• Diario d'ascolto
  • 17 Aprile 2022

    IL PASTOR FIDO ALL'ORIGINE DELLA TEATRALITA' MUSICALE

      Carlo Piccardi

    "Sono (...) la musica e la poesia tanto simili e di natura congiunta che ben può dirsi (non senza misterio di esse favoleggiando) ch’ambe nascessero ad un medesimo parto in Parnaso (...). Ma come a nascere fu prima la poesia, così la musica lei (come sua donna) riverisce ed onora. In tanto che, quasi ombra di lei divenuta, la di muover il piè non ardisce dove la sua maggiore non la preceda".

    La dedica con cui, per interposto poeta (Alessandro Guarini, l’effettivo estensore), Luzzasco Luzzaschi faceva omaggio del suo VI Libro dei madrigali a 5 voci (1596) a Lucrezia Este Della Rovere, tocca il momento di più alta consapevolezza del connubio musica-poesia nel secolo che diede vita al madrigale italiano.

    Luzzasco Luzzaschi

    Musica cresciuta su un ceppo preciso (quello del Petrarca e del petrarchismo), fu grazie alla «percezione bembesca delle qualità sonore prima ancora che logiche della ben regolata poesia italiana» (Lorenzo Bianconi) se il madrigale in musica trovò nella lingua poetica lo stimolo, più che il pretesto, alla ricerca di figure ed emblemi espressivi rimasti lungo tempo a fermentare nella coscienza musicale, a loro volta all’origine di sviluppi ulteriori. Caratteristica del mondo cortigiano che faceva da cornice a tali manifestazioni era lo spirito di emulazione, che poneva governanti e artisti in concorrenza spesso serrata e perfino spietata nel raffinamento di forme e maniere, responsabile della vertiginosa accelerazione evolutiva di uno stile che nello spazio di nemmeno un secolo venne addirittura a essere messo radicalmente in questione. Lo stesso Luzzaschi sottolineava il grado di usura dei modi espressivi sottoposti a costante spinta innovatrice, in una situazione di confronto permanente con l’immediato precedente storico.
    "Quindi veggiamo la musica de’ nostri tempi alquanto diversa da quella che già fu ne’ passati, percioché dalle passate le poesie moderne sono altresì diverse".

    Francesco Petrarca
    Francesco Petrarca

    È così possibile individuare alcuni archi di sviluppo nel corso storico del madrigale italiano che consente di cogliere l’azione di un orientamento letterario, e più precisamente di un orientamento letterario dettato dalla frequenza d’impiego musicale di determinati «materiali poetici» che in parte dovettero la loro fortuna alla musica appunto. 

    Il Petrarca getta la sua imponente ombra sull’intero secolo, dominando fin verso la fine del Cinquecento. Tra il 1580 ed il 1590 si impone il Tasso, il quale in seguito non resse all’incalzare di Giovan Battista Guarini la cui fortuna duratura faceva registrare, intorno al 1620, la quota di 4 e più centinaia di madrigali musicati su testi suoi che per poco non uguagliava il traguardo dei 500 madrigali petrarcheschi messi in musica nel 1570 e che sopravanza sempre l’altra quota delle preferenze che i compositori concessero al Marino, entrato nell’agone a partire dal 1600. Furono dapprima le Rime (nel sottinteso spessore drammatico, nel gioco di concetti antitetici, nell’eleganza dell’ispirazione pastorale) a conquistare al Guarini il favore dei musicisti. All’apparire del Pastor Fido (1584) furono i suadenti versi della sua tragicommedia pastorale a dilagare nelle raccolte madrigalistiche in ammiccante dialogo a distanza tra personaggi (Amarilli, Mirtillo, Silvio, Dorinda) vaganti come ombre tra le pieghe degli spartiti polifonici dell’ultima stagione rinascimentale, che affidava al suo lirismo affettuoso e palpitante l’estremo sussulto di una civiltà che affrontava il proprio tramonto nel biondo riverbero dei tenui colori di favola.

