• Diario d'ascolto
  • 18 Febbraio 2019

    Il mito di Pelléas e Melisande

      Carlo Piccardi

    Ogni periodo storico ha compiuto identificazioni in tipi letterari determinati, alcune volte ai limiti del mito come avvenne per la vicenda di Orfeo, regolarmente celebrata, cantata e messa in scena dalla prima fase della poesia rinascimentale fino alla nascita dell’opera in musica e oltre. Nella sfaccettata situazione estetica della ‘Fin du siècle’ è altrettanto rilevante la costanza del riferimento al capolavoro di Maurice Maeterlinck, all’intuizione lirica di Pelléas et Mélisande (1892) che ossessionò i musicisti del tempo a varie latitudini.

     MAETERLINK

    Maurice Maeterlink

    La serie è aperta dalle musiche composte da Gabriel Fauré per la rappresentazione londinese del dramma (1898), efficacemente teatrali nell’arco delle tensioni che riescono a sprigionare ma intimamente fedeli alla sommessa musa maeterlinckiana nel contenere l’empito degli accenti che ne sommuovono il tessuto ricondotto alla dimensione dell’elegia.

    Nell’omonimo capolavoro di Debussy (1902) il dramma trova colui che circonfonde la risonanza della parola nella vibrazione del suono reale.

      DEBUSSY

    Claude Debussy

    Tra il 1902 il 1903 segue l’omonimo poema sinfonico di Arnold Schönberg che ne vive il fatalismo in termini tragicamente scanditi da una musica trascinata dalla forza di un sentimento travolgente nel cromatismo che si alimenta ancora alla fonte del Tristano wagneriano, al quale è d’altronde possibile riconoscere una non troppo remota paternità nei confronti dell’opera di Maeterlinck.
    Nel 1905 è il turno di Jean Sibelius, impegnato a condecorare la rappresentazione del teatro svedese di Helsinki con musiche di scena svolte sul filo di una delicatezza indotta a cogliere nell’evocazione del poeta la sostanza cortese e fiabesca.

    Se, oltre ad altri due musicisti attirati dallo stesso dramma (Cyril Scott e William Wallace) consideriamo anche l’interesse di Puccini ad appropriarsi dei diritti per il libretto, negatogli nel 1899 semplicemente per avere avanzato la richiesta dopo che Debussy ne aveva già ottenuto la concessione, avremmo un quadro eloquente di come il poetico dramma di Maeterlinck corrispondesse al tipo di esigenza maturata in quella stagione. Simbolistico per quel tanto che poteva muovere le corde della musa debussiana, evitando il registro di troppo oscuri ermetismi, esso si concedeva anche a quel tipo di lettura rettilinea richiesto da aree musicali letterariamente meno esigenti rispetto a quella francese, al punto da poter essere immediatamente rivendicato come fondamento per operazioni estetiche apparentemente contrastanti. 

     PELLEAS 2

    Nonostante la diversità degli esiti, nessuna di esse tradì comunque il significato di una vicenda divenuta simbolo di una condizione spirituale che attraversava ormai la civiltà europea in tutte le sue espressioni artistiche.
    Tale risultato si impose in così vasto raggio probabilmente per aver ridotto a quintessenza il significato di una vicenda altrettanto emblematica, quella del Tristano wagneriano, dramma di vasta diffusione continentale che tormentò intere generazioni di artisti come principio di una predestinazione altrettanto irresistibile che esalta l’umano (l’amore) innalzandolo attraverso la morte alla dimensione estatica del divino.
    Ridotti alla trasparenza esemplare di un mito i due drammi (quello wagneriano, spogliato dalla gravità di teutonici risvolti nazional-culturali, e quello maeterlinckiano, sintetizzante l’azione in un terso arco liberato dal peso dei preziosismi poetici soverchianti la cultura francese), si garantirono le premesse per un’universalità che li trattiene al centro della problematica di fine secolo toccata in tutti i suoi vari aspetti dal tema del destino che toglie all’uomo l’esercizio del proprio arbitrio non consentendogli più, attraverso di esso, di affermare la propria etica responsabilità.

     PELLEAS INCIPIT

    L’opera in musica, campo d’azione in cui il Romanticismo era intervenuto con la carica enunciativa dei propri manifesti, è ancora il terreno ideologico aperto alla partita in cui la coscienza del decadentismo scopre le carte fatali di un gioco, irrimediabilmente perso dal momento in cui si apre alla prevalenza del personaggio femminile come forza travolgente di un istinto dirompente e non più trattenuto nemmeno dalla riserva del dubbio sulla china della tragedia ineluttabile, da cui non è più possibile ricavare senso di morale edificazione se non la vanità della lotta contro sorte segnata.
    In fondo ambedue le vicende del Tristano e del Pelléas, ponendo la donna al centro dell’azione come fulcro di un destino che coniuga fin dalle prime premonizioni amore e morte, scoprono la stessa verità. La stessa oltretutto che, senza passare attraverso la via del simbolismo, era stata toccata dall’estetica del realismo. Esiste infatti una parentela più stretta di quel che si pensa tra una figura come quella di Carmen, che si presenta quale forza scatenata di natura selvaggia, e la pallida fragilità di Mélisande la quale, di fronte agli assillanti interrogativi di Golaud che la interroga sulle ragioni della sua infelicità, non sa rispondere altro che: “C’est quelque chose qui est plus fort que moi”.
    Ad ambedue non è concessa capacità di opporsi a forze indomabili che ne determinano il comportamento, annullandone la volontà e togliendo loro ogni prospettiva di resistenza.

     FAURE
    Gabriel Fauré

    Tornando alla prima messa in musica del Pelléas et Mélisande, è da dire che gli interventi di Fauré realizzano nel miglior modo quell’ideale di “silenzio sonoro” a cui aspirava Wagner con la musica del Tristano (“In realtà, la grandezza del poeta deve essere misurata specie in base a ciò che egli tace affinché l’inesprimibile stesso ci possa parlare col silenzio: ed il musicista è ora colui che fa risuonare chiaramente questo taciuto”).
    Se è giusto affermare con Adorno che “il mito è povero di parole”, la condizione apparentemente costrittiva di Fauré, chiamato ad arredare la pièce con brevi musiche di scena, svolge una funzione non già ornamentale bensì sostanziale nella scansione del tempo ammutolito capace di restituire alla parola l’aura magica di misteriose origini, rinunciando ad imporre, nel contempo, il discorso musicale totalmente organizzato caratteristico dell’opera in musica inglobante la parola nell’unidimensionalità del canto.
    Indipendentemente dai confronti (nessuno mette in discussione il capolavoro di Debussy), l’‘artigianale’ operazione di Fauré in questo caso trasforma la prevedibilità funzionale delle musiche di scena in dimensione essenziale della conoscenza artistica scoprendo rapporti parola-suono in gradi di illimitata profondità.

     PELLEAS FINALE