• Diario d'ascolto
  • 15 Luglio 2022

    HUGO WOLF, IL SOLITARIO NELLA STANZA DEL LIED

      Carlo Piccardi

    È destino di coloro che vissero a cavallo di due mondi, di due distinte situazioni estetiche, quello di apparire scarsamente riconoscibili e quindi di non poter offrirsi a immediata sintesi di giudizio. Se Mahler riuscì a essere capito e a diventare popolare solo mezzo secolo dopo la sua scomparsa ciò è da imputare sicuramente a questo fatto, che permette alla sua fisionomia di trasparire pienamente solo a distanza di tempo, dopo che l’epoca dei confronti con il suo immediato passato è ormai giunta ad operare decantazioni definitive. Esatto contemporaneo di Mahler e non inferiore alla sua grandezza, Hugo Wolf non ha comunque ancora trovato il suo momento, rimanendo confinato nel limbo degli epigoni che brillano di luce riflessa.

    Ugo Duse ha tentato di spiegare l’infelice congiuntura di Wolf con la natura rigorosamente ambivalente del compositore, a metà musicista e a metà letterato. È vero che in campo liederistico nessuno più di lui aveva mai osato esemplare la propria musica su testi poetici di tanto alta carica trasfigurante e soprattutto lontani da quel mondo popolare, di poesia anonima, la cui riscoperta coincide appunto con la nascita del Lied romantico e ne condiziona l’intera evoluzione.
    Il Lied di Wolf, anello ultimo di quella catena, avrebbe così perso l’aggancio con le origini. Ma questo non basta a spiegare la difficile rispondenza della sua arte. In realtà mentre Mahler, pur essendo moderno e antico nello stesso tempo, trascinandosi consapevolmente sotto l’ineliminabile fardello della tradizione si lascia vincere pienamente dalla tentazione retrospettiva e giunge perciò a formulazioni di preciso segno orientativo, Wolf oscilla perigliosamente dall’uno all’altro versante, inconsolabilmente, senza scegliere.

     MAHLER GIOVANE
    Gustav Mahler da giovane

    Non è agevole aprirsi un varco nel groviglio dei suoi lugubri intimismi dove il febbrile movimento delle modulazioni conduce spesso sul ciglio di abissi armonici aperti sul vuoto; ma, altrettanto frequentemente, lungo questo itinerario ci è dato di sostare in spazi delimitati da orizzonti più familiari, dove il momento liederistico viene contratto e posto al riparo di cornice protettiva. La reale duplicità di Wolf, dalla quale non è probabilmente estranea la malattia mentale, è da situare a questo livello di mancata scelta tra finito e non finito, tra l’idea di una forma compiuta e la perdita d’orientamento del discorso, che l’esasperazione emozionale della sofferta analisi del testo conduce all’aporia. Non è probabilmente semplice testimonianza di aristocratica raffinatezza il suo estremo ricorso ai testi di Michelangelo, significativamente rimasti raccolta incompiuta: a un musicista colto del par suo, nel contatto con il genio italiano, non poteva sfuggire il senso dei suoi più problematici frutti artistici e non era possibile sottrarsi al fascino di quegli incerti approdi. Tuttavia la desolata altezza metafisica ai limiti della dissoluzione formale, che Wolf raggiunge attraverso la lirica michelangiolesca, non è che il risvolto della fatale nostalgia che mantiene ancorato il musicista alla nozione di Lied inteso come rifugio dell’espressione più intima, minacciata dalla sfacciata esibizione del sentimento raggiante canonizzata dalla tarda fase del romanticismo.
    Non è certo infatti aristocrazia di casta quella che in Abschied (Mörike) accompagna la cacciata del critico becero e importuno al suono di un valzer viennese, già diventato nel 1888 caricatura delle illusioni che poteva ancora nutrire con il vecchio Strauss e, nel declino della sua stella e di tutto ciò che aveva rappresentato, equiparabile ormai a crasso canto di osteria. È invece fedeltà ostinata a un mondo di purezza che guarda alle origini del Lied romantico come a un paradiso terrestre.

     ITALIENISCHES LIEDERBUCH

    Se c’è un fatto sintomatico nella fulgida e fugace attività creativa di Wolf è proprio l’evidenza che, prescindendo dalle immature prove giovanili e da alcune opere marginali, essa si sia costituita pressoché esclusivamente nelle undici raccolte liederistiche. Se si volesse riscontrare un precedente per trovare un compositore altrettanto intensamente monopolizzato da una categoria estetica occorrerebbe risalire fino a Chopin. Ma non v’è chi non veda la differenza che intercorra tra lo smagliante mondo di luci dorate, a cui nonostante tutto si poteva concedere la vocazione pianistica chopiniana, e il solitario dialogo con se stesso al quale un Lied privato delle radici poetiche popolari condannava Wolf. 