    giovan battista guarini
    Giovan Battista Guarini

    La «bella età dell’oro» celebrata nel coro che chiude l’atto quarto adombrava inconsapevolmente l’età altrettanto dorata delle corti italiane specchiate nello splendore del proprio immaginario, nel rituale di regolate certezze di comportamento, di un mondo chiuso su se stesso, giunto all’ultimo grado di superfetazione senza rendersi conto di agire già fuori del tempo. Ed è anche significativo che il coro del Guarini riecheggiasse esplicitamente il coro dell’Aminta principiante con gli stessi versi, nei quali Torquato Tasso, vagheggiando lo stesso paradiso perduto, aveva già insinuato una vena di fatale nostalgia. Sennonché la favola tassesca non aveva goduto dell’attenzione dei musicisti: i suoi versi avrebbero trovato la via della musica solo per azione di riflesso, conseguente all’affermazione della moda pastorale guariniana diramata dalla stessa corte estense che aveva ospitato il primo allestimento dell’Aminta (1573), luogo il quale, anche se si sarebbe lasciato sfuggire la prima rappresentazione del Pastor Fido (avvenuta a Mantova nel 1598), garantì al Guarini il primo consenso e la cornice adatta ad impostare la propria difesa nel momento in cui egli si trovò a subire l’attacco degli esponenti del vecchio ordine estetico.

    Torquato TassoTorquato Tasso

    Il Pastor Fido fu all’origine di una vera e propria marea di musica che sommerse il mondo musicale italiano immediatamente dopo la sua pubblicazione, incontrando sul suo cammino, e ben presto, i maggiori madrigalisti (Filippo De Monte nel 1590, Claudio Monteverdi nel 1592, Luca Marenzio nel 1594, Giaches de Wert, 1595) e alimentando raccolte le quali, integralmente ricavate dai suoi versi, vi si appellavano nell’intestazione: Gabriele Fattorini (La cieca, 1598), De Monte (Musica sopra il Pastor fido, 1600), Giovanni Piccioni (Il Pastor fido musicale, 1602), Monteverdi (Quinto Libro dei Madrigali, 1605), Giovanni Pietro Flaccomio (un Pastor fido perduto, prima del 1608), Marsilio Cosentini (La cieca 1609), Claudio Pari (Il Pastor fido, 1611), Giovanni Niccolò Mezzogorri (Il Pastor fido armonico, 1617), Scipione Cerreto (L’Amarillide, 1621), Sigismondo D’India (Ottavo Libro dei Madrigali, 1624).

    Nel giudizio competente di Nino Pirrotta "ai madrigali di Guarini mancano quelle vivide illuminazioni visive che fanno di quelli del Tasso altrettante miniature preziosamente disegnate e nitidamente colorate. Guarini raramente si serve di aggettivi che non siano generici o abusati; si concentra invece nell’arguzia epigrammatica di un pensiero dominante e nell’ingegnosità con la quale un concetto artificioso è arrotondato nel giro di pochi versi".

    La critica letteraria, oltre a riservargli poca attenzione, ha tramandato giudizi sul Guarini che gli rimproverano il freddo formalismo. In verità il fatto che egli si muovesse in un contesto di poesia coltivata fra risonanze musicali effettive, lo indusse ad accontentarsi di una musicalità semplicemente allusa, di aperture vocaliche discretamente cadenzanti, di pulsazioni che intessono ritmi quasi impercettibili, di una proiezione in dimensione acustica non dichiarata ma subdolamente delineata nei tratti invitanti il musico a tradurre in realtà sonora il gioco di rime, di assonanze ed altre ancora che i suoi versi distillano in supremo distacco contemplativo:

    Il Guarini dei madrigali lascia alla musica il compito di supplire il calore che manca alla parola, e più direttamente l’avvia alla ricerca formale e ad un diverso madrigalismo, misuratamente affettuoso, un po’ ironico e smaliziato (Nino Pirrotta).
    Il Pastor fido lo conferma in certo qual modo nei cori apposti in coda ad ogni atto, nei quali l’appello alla musicalizzazione risulta esplicito, ma la cui esatta stroficità, la predeterminazione di soluzioni compositive automaticamente dettate dall’ordinata forza cadenzante del verso fatta palese, dissuase paradossalmente i musicisti dal rivestirli di note. Proprio là dove la musica era chiamata direttamente in causa mancò ai compositori lo stimolo a svelarla, spingendoli invece a cercarla là dove il testo si fa azione di sentimento nei versi in cui l’esclamazione, il trasalimento, il languore, il sospiro, il lamento tradiscono l’anima di personaggi agenti in un vissuto, fantastico e irreale che sia. 

