• Diario d'ascolto
  • 13 Febbraio 2015

    Čaikovskij, Sesta Sinfonia

    Qualcuno ha fatto osservare che le prime sinfonie di Čaikovskij, stilisticamente parlando, hanno visto la luce come «figlie di nessuno». Probabilmente il vero dramma del compositore russo sta appunto nel fatto di non essere egli riuscito ad ancorarsi a una tradizione storicamente determinata che la vaga aspirazione occidentaleggiante non gli permise di raggiungere, rendendolo nel contempo disadattato di fronte allo sviluppo della scuola nazionale rappresentata dal «Gruppo dei Cinque».

    Ma è, forse proprio nelle sinfonie che Čaikowski riuscì a superare le tentazioni della prospettiva di un fantastico dialogo chiuso intorno alla romanzesca vicenda vissuta con l’esaltata mecenate Nadiezda von Meck. Dopo l’equivoca posizione della Quarta sinfonia, ambiguamente e scopertamente autobiografica, proprio quando l’incupirsi della sua vena poetica sembrava condannarlo a un giro vizioso di tormentata autoconsolazione, il musicista seppe trovare la misura della propria identità che gli permise di individuare nella sinfonia il collegamento con la matrice storica che diede luogo a questa forma.

    Soprattutto con la Sesta sinfonia in si minore op. 74 il musicista perviene alla consapevolezza della vanità della giustificazione «letteraria» della propria musica, liberandola dalle remore di un «programma». La denominazione di Patetica è da intendersi infatti come derivazione dal significato dell’antico concetto greco di pathos più che allusione a uno stato d’animo. A dire il vero mai Čaikovskij riuscì a scrollarsi di dosso l’abitudine di organizzare il proprio giudizio per categorie analogiche e a concepire finalmente la musica in termini di assoluta autononia. Nella nota lettera al nipote Davidov, in cui comunica l’idea di una nuova sinfonia, la sesta appunto, il musicista parla ancora di «programma», ma questa volta e per la prima volta (forse l’unica) di «un programma che rimarrà un enigma per tutti», ciò che equivale effettivamente per noi a un «non programma». In realtà il compositore era consapevole di aver raggiunto in quest’opera una profondità che fino a quel momento non aveva mai toccato, e ciò spiega la convinta predilezione per il suo ultimo lavoro.

    Nella Sesta, è vero, ritroviamo il Čaikovskij dei luoghi comuni: il morbido sentimentalismo che impregna i momenti lirici, rispettivamente i frenetici slanci delle fasi drammatiche dei poemi sinfonici, la brillantezza sonora dei concerti e le movenze estetizzanti dei balletti. Tutti questi contrassegni stilistici sono però dispiegati in una struttura che non permette più divagazioni e annebbiamenti d’orizzonte. Una nuova forma di rigore, non già raggiunta per mezzo di recuperi accademici, bensí (e qui risiede il valore della sua esemplarità) ricavata da una disincantata lettura del diagramma della propria disperata personalità, gli ha reso possibile la conquista dell’omogeneità formale non rintracciabile in nessun’altra sua composizione. Ad esempio non vi è ravvisabile nessuna pretesa simbologica, ad eccezione delle battute finali di ogni movimento organizzate su scale discendenti nella rispettiva tonalità, le quali però, nella loro funzione di realizzazione in dettaglio della struttura complessiva della composizione (concepita come parabola discendente verso l’ineluttabile attrazione all’immobilità del tempo conclusivo, l’eccezionale adagio lamentoso), suonano a conferma di un ideale compositivo di più vasto significato. Così la citazione del tema del servizio funebre ortodosso, che si inserisce nello sviluppo del primo tempo non è già proclamazione esteriore e sovrabbondante del valore tragico dell’opera, ma (nella sua rara concisione e nell’integrazione stilistica al movimento) opera con la stessa identica intensità degli elementi originali.

    Lo stesso fatto è riscontrabile nell’ultimo tempo, quando una cupa e funebre fanfara si eleva dal suono «profetico» del gong. Se qui è possibile intendere l’eco di voci sotterranee di ascendenza operistica gluckiana e mozartiana, ciò è possibile solamente in sede di seconda e più critica lettura. Nella varietà degli elementi costitutivi tutto è invece organizzato in archi drammatici che, sorgendo dall’appassionata introspezione di morbide individualità melodiche, raggiungono freneticamente lo spasimo e in fase di ripiegamento sono spezzati da un’inattesa impennata, ultimo sussulto di una volontà soccombente. Nel primo tempo si ha appunto l’esempio più unico, magistrale e inimitabile, di choc sussultorio (prima battuta dell’allegro vivo che dà luogo allo sviluppo), momento esemplare nella sua complessità: dinamicamente situato prima della fine dell’arco drammatico, esso coincide con l’inizio di una nuova fase formale (lo sviluppo), sprigionando con ciò una doppia tensione. Ma pure all’estremità dell’arco drammatico, a stasi raggiunta, l’abbandono alla pace è fittizio e uno stato febbrile si ridesta. Le battute, che nella riesposizione del primo tempo precedono il secondo tema, vibrano sugli archi in una polifonia a nuclei dissociati in un ventaglio cromatico che si apre a strattoni fino a raggiungere uno di quei chiusi e tesi momenti ariosi in cui si scioglie il groviglio delle voci, dove il compositore ritrova la sostanza appassionata della propria personalità lirica. Al canto melodico non è però più concessa, come nel Čaikovskij più usuale, libertà di prevalere. Il suo gesto viene sistematicamente spezzato prima di poter descrivere i propri tratti, mentre i bruschi e frequenti cambiamenti di tempo ne stravolgono il disegno. Persino la parentesi estatica del secondo movimento ne risente. La battuta in 5/4 vela sì appena un movimento danzante, ma l’eleganza del valzer (3/4) che vi si può leggere in trasparenza si muove in permanente stato di squilibrio nella più complessa battuta dispari. La stessa abbondanza di appoggiature, più che attribuire all’accento la funzione graziosa che esso detiene nei movimenti di danza, scopre ambiguamente la sua capacità di caricarsi di senso contrario mimando i gesti rigidi di una marcia. Ormai ben conosciamo il valore del ritmo di marcia dopo Beethoven. Qui siamo sulla stessa linea e, senza pensare al terzo tempo che, anche se non esplicitamente, è una marcia da capo a fine, accenni al movimento marziale appaiono ovunque, soprattutto nel primo tempo.

    Questo aspetto ci introduce a considerazioni sul ritmo nel discorso sinfonico čaikovskiano, che però ci porterebbero assai lontano. Qui basta porre mente all’eccessiva enfasi che appesantisce la struttura ritmica dei poemi sinfonici del maestro russo, ricondotta infine nella Sesta a scansione tragica del movimento temporale in più equilibrato accordo con gli altri parametri del discorso. Il senso d’ineluttabilità del destino a cui tende organicamente la composizione risulta in tal modo liberato da velleità «rappresentative», e, evidenziandosi a partire dalla forma sinfonica assunta con rispetto delle linee direttrici del suo sviluppo, conferisce alla Sesta una precisa posizione chiave all’interno dell’evoluzione della principale forma musicale ottocentesca.