• OFFICINA LETTERARIA
  • 22 Settembre 2020 |

    Viaggio nel lógos del Mediterraneo: "Un film parlato" di De Oliveira

    Nell’opera saggistica Il Mediterraneo e la parola1, pubblicata in italiano nel 2009, il grande poeta marocchino Mohammed Bennis scrive: «La mia appartenenza al Mediterraneo è un’appartenenza al viaggio»2,

    ricordando le figure sospese tra la letteratura e l’esplorazione di Ulisse, del poeta Ibn Battūta, di Sindbad, appartenenti alle civiltà europea e araba. Il luogo dell’archetipo del viaggio è il Mediterraneo. L’attraversamento di questo mare popolato dalla memoria di civiltà millenarie è l’avventura raccontata in un film del 2003 del regista portoghese Manoel De Oliveira, Um filme falado (Un film parlato).

    Sinossi

    Um filme falado narra dunque la vicenda di un viaggio nel Mediterraneo e nel Mar Rosso fino alle soglie dell’Oceano Indiano, da Lisbona destinazione Bombay, meta che non verrà raggiunta, attraverso millenni di civiltà. Lo compiono la professoressa di storia portoghese Rosa Maria (Leonor Silveira) e sua figlia Maria Joana, che nella città indiana avrebbero dovuto ritrovare il marito e il padre3. A bordo della nave sulla quale si svolge la crociera si imbarcano anche, rispettivamente a Marsiglia, Napoli e Atene “tre donne celebri” - un’imprenditrice, una modella e una cantante -, interpretate da Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas (alla sua ultima apparizione cinematografica). Nelle diverse tappe del viaggio (dopo Lisbona, Ceuta, Marsiglia, Napoli e Pompei, Atene, Istanbul, Suez e le piramidi egiziane, Aden nello Yemen) l’insegnante illustra alla figlia la storia del Mediterraneo attraverso le vestigia e i monumenti delle civiltà che lo hanno popolato e gli incontri con la gente dei luoghi. Le tre donne invece partecipano a due convivi molto particolari alla tavola del capitano statunitense John (John Malkovich), parlando ciascuna la propria lingua - il francese, l’italiano e il greco - sotto l’abile regia del marinaio che le comprende tutte, esprimendosi però soprattutto in inglese. La loro conversazione babelica («armoniosa Torre di Babele», come dice il comandante) appare «naturale e in piena coincidenza». Nella seconda sera anche le due portoghesi si uniscono al gruppo, grazie all’insistenza galante del capitano. Questi regala alla piccola Maria Joana una bambola velata acquistata nel bazar di Aden, una delle ultime tappe del viaggio. L’annuncio di un ordigno esplosivo a bordo interrompe un canto tradizionale che Irene Papas stava dedicando, in greco, alla bellezza perduta. Tutti fuggono sulle scialuppe, ad eccezione di Maria Joana che ritorna indietro in cerca della bambola dimenticata in cabina seguita dalla madre. Esploderanno insieme alla nave di fronte allo sguardo sgomento del comandante che si apprestava a salvarle.

    L’identità dei personaggi attraverso la lingua

    Tra gli elementi più originali del film vi è dunque la definizione dell’identità dei personaggi attraverso la loro lingua madre, più rivelatrice dei dialoghi o delle azioni (fermo restando che le azioni che essi compiono sono quasi esclusivamente “dialogiche”, come vedremo). Questa caratteristica fa di loro dei personaggi “universali”, dei portatori di lógos, vale a dire del «linguaggio articolato degli umani», secondo l’espressione di Aristotele, che giudicava l’uomo un animale “politikós4, destinato cioè a ricercare la felicità collettivamente, attraverso la pólis, ossia una comunità in grado di autogovernarsi. E, come sottolinea Tullio De Mauro nel recente saggio In principio c’era la parola?5, proprio l’arte del dire, la retorica, è «politiké»6, fattore essenziale di partecipazione alla vita civile: padroneggiare e poter utilizzare la propria lingua è la garanzia primaria per una partecipazione autentica alla vita di una comunità. In altri termini, la libertà del linguaggio è la condizione fondamentale delle libertà di pensiero e di azione.