    Splendido esemplare di illustre provenienza la biblioteca di Pellot della prima edizione illustrata del Pastor Fido la prima è del 1590jpg

    Più di 125 compositori si cimentarono su versi percorsi e ripercorsi in vari tempi e in varie guise, provvedendo di musica ben 1640 linee di testo delle 6700 in cui si articola la tragicommedia pastorale, vale a dire coprendone un buon quarto, quasi a comporre idealmente un’opera in musica universale, un’opera collettiva mobilitante verso lo stesso obiettivo tutte le forze dell’epoca. Opera da intendere proprio nel senso di teatro musicale, non solo per la sostanza dialogica del testo guariniano che spinse ad esempio Monteverdi nel Quinto Libro a cammuffare (nelle strofe dell’atto IV sorprendenti Dorinda e Silvio a serrato confronto) «un vero e proprio duetto realizzato attraverso il complesso madrigalistico delle cinque voci in una serie di cinque madrigali» (Pirrotta), e nemmeno per il registro stilistico che ad altro madrigale monteverdiano (Anima mia, perdona) detta l’obbligo della declamazione in una dimensione in cui la parola urge attraverso la musica nella foga esclamativa di un’intensità che la musica incarna ormai come voce di personaggio teatrale, ma soprattutto per l’effettivo modello che il Pastor Fido costituì per i primi passi mossi dal melodramma, l’Orfeo di Monteverdi e le varie Euridici, i quali, attraverso la favola guariniana saggiavano il nerbo del filone pastorale in cui affondavano le proprie radici «in un rapporto non mediato e rivelatore di gusti, di atteggiamenti culturali e, meno genericamente, di precise derivazioni» (Paolo Fabbri): i ricalchi di quei libretti sulle strofe del Pastor Fido sono lì a dimostrarlo.
    La favola del Guarini, agitando a fondo le acque della musica di fine Cinquecento e di inizio Seicento, veniva a mettere a nudo la doppia valenza, da una parte di fedeltà nostalgica alla disposizione contemplativa che nel primato della musica (nella sua capacità di scandire nella temporalità ben altro che il semplice ritmo del vissuto) distillava il sentimento in lirica risonanza della sua proiezione formale, e dall’altra di espressione sempre più carica di emblemi gestuali facenti capo in modo più palese ai procedimenti della concitata comunicazione teatrale.

    Diversi furono quindi gli approcci dei vari musicisti ai versi del Pastor Fido. Se, per ragioni di cronologia legate all’epoca di composizione, predominò il madrigalismo polifonico, ben presto (da Luzzaschi in poi) vi si affacciò l’interesse dei monodisti spinto fino al punto da rilevarvi pretesti di teatralizzazione effettiva. Ciò valse soprattutto per due scene interamente musicate nella loro contrastata sostanza drammatica, il «Giuoco della cieca» (A. III, sc. 2), messo in musica da Giovanni Ghizzolo nel 1609 a 1-3 voci con basso continuo, e il «dialogo musicale a due voci» tra Satiro e Corisca (A. II, sc. 6) composto nel 1626 da Tarquinio Merula. Il poeta stesso non si sottrasse alla responsabilità di indicare alla musica la via dell’esplicita teatralizzazione se, com’ebbe a dichiarare nell’edizione della tragicommedia del 1602
    "Fece comporre il ballo a un perito di tale esercizio, divisandogli il modo dell’imitare i moti e i gesti che si sogliono fare nel gioco della cieca molto ordinario. Fatto il ballo, fu messo in musica da Luzzasco, eccellentissimo musico dei nostri tempi. Indi sotto le note di quella musica il poeta fe’ le parole, il che cagionò la diversità dei versi, ora di cinque sillabe, ora di sette, ora di otto, ora di undeci, secondo che gli conveniva servire alla necessità delle note".

    PASTOR FIDO
    Prima edizione illustrata del Pastor Fido. Venezia, Giovanni Battista Ciotti, 1602.