    Il Lied di Wolf rimane però come nucleo generativo di un’espressione preservata nella sua innocenza, un’espressione conservata nel suo stato cristallino proprio in quanto rimasta consegnata a una forma meno di ogni altra soggetta all’usura di impieghi plateali. Nelle trattazioni che usano collocare il nostro musicista ai primordi della musica moderna troppo si è forse insistito sull’audacia armonica, sottolineandone il valore di precursore. Ora, se tale aspetto non può essere negato, a un’analisi meno interessata non si può non notare il prevalente carattere di forzatura detenuto da un’armonia che si moltiplica di dissonanza in dissonanza; forzatura di una forma di cui s’è persa la chiave e intorno alla cui serratura per chi vuole entrarvi non resta che darsi da fare con il grimaldello. Dietro la porta spalancata della stanza del Lied la modulazione tentacolare, che l’esasperata spinta espressiva aveva innescato come unica via d’uscita dai condizionamenti dell’espressione filistea, può allora approdare in una forma ancora intatta e ancora capace di dar ragione al sentimento. L’«arcangelo malato» (Bortolotto) vi può ritrovare sollievo e, con tutto l’affanno che rende fratto il suo discorso, intonare un canto capace ancora di sposare una melodia articolata che dia unità alla forma e la racchiuda, magari calcando la mano congiungendo il canto con il movimento della mano sinistra del pianoforte (Die Ihr schwebet um diese Palmen) quando il timore della dissoluzione formale reclama svolgimenti serrati. 

     GOETHE LIEDER

    Tale tendenza, come tutto nell’esistenza di Wolf, obbedisce a una sua ostinazione; nell’Italienisches Liederbuch la stanza del Lied si ristringe a spazio esiguo, somigliante più a una cella di prigione che a luogo ospitale. Pervenuto alla forma aforistica il respiro si fa più corto, ma il battito del cuore diventa più intenso, scoprendo la forza della concentrazione della struttura. Tutto il corso storico del Lied aveva abbandonato le strade maestre per battere il sentiero della quintessenza del sentimento. Con Wolf esso giunge alla piena consapevolezza di questa evidenza, individuando in ogni numero il nucleo generatore (combinazione melodica, armonica o ritmica) a cui riportare l’arco del discorso. Consapevolezza pronta ad oltrepassare se stessa nella sfida quando, in Mühevoll komm’ ich und beladen, tanto per fare un solo esempio, è un’unica e spoglia figura ritmica reiterata nel pianoforte a sospingere la progressione drammatica.

    È quindi un portare a superfetazione il principio che stava alla radice del Lied romantico, con ciò entrato nella sua fase manieristica. Lied inteso addirittura come scialuppa di salvataggio dal naufragio in cui stavano affondando le altre forme, al punto che per Wolf nulla era più concepibile al di fuori di questa fragile cornice. Quando si cimenterà nell’opera teatrale (Der Corregidor) ne sortirà qualcosa di simile a una raccolta di Lieder, dove semmai la presenza dell’orchestra permette di cogliere in modo più scoperto il procedimento compositivo fondato sulla caratterizzazione a cui qui si somma l’elemento timbrico, come rivela tra i molti esempi il singolare suono di tromba che si stacca da una scena del quarto atto.

    HUGO WOLF COVER
    Hugo Wolf

    Hugo Wolf non può essere tuttavia assimilato a un comune epigono. La forza centrifuga della sostanza modulante tocca nuovi confini e non sempre riesce a trovare garanzia all’interno della cornice tradizionale. Soprattutto nell’Italienisches Liederbuch il ristretto arco di svolgimento di ogni numero se da un lato procura la sensazione di un’articolazione conclusa sul nascere, dall’altro si lascia leggere come promessa di un discorso rimasto sospeso. Ed è in quest’àmbito di fulminei tratti melodici, di inquieti scatti armonici e di disegni pianistici taglienti che si fa avanti il fantasma dell’espressionismo, non solo a rendere più sinistra la già cupa atmosfera wolfiana, ma a indicare addirittura il riscatto in un nuovo ordine formale che l’allucinazione libera dalle nostalgie. La plasticità accademistica del recitativo in Verschling’ der Abgrunde e l’acido contrappunto da «Gebrauchsmusik» che in Schweig’ einmal still accompagna la sarcastica serenata di un asino, sembrano addirittura prefigurare la fiducia ritrovata dai modi postespressionistici verso gli aspetti artigianali della sintassi. In realtà a questo termine la lettura wolfiana rimane ambigua, come ambigui nella parte pianistica di Mein Liebster singt risuonano i singhiozzi di una mazurka quasi chopiniana, sospesa a mezz’aria tra la distaccata contemplazione del ricordo esorcizzato dalla mediazione intellettualistica e la china del rimpianto indelebile.