    Nel film di De Oliveira, il dispositivo narrativo è basato dunque sull’utilizzo, da parte dei diversi personaggi, della lingua madre (che è la lingua madre anche degli attori che li interpretano), con la quale essi possono esprimere compiutamente ed efficacemente il proprio pensiero, ed anche la propria vocazione artistica: è questa libertà che conferisce loro un’identità finzionale forte, una sorta di diritto di cittadinanza all’interno del film, che permette il loro pieno riconoscimento, in tutti i sensi, da parte degli spettatori. Si potrebbe quasi parlare di “autogestione della finzione” da parte degli attori del film, che, in virtù delle loro performance linguistiche, assumono il predominio sul meccanismo illusionistico dell’identificazione nei personaggi. Grazie a una messa in scena che valorizza ed enfatizza l’espressività “musicale” delle differenti lingue, è l’immaginario veicolato dalla sonorità dei singoli idiomi e dal loro incontro che assorbe lo spettatore nell’illusione diegetica, oltre che, naturalmente, il riconoscimento delle quattro star, che crea una sorta di atmosfera finzionale preventiva7.

    Il lógos universalizza dunque la finzione diegetica del film, legandola alle caratteristiche generali del linguaggio umano, tra le cui facoltà, ci ricorda ancora De Mauro, vi sono l’evocazione di memorie e, a partire da queste, la progettualità. Il linguaggio umano si proietta perciò al di là della reazione alla situazione immediata8. Per questo, la struttura drammaturgica dei dialoghi di Un film parlato, opera strutturata sul linguaggio, è una struttura pienamente “logica”, fondata sul lógos, e, per estensione, “politica” nel senso di “civile”, secondo la traduzione latina, utilizzata in particolare da Cicerone9.

    La “patria” linguistica

    I personaggi del film vivono dunque nella “patria” del loro linguaggio: è proprio tale identità-appartenenza stabile, non in discussione, che li rende disponibili al dialogo con i rappresentanti delle altre “patrie” linguistiche. Storicamente la lingua è stata sentita dai popoli come una patria ideale prefigurante la patria reale non ancora realizzata10 (ricordiamo che il linguaggio umano permette anche di parlare di ciò che non esiste e di ciò che è impossibile). È così accaduto che l’irreale, talvolta l’impossibile, si siano trasformati in realtà attraverso la mediazione del lógos e del suo elevato valore simbolico e civile. Lógos che resiste anche in seguito alla conquista del reale, come dimostra la persistenza delle lingue nazionali rispetto alla pretesa universalità dell’inglese.

     

    In questa ottica, il greco del personaggio di Irene Papas appare una lingua universale dal punto di vista del lógos, cioè una lingua autenticamente universale, per il suo valore di garante del principio stesso del linguaggio, al di là delle necessità politico-pragmatiche contingenti. In altri termini, il valore “politikós” del linguaggio passa, con apparente paradosso, attraverso la resistenza all’unificazione “politica”, centralistica, del linguaggio umano. Il caso dell’Unione Europea, con le sue decine di lingue ufficiali - citato anche nel film - conferma tale valore “essenziale”, quasi ontologico, della differenziazione linguistica garantita, nel caso degli idiomi neolatini, dall’origine comune, concettuale, della lingua greca, la cui cultura è alla base della civiltà occidentale. Lo stesso Manoel De Oliveira ha affermato che ognuna delle lingue parlate nel film «rappresenta un contributo all’evoluzione della civiltà occidentale»11.

    Il metalinguismo universale

    Citando il linguista e filosofo strutturalista danese Hjelmslev, De Mauro ci ricorda anche che la lingua può plasmare, integrandola a sé, qualsiasi altra materia, qualsiasi altra struttura semiotica, compresa se stessa. In tal modo, essa si rende funzionale alle esigenze complesse di ogni società umana, determinandone e, al tempo stesso, ratificandone l’evoluzione, il progresso scientifico, spirituale e civile12. In un accentuato metalinguismo, riferito alla funzione della lingua di «metalinguaggio di se stessa»13, nel film di De Oliveira si prefigura addirittura la possibilità di una comunicazione universale, vale a dire di una sorta di punto di arrivo della civiltà umana, giunta a comprendersi fin nelle sfumature delle singole lingue, in virtù dell’universalità del lógos. Le lingue, ogni lingua, il lógos dunque, possiedono infatti – non va dimenticato – la qualità della «traducibilità illimitata»14: nell’atto di comprendersi a vicenda e immediatamente, i personaggi del film realizzano ipso facto questa caratteristica essenziale del linguaggio. Se dunque la piccola comunità che costituisce il convivio alla tavola del comandante fosse metonimia dell’intera comunità umana, la civiltà umana si potrebbe dire compiuta.

    Grazie al racconto sempre attuale, in progress, del cinema, questo piano teorico si concretizza in pratica dialogica, in avvenimento presentificato davanti ai nostri occhi, dinanzi al nostro ascolto. Il lógos dei personaggi è tutt’uno con i dialoghi pronunciati sullo schermo e le loro azioni rappresentano l’avvenimento e l’avvento di un’umanità realizzata.