    Non solo quindi egli pensò a un effettivo apporto musicale per il suo lavoro teatrale, ma giunse perfino (in linea con il peso che la musica era venuta assumendo nella cultura cortigiana del tempo) ad ammettere la subordinazione della poesia all’arte dei suoni al punto da adattarla a un ordine musicale preesistente. D’altra parte lo sbocco al lido edonistico della musica, più precisamente al teatro d’opera, era iscritto nelle ragioni teoriche addotte dallo stesso Guarini a difesa dagli attacchi di cui fu oggetto il Pastor fido da parte dell’accademico padovano Giason de Nores il quale, in un suo trattato rigorosamente aristotelico del 1587, definiva la «tragicommedia» un «mostruoso e disproporzionato componimento», un abuso mescolante generi diversi, e la «pastorale» un eccesso altrettanto condannabile «fuor de’ principi già statuiti e delle regole di filosofi morali e civili, e de’ legislatori e governanti delle Repubbliche», come inopportuna estensione teatrale dell’egloga, incurante dell’inverosimiglianza di pastori ragionanti sulla scena come principi e filosofi.

    POETICA GIASON DE NORES

    La replica del poeta ferrarese, dapprima immediata e consegnata a Il verato primo (1588) e a Il verato secondo (1593), nel più tardo Compendio della poesia tragicomica (1601) assunse la portata di un manifesto di estetica, celebrante il tripudio del moderno riconoscimento dell’uomo inteso come esclusivo agente del proprio destino, attraverso l’assecondamento delle proprie pulsioni e della propria capacità progettuale. Come tutte le difese dall’accusa di sovvertimento dell’ordine costituito, in una situazione dove molto contava ancora il rispetto dei principî ereditati, il Guarini condusse la propria difesa richiamandosi abilmente alla preservazione di un equilibrio regolato in funzione dell’edificante scopo sociale, vantando la sua operazione come restauro della dignità che si pretendeva vilipesa nelle commedie coeve. 

    COMPENDIO DELLA POESIA TRAGICOMICA

    "Per sollevare adunque di tanta meschinità la comica poesia, che possa dilettare le svogliate orecchie de’ moderni uditori, seguendosi le vestigia di Menandro e Terenzio, che la innalzarono a decoro più grave e più ragguardevole, si sono i facitori delle tragicommedie impegnati di mischiar tra le cose piacevoli di lei quelle parti della tragedia che si possano accompagnare con le comiche, in tanto che conseguiscano la purgazione della mestizia, argomentando, e non male, che, sì come i romani antichi, per testimonio d’Orazio, introdussero i satiri, personaggi ridicoli, nella severità del poema tragico, come di sotto si mostrerà, non per altro che per sollazzo e recreazione degli ascoltanti, così de’ esser lecito a noi, per levare il fastidio e l’aborrimento che oggi ha il mondo delle semplici e ordinarie commedie, di temperarle con quella tragica gravità che non sia repugnante al fine architettonico di purgar la mestizia".

    Per quanto illuminanti essi possano essere come affermazione della rappresentazione più larga e variegata del vissuto (criterio all’origine del dramma moderno), al di là di tanto ingegnose argomentazioni ciò che più conta è l’affacciarsi della consapevolezza, di un rapporto con gli spettatori non più determinato a senso unico e retto da principio di autorità. La nozione di pubblico che il testo teatrale guariniano implicava era già quella moderna, capace di riconoscervi l’ambiguità, la labilità, e soprattutto il termine di verifica della fondatezza dell’operazione estetica, in un accertamento da condurre sperimentalmente sul campo, in un modo dal significato non meno rivoluzionario di quello che, attraverso la norma della dimostrazione sperimentale, determinava parallelamente la svolta della scienza moderna: "E veramente, se le pubbliche rappresentazioni sono fatte per gli ascoltanti, bisogna bene secondo la varietà dei costumi e dei tempi si vadano eziandio mutando i poemi".

    Non più l’adeguamento a norme estetiche dettate dall’autorità del passato, non più il compiacimento di dividere con aulici e storici modelli l’organicità di un pensiero immutabilmente replicato e per esclusiva forza di tradizione, ma il primato dell’individuo e la rivendicazione delle sue ragioni emergevano da tale lapidaria considerazione dei fatti. A dominare venivano gli effetti direttamente e vibratilmente misurati sulla pelle degli interlocutori chiamati in causa (e senza mediazione) a renderne conto e a chiedere giustificazione, il diritto dello spettatore di costituirsi in quanto pubblico, in quanto entità in grado di elevare pretese che da allora in poi avrebbero imposto una dialettica di attese permanentemente coniugate con le enunciazioni, in equilibrio concordato di circostanza in circostanza, nella relatività di acquisizioni di gusto e di cultura maturate dalla coscienza al di là di ogni certezza e di ogni traguardo.

