• Diario d'ascolto
  • 29 Giugno 2022

    IL SUONO TRASCESO DELL’ORGANO

      Carlo Piccardi

    Sullo scorcio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, entrato profondamente in crisi il «positivismo» strutturale che svolse fino alle più assurde ed estreme conseguenze l’idea seriale, l’interesse dei moderni compositori, ormai predisposto ad accogliere senza più riserve le componenti estemporanee del fatto musicale, iniziò quel processo di anatomia dei mezzi meccanici utilizzati per produrre musica che in breve tempo ristabilì l’antico equilibrio tra compositore e esecutore e che conseguentemente recuperò pure l’alone di mito destinato ad accompagnare la figura dell’interprete almeno dall’Ottocento in poi, quell’interprete che era rimasto esautorato nella ricerca tutta rivolta ai valori astratti dell’immediato periodo postweberniano.

    Una storia della musica recente, osservata dal punto di vista dell’interprete, non è ancora stata scritta ma rivelerebbe importanti responsabilità assunte nell’evoluzione del linguaggio musicale dalla ricerca di esecutori i quali, in stretto e proficuo contatto con gli autori, hanno non poco contribuito a sciogliere la matassa aggrovigliata delle partiture seriali predeterminate in tutti i loro parametri.

    unnamed 1Severino Gazzelloni 

    Il ruolo dei vari Severino Gazzelloni, Carhy Berberian, Lothar Faber, Vinko Globokar, William O. Smith e altri ancora nel ricavare dall’àmbito sonoro di propria specifica competenza orizzonti di sperimentazione fino allora trascurati è riconosciuto di primaria importanza, anche se la consuetudine al rispetto delle gerarchie ancor oggi attribuisce il novanta e più per cento dei meriti agli autori.

    La modestia (a conti fatti così si può ben dire) di questa generazione di esecutori, rimasta tale forse in quanto rapidamente compensata da una fortuna insperata con risvolti anche economici presso il pubblico, fa sì che essi si siano mostrati ancora docili strumenti nelle mani dei compositori, nonostante la loro raggiunta autonomia che in alcuni casi li ha convinti a mutare di ruolo decidendoli ad optare chiaramente per la funzione inventiva.

    Gerd Zacher (1919-2014), organista a cui va attribuito il merito di aver svelato le facce nascoste del proprio strumento, è rimasto fedele all’atteggiamento sottomesso proprio della sua categoria e, nel racconto della fase storica di cui fu protagonista dal 1961 in poi, ha usato attribuire ad altri la responsabilità delle scelte avvenute. Così si usa far ascendere ad Hans Otto, allora responsabile della sezione «musica» di Radio Brema l’idea di commissionare a tre esponenti della musica nuova alcune composizioni che ripensassero a fondo le possibilità dell’organo. Fra le composizioni di Bengt Hambraeus, Mauricio Kagel e György Ligeti, Volumina di Ligeti è rimasto il saggio più significativo di una nuova maniera non solo di utilizzazione di uno strumento tradizionale ma soprattutto di svolgimento del discorso musicale.

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    Passato dall’Ungheria all’Europa occidentale nel 1956, probabilmente proprio il fatto di non aver fatto parte inizialmente del gruppo che per primo si applicò intorno all’enigmatico processo di organizzazione totale dello spazio sonoro ha fatto sì che Ligeti riuscisse prima di altri a sganciarsi dalle opprimenti strutturazioni razionalistiche dei parametri del suono come nel 1961 dimostrarono le sue Atmosphères. La conclusione, dopo questa esperienza, fu che la componente timbrica non solo poteva diventare parametro organizzabile in autonomia non sottoposta a gerarchie intervallari, ritmiche o altro, ma legittimamente porsi in posizione di predominio liberando nel discorso forti cariche immaginative. 

    Indipendentemente da possibili tentativi di analisi testuale, la plastica dimensione di Volumina non indugia sui valori costruttivi ma orienta l’ascolto a captare la fenomenicità del risultato complessivo. La sonorità non si presenta più come semplice parametro ma si svela come fonte generatrice di discorso. Non a caso Ligeti parla a proposito dell’organo di «protesi gigante», quasi fosse sostitutivo dell’apparato fisiologico umano dell’emissione dei suoni. È ovvio che questa considerazione non basta a giustificare il valore della composizione, che pure obbedisce alla necessità di organizzazione sintattica dei materiali. Tale organizzazione è però subordinata a nuove norme: la pulsazione ritmica è soppressa mentre il tempo è - si può dire - fermato nell’immobilità di lunghe fasce sonore per riacquistare la nozione del suo trascorrere nelle fasi di deflagrazione sonora, dove non si manifesta sotto forma di scansione periodica bensì si attua attraverso il crescere e il decrescere degli archi dinamici.

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    L’intuizione di questa realtà non a caso ha trovato completa evidenza sull’organo. Nonostante l’immagine affascinante di «protesi gigante», l’organo rimane uno degli strumenti più mediati nel rapporto esecutore-risultato sonoro. Nessun altro strumento può liberare un suono destinato a estraniarsi in tale misura dall’individuo che lo provoca, tanto che questa sua natura ontologica non solo lo rende disponibile a sperimentazioni facilmente sciolte dal peso di consuetudini espressive ereditate, ma tende a indirizzarle addirittura oltre il limite in cui l’individuo può ancora controllarle attraverso il segno della sua presenza. L’analogia del risultato con quanto è stato prodotto dalla musica elettronica non solo si pone per l’affinità degli esiti timbrici, ma in principal modo per la sua capacità di trascendere la dimensione sensoriale dell’individuo. Forse ciò spiega il fatto che dopo Volumina Ligeti si sia rivolto alle voci umane per continuare il suo discorso (Aventures Requiem), mentre proprio in quegli stessi anni la musica elettronica iniziava la fase di abbandono del purismo elettronico-acustico per tentare combinazioni con suoni d’ambiente e con presenze vocali e strumentali di tipo comune.