• Diario d'ascolto
  • 27 Novembre 2023

    SCIOSTAKOCIC, SINFONIA N. 5

      Carlo Piccardi

    Intitolata «Risposta pratica di un compositore ad una giusta critica», applaudita dai burocrati di partito il 21 novembre 1937 in occasione della prima esecuzione a Leningrado, la Quinta di Sciostakovic segna il momento di rappacificazione tra il compositore precedentemente bersagliato dai tutori dell’ordine artistico sovietico e l’apparato da lui già causticamente satireggiato nell’opera Il naso (1930).

    Accolta in Occidente come testimonianza paradigmatica dell’applicazione delle norme estetiche staliniane in campo musicale – adottata dalle orchestre di tutto il mondo per la convenzionalità dei tratti che ne sottolineano la parentela con il patrimonio tardo romantico – ancora oggi è difficile cogliere la verità sotto la scorza di un impianto formale dall’apparenza convenzionale. La dilatazione in dimensione monumentale, la scansione solenne del tempo, l’equilibrio spostato verso il movimento finale condotto con piglio edificatorio, ottimistico, apologetico, possono effettivamente trarre in inganno; eppure quale distanza tra la sinfonia di Sciostakovic e Il placido Don, altro modello di «realismo socialista» uscito dalla penna di Ivan Dzerzinskij, musicista ben altrimenti ligio. Il problema sta nel cogliere la sostanza dialettica dell’opera in cui brechtianamente cova una contraddizione, viva nella misura in cui l’eloquio tocca i vertici più fastidiosi della magniloquenza e dell’esultanza.

     Stalin
    Josif Stalin

    «Di che cosa si dovrebbe esultare? – leggiamo nella postuma Testimonianza resa pubblica in Occidente – Ritengo sia chiaro a tutti quel che accade nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di convinzione al pari di quello che accade nel Boris Godunov. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare...”, e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremante, e riprendi a marciare bofonchiando: “Il nostro dovere è il giubilare, il nostro dovere è il giubilare...”». A ben guardare non è immaginabile risposta più efficace di questa alle accuse di intellettualismo, di formalismo, di degenerazione borghese piovute sull’arte sovietica d’avanguardia proprio a partire dalla condanna lanciata dalla Pravda il 28 gennaio 1936 contro l’opera teatrale di Sciostakovic Lady Macbeth del distretto di Mcensk. In verità il «caos sinistroide anziché la musica naturale e umana», «il ritmo diabolico e il fracasso al posto della melodia», cioè tutti quegli elementi attraverso i quali risulta misurabile il profondo grado di sintonia tra lo Sciostakovic degli anni Venti e le esperienze culturali coeve dell’area berlinese e parigina, non scompaiono del tutto dalla Quinta, ma rimangono sopiti agendo in sottile rapporto dialettico con un registro formale che ne costituisce volutamente l’esatto rovescio.

     Prabda
    Confusione invece che musica. Articolo della "Prabda", 28 gennaio 1936

    Alla decifrazione della verità di questa complessa composizione non basta quindi l’analisi dell’apparenza stilistica. Senza saper cogliere il messaggio in controluce che si cela tra le righe (il riso che assume la piega della smorfia o il gesto retorico che si svuota proprio in quanto portato al parossismo) non è possibile mettere a fuoco la sostanza di un lavoro che ha paralleli solo in opere del pari sorte in una dimensione di ipocrisia sociale, con l’intento di smascherarla per mezzo della finzione mimetica portata all’estremo, com’era ad esempio già avvenuto nell’Ascesa e caduta della città di Mahagonny che era servita a Brecht e a Weill a condurre l’attacco all’opera «culinaria» con le sue stesse armi. La sola differenza tra quegli artisti tedeschi e Sciostakovic stava nel fatto che per il compositore russo l’espressione artistica poteva preservare la propria autenticità solo in quei termini, senza altra alternativa che la supina resa al gusto promosso dall’ufficialità. Se poi consideriamo come il risultato dell’umile eroismo coltivato tra le righe abbia avuto fatalmente come sbocco capolavori dal doppio volto, la grandezza di Sciostakovic resta individuata in quel nodo nevralgico che nel principio dell’ambiguità elevato a nozione assoluta lo avvicina ai più grandi artisti la cui verità non sta mai nelle certezze bensì nella duplicità di senso appunto. La faticosa e oscura lettura del capolavoro sinfonico di Sciostakovic consente di misurare nella sua pienezza una delle più immani tragedie culturali della nostra epoca e nel contempo la capacità di resistervi preservando la verità nel profondo dell’intimo in una situazione senza speranza. Eredità spirituale più grande in fondo nel novecento non è stata data a nessun altro artista.