    POETICA GIASON DE NORES

    Si tratta di riflessioni ormai irrimediabilmente fuori dalla portata etico-politica della poesia a cui si aggrappava ancora il suo detrattore padovano, il quale a sostegno della regola del delectare et docereribadiva che «sebbene (...) la peripezia è congiunta con meraviglia, non è però una tal meraviglia senza grande ammaestramento della vita civile».
    Replicava infatti il Guarini: "E, per venire all’età nostra, che bisogno abbiamo noi oggidì di purgare il terrore e la commiserazione con le tragiche viste, avendo i precetti santissimi della nostra religione, che ce l’insegna con la parola evangelica?"

    I diritti della poesia erano ribaditi dal Ferrarese nell’inequivocabile distinzione tra arte e vita, tra estetica e politica, in una conclamata autonomia d’azione che non esitava a disfarsi del concetto di catarsi a cui Giason De Nores si richiamava come a elemento chiave della sua restrittiva e miope lettura aristotelica, a strumento di elevazione dell’animo attraverso gli emblemi della pietà e del dolore.
    "E però quegli orribili e traculenti spettacoli son soverchi, nè pare a me che oggi si debbia introdurre azion tragica ad altro fine che per averne diletto".

    Dopo la messa a fuoco della nozione di «pubblico», a spalancare le porte della concezione estetica moderna ecco giungere un secondo ed altrettanto capitale principio: il diletto, la ricerca di soddisfazione ai bisogni, ai desideri (spirituali certamente oltre che fisici) che stanno a indicare l’emergenza di un pubblico effettivamente interlocutore, emancipato, sollecitato a manifestare le proprie reazioni, le proprie aspettative, le proprie pulsioni nel delineamento di un ordine che all’emblematica figurazione del sentimento sostituiva l’affettuosa perorazione, all’esemplarità la spettacolarità, e che puntava quindi diritto al teatro d’opera, la cui manifestazione non fu la semplice conseguenza di una maturazione culturale, bensì il sintomo di una svolta della civiltà, destinata ad aprire non già una stagione di corto respiro ma un’era vera e propria protesa verso secoli a venire, presupponendo essa la mutazione radicale dell’orientamento estetico nella conquista di una dimensione del sentire altrettanto duratura rispetto ai valori costituenti il retaggio della classica bellezza contemplata e tramandata attraverso l’Umanesimo.

    Non per niente, nel prologo dell’Euridice del Rinuccini, con esplicita e programmatica chiarezza la Tragedia, più che vantarsi di aver fatto «negli ampi teatri al popol folto / scolorar di pietà volti e sembianti», si proponeva di cangiar «i mesti coturni e i foschi panni» e di destar «ne i cor più dolci affetti» e «alto stupor», cioè di mettere a nudo quei sottili meccanismi della comunicazione chiamati a specchiare nella rappresentazione affettuosa e spettacolare l’esigenza di veder appagata la domanda di piacere.
    Era la strada appunto già tracciata dal Pastor fido, i cui dilettevoli propositi non per niente si incarnavano (e abbondantemente) in musica, nel fisico risuonare di soavi ed effettive armonie in un processo a cascata proseguito al di là del tempo, non solo nel solco del melodramma in cui era destinato a sfociare – su su fino a Händel e a Salieri che ebbe ancora la ventura di adornarne di note la vicenda ridotta a libretto da Lorenzo Da Ponte – ma in manifestazioni (per giunta) di pura musica, le sonate per flauto op. XIII nella cui intestazione Vivaldi, inconsapevolmente ma sintomaticamente, richiamava al capolavoro del Guarini i frutti genuini della sua feconda creatività, sorgiva e svagata, i quali nell’eco di suadente sonorità pastorale rivivevano l’ispirazione di una poesia che nell’ordine musicale aveva scoperto la regola inappellabile del gradimento e la verifica delle ragioni dell’ascolto destinate a dettar legge alla moderna sensibilità.