• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Max Reger, destino di un epigono

    L’interesse della critica per la musica di Max Reger rimane ancor oggi eminentemente storico, quale riconoscimento della funzione rinnovatrice del linguaggio condotta parallelamente a Strauss e Debussy ma, diversamente dalla considerazione estetica riconosciuta ai due suoi grandi contemporanei, valutata al di fuori del contesto globale della sua esperienza.

     

    Una chiara linea direttrice nell’opera di Reger non si lascia infatti riconoscere, non bastando la sua originale tendenza di ritorno all’antico a motivare il senso della sua attività creativa.

    In realtà la ritrovata fedeltà ai modelli classici non si attuò in Reger con quella coerenza in seguito praticata da certi suoi successori, Hindemith soprattutto, e condotta chiaramente con significato alternativo a valori musicali ormai entrati in crisi. Il suo ricorso all’antico gli derivò meno dalla coscienza dell’impossibilità di proseguire sulla strada accidentata imboccata dal tardo romanticismo e più dalla condizione di musicista artigiano che poneva precisi limiti al suo sviluppo intellettuale, relegandolo ai margini di una problematica che egli riuscì ad avvertire non in sede di progetto bensì in sede operativa, in fase di resa dei conti con il materiale ereditato. Dall’analisi dell’opera di Reger non risulta che egli si sia imposto un compito estetico dal cui adeguamento ricavare un chiaro indirizzo progettuale e con ciò un inserimento dialettico nel teso momento risolutivo della musica nel difficile trapasso tra Ottocento e Novecento. La sua condizione, in un certo senso anomala per il tempo in cui visse - di musicista che non scelse di divenire tale ma piuttosto incapace di essere altrimenti - non gli permise di svolgere un discorso criticamente fondato e non lo preservò da disorientamenti e da inavvertiti cedimenti di gusto. Chi ascoltasse ad esempio la suite sinfonica Quattro quadri da Böcklinop. 128 non riuscirebbe a giustificare un descrizionismo tanto male impostato e fuori luogo, attuato com’è attraverso uno stile aggiornato sì alla fase di introverso ripiegamento che contraddistingue tutta l’area postwagneriana, ma proprio per questo incapace di riprodurre la realtà immaginativa nelle sue componenti plastiche. Ben diversamente Richard Strauss aveva preso coscienza della condizione estetica maturata attraverso la riduzione pressoché completa a soggettività del linguaggio musicale, per cui il programma nei suoi poemi sinfonici trasforma il compito rappresentativo in semplice richiamo a riferimenti concettuali, inerenti non più a situazioni drammaticamente articolate oppure a naturalistiche dipendenze analogiche bensì all’intensità di significati morali intimamente vissuti. Reger si muove invece in uno spazio di ideologie non scelte, condividendo semmai con l’illustre precedente di Anton Bruckner una condizione di innocente primitività che, come nel caso citato, non gli impedì di ritrovarsi in sintonia con i progetti più ambiziosi del proprio tempo. In particolare a Reger si riconosce il merito di aver aggiornato il linguaggio armonico, allineandosi con le correnti contemporanee più avanzate in particolare nell’applicazione della cosiddetta ”armonia complementare”. Nel compositore tuttavia l’audacia dei procedimenti non sottintende la radicale negazione della tradizione. Anzi nella complessità dell’impianto armonico sopravvive pienamente la logica tonale, condizione base per la sopravvivenza (la celebrazione addirittura) delle forme ereditate, talvolta arcaiche com’è il caso del Concerto in stile anticoop. 123 in cui è ridata nuova vita al modello del concerto grosso. Dopo Brahms, il quale nei confronti della tradizione classica si era posto in un rapporto dialettico essenzialmente ideale, Reger va oltre, nel tentativo di recupero di principi strutturali chiamati in causa in quanto garanzia di stabilità formale in un contesto evolutivo ormai prossimo al disfacimento. Con ciò a Reger viene a mancare quella serenità che nell’operazione condotta da Brahms era stata preservata e ciò non traspare solamente dal fatto che nella musica di Reger l’indirizzo retrospettivo coesiste accanto a pagine conformi al gusto dell’epoca, ma si manifesta soprattutto nella scelta stessa dei modelli classici. Se nella musica d’organo inevitabilmente predomina il ricorso bachiano, le pagine sinfoniche oscillano tra l’occasionale riferimento barocco e il più funzionale modello viennese, tradendo un’insicurezza di fondo destinata a produrre esiti stilistici eclettici. La sintesi è negata sul terreno minato di nuclei di discorso in cui la concentrazione espressiva non riesce a espungere l’opprimente presenza individuale, così da consegnare le strutture alle forze interne della loro logica. Le Variazioni e fuga sopra un tema di Mozart op. 132 sottostanno appunto al peso dell’irrinunciabile imperativo che pretende di esaltare la capacità dell’artista di dominare la forma con la forza di una suprema individualità espressiva. E se l’opera nelle prime pagine riesce ad esporre il tema mozartiano nell’innocenza quasi di un divertimento, mimato attraverso le sonorità cameristiche dei fiati, la controvoce degli archi già nella prima variazione dissolve l’omogeneità formale per riportare il discorso a una volontà di affermazione individuale al di là dello schema dato, che nella terza concede alla prorompente enfasi di stravolgere le linee tematiche e lascia ormai risuonare la voce lontana dell’oboe, disegnata nel ricalco dell’originale, come relitto di memoria. Quella che si era annunciata come restaurazione della forma classica si esplica invece come smembramento del principio di variazione, travolgendo il tema dato, rimbalzante tra ammiccamenti ‘straussiani’ e squarci ’mahleriani’ di coscienza affiorante, che occasionali parentesi di tenerezza lirica ritrovata in movenze schubertiane non riescono ad equilibrare. È come se il principio della variazione fosse guidato da una labile memoria e che perciò non potesse attuarsi che per mezzo di forzati recuperi. La fuga finale rappresenta il tentativo estremo di riportare il discorso all’iniziale linearità di struttura, ma il tema stesso, se nelle inconsuete movenze di marcia sembra preservarla dal ricalco accademico, impedisce al contrappunto di attuare quella compenetrazione di voci capace di bastare a se stessa senza ripiombare in contorsioni armoniche cariche di allusività. La fisionomia stessa del tema, più adatta a un discorso di tipo argomentato che a un’architettonica strutturazione dello spazio musicale, si lascia evidenziare come punto di riferimento i cui caratteri psicologici attribuiscono ad ogni suo riaffiorare la pregnanza di momenti intimamente vissuti, di confessioni che reclamano uno spazio diverso da quello in cui sono costrette, di fronte al quale l’abbagliante conclusione che riprende la frase mozartiana nella sua integralità risuona come illusorio rifiuto di arrendersi all’evidenza di un progetto condannato all’incompiutezza.