momento della rivolta rimane il tranello più diffïcile da aggirare e in ogni momento vi ricadono le Thälmann Variations del 1974 (mezzo secolo di storia della sinistra tedesca) di Cardew, dove il tema epico non esita a cadere nell’effettistica del poema sinfonico in un misto di naiveté, di elementari congegni narrativi e di sommari procedimenti di collage. Le finalità di questa musica politicamente orientata non sono raggiunte per l’impossibilità di uscire dal compromesso che la fa dipendere da modelli colti e che solo la sua discesa dal piedestallo, accettando serenamente la realtà delle comunicazioni di massa potrebbe garantire. 

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