• Diario d'ascolto
  • 14 Agosto 2022

    EMANCIPAZIONE DALLA DISSONANZA

      Carlo Piccardi

    La storia della musica moderna è anche storia di costume, perciò i manuali non mancano di soffermarsi sui tafferugli scatenati dalle celebri prime esecuzioni di Schönberg, Stravinsky, Varèse, ecc. L’immagine «tellurica» del Sacre du Printemps, determinata dalle taglienti sonorità di una musica che per prima lasciava dietro di sé gli impasti timbrici vaporosi cari alla scuola francese d’inizio secolo, ci è stata senz’altro tramandata anche dall’evento della rappresentazione parigina del 29 maggio 1913 e dal tumulto di pubblico che ne sortì, immancabilmente citato per misurare le capacità provocatorie di una composizione considerata a giusto titolo uno spartiacque. Il discorso potrebbe anche essere generalizzato e, passando per il celebre passo della Terza sinfonia beethoveniana contestato dai primi ascoltatori, risalire almeno fino alle censure dell’Artusi alla Cruda Amarilli monteverdiana. 

    SACRE 1913
    Scena di danza dal Sacre du Printemps di Igor Stravinsky. Parigi, 29 maggio 1913.

    L’evidenza attribuita a tali episodi non è solo risultato di accondiscendenza al vezzo aneddotico, che resta pur sempre un efficace mezzo capace di chiarirne il significato presso il pubblico più sprovveduto, ma va anche letta come conseguenza di un’estetica di tipo evoluzionistico impostasi dal Romanticismo in poi, la quale ha spezzato il cerchio chiuso dell’«imitazione della natura», rimasto vivo fino al Settecento come principio di ricerca di armonia tra le varie componenti dell’oggetto artistico, per magnificare la rottura di un equilibrio risolto a favore non già di un ordine ritenuto immutabile bensì di espressioni proiettate nel futuro.
    Tale concezione radicalizzata nel secolo trascorso è chiaramente entrata in crisi negli ultimi cinquant’anni quando, nonostante i disperati tentativi, non si è più stati in grado di aprire una strada che prescindesse dai legami con un passato tornato perciò a incombere, determinando fin troppo facili propensioni al «d’après» e ai neoclassicismi di ogni genere. 

    D’altra parte occorre fare attenzione a sopravvalutare gli episodi polemici che hanno contrassegnato la problematica affermazione delle forme artistiche radicali del Novecento. Per tornare al capolavoro di Stravinsky, nessuno a quanto mi risulta ha sprecato parole per tracciare una sua «Rezeptionsgeschichte», assai sorprendente se (come racconta Alfredo Casella nella sua autobiografia, I segreti della giara) già la seconda esecuzione, avvenuta a meno di un anno dalla prima e sempre diretta a Parigi da Pierre Monteux, «suscitò un successo delirante e senza nessun contrasto». Non fu quindi necessaria la cosiddetta distanza storica per permettere al pubblico (perlomeno a quello parigino, più avvertito) di assimilare un messaggio capace ovviamente di significare qualcosa anche al di là della sua ruvida facciata. E sarebbe interessante poter seguire il destino di altri capolavori contestati per renderci conto della relativa rapidità della loro integrazione nel repertorio e di una loro carica conturbante ormai non più leggibile nell’occasione di impatto con l’ascoltatore ma nella loro interna costituzione. 

    STEFAN GEORGE
    Il poeta Stefan George

    Un caso emblematico è rappresentato dal ciclo composto da Arnold Schönberg tra il 1908 e il 1909 su poemi di Stefan George, Das Buch der hängenden Gärten op. 15, a cui va fatta risalire l’operazione definitiva dell’emancipazione della dissonanza, la frantumazione dei nessi discorsivi e la coscienza dello stesso compositore «di aver rotto tutte le vestigia di un’estetica passata».

     PARTITURA

    Che cosa ci restituisce invece il suo ascolto? Una rarefazione del tessuto pianistico che anticipa la razionale codificazione dodecafonica, ma che nello stesso tempo si stende come velo flessuoso sull’estetizzante sensualismo del testo cantato; accenni danzanti («Als Neuling trat ich») chiaramente imparentati con l’evasivo sguardo debussiano proprio nella sua capacità di accarezzare la memoria del vissuto; il ricamo di arpeggi fugaci («etwas flüchtig» recita la didascalia sulle ultime battute di «Jedem Werke bin ich fürder tot») e di tratti rapidi e concisi che, al di là del presunto stridore dissonante, non riescono ormai più a celare il gesto ornamentale di un concetto dell’arte ancora determinata da una concezione esornativa.

    SCHOENBERG GIOVANE
    Il giovane Arnold Schoenberg

    Oggi «emancipazione della dissonanza» viene quindi a significare, al di là del riconoscimento di parità ormai superato dalla prassi, «emancipazione dalla dissonanza», cioè da quel principio unilaterale di marca evoluzionistica che ha finora attirato l’attenzione sugli elementi di forzatura del discorso impedendo di cogliere nel suo fondo un tessuto di relazioni e interdipendenze con la contemporaneità e con il passato rimasto intatto, dove l’interpretazione dell’esperienza d’avanguardia come semplice fuga in avanti non solo appare semplicistica ma giunge a misconoscere proprio quella realtà apparentemente contraddittoria che fa dell’evento artistico una rivelazione di ricchezza, di fascino, soprattutto di verità.