    Il valore metalinguistico della lingua rende inoltre possibile la conoscenza. La professoressa Rosa Maria accompagna la figlia attraverso millenni di civiltà, e questa civiltà da un lato si rende presente attraverso le testimonianze materiche esaltate dal valore riproduttivo dell’immagine filmica (secondo la definizione della modernità cinematografica di Giorgio De Vincenti) e identificate dal lógos sapiente dell’esperta di storia15, dall’altro si rende conoscibile in virtù degli scambi comunicativi che i due personaggi realizzano con altri personaggi che rappresentano, ciascuno, un serbatoio esperienziale specifico: dal pescatore marsigliese al prete ortodosso con il sapere estetico-dottrinale tipico della sua religione, dall’attore portoghese Luís Miguel Cintra che rievoca l’impresa egiziana di Napoleone attraverso le qualità enfatiche della sua parola alle guide turistiche, il cui discorso è puramente veicolare, linguaggio informativo che esclude sviluppi dialettici.

    Tale conoscenza rischia in certi momenti di apparire troppo didascalica, anche se, proprio all’inizio del film, nel porto di Lisbona, l’apparizione della nebbia sembra dissolvere la verità definitoria della parola della professoressa che illustra alla figlia il monumento alle scoperte portoghesi. Non a caso, questa nebbia è preludio al racconto di due leggende, quella del re Don Sebastião, “il Velato”, destinato a riapparire su un cavallo bianco per riaffermare l’utopia della cristianità universale, e quella delle sirene che accompagnavano i marinai. Il principio del lógos si contamina così con il mito e si scioglie nelle forme narrative della leggenda, che centra immediatamente il discorso del film sul piano della fabulazione.

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    Il film “metalinguaggio della lingua”

    A ben vedere, è dunque il film che compie una riflessione metalinguistica sulla lingua: nella sua scelta di lasciare in erranza sulla superficie dello schermo l’armoniosa babele linguistica – dunque il contrario della Babele biblica - che costituisce la struttura drammaturgica della finzione, esso riflette sulle potenzialità espressive delle diverse lingue e sull’orizzonte di una loro unità resa possibile dall’unità del principio della parola, del lógos. Cinema e linguistica si incontrano in un crogiolo espressivo fortemente caratterizzato sul piano dello stile: è questo forse il risultato teorico più significativo dell’opera di De Oliveira, la sua intermedialità costitutiva, legata alla tradizione moderna e lanciata verso il futuro sempre più presente della contaminazione dei linguaggi. Con un occhio rivolto alle fondamenta aristoteliche e alla lingua greca come “patria” storica e concettuale delle nostre conoscenze.

    Se Mohammed Bennis definisce la parola poetica «una trance che conduce la lingua dove non riusciamo più a distinguere la sua essenza dalla nostra»16, nel caso di De Oliveira uno stato di trance attraversa il film mentre mette in scena i personaggi identificati con le lingue nelle quali si esprimono17. In altri termini, è il film a essere poetico nella sua scelta poliglotta, in misura ancora maggiore rispetto all’articolazione semantica costituita dal dialogo polifonico tra i personaggi. Affabulazione poetica e principio drammaturgico originale che costruisce dei “personaggi-lingue”, caso assai raro nella spettacolarizzazione congenita al cinema di finzione (si può forse ricordare il caso ancora più estremo degli Straub, nei quali però la finzione prescinde da ogni forma di spettacolarizzazione).

    Il metalinguismo della lingua crea dunque i personaggi e la loro performance drammaturgica nel corso dei simposi sulla nave, personaggi che sono consapevoli del loro gioco, pienamente inseriti nel dispositivo metalinguistico. L’inizio dei loro convivi è messo in scena come un’entrée teatrale. E dietro i personaggi traspaiono immediatamente gli attori, come entità finzionali intermedie, identità costituita dalla pratica del lógos (in particolare il capitano John, marinaio giramondo, il primo che usa una lingua di mediazione, il francese, nel passaggio continuo tra le diverse lingue accentua la propria performance attoriale). Essi partecipano al gioco della loro rivelazione reciproca attraverso il gioco dell’unitaria babele linguistica; si rivelano cioè attraverso il linguaggio che li parla, in senso lacaniano. Inoltre, tale gioco linguistico e identitario è portato avanti dalla piccola “comunità” femminile, con un possibile riferimento al ruolo di guida alla scoperta del mondo esercitato dalla voce materna nei primi anni di vita del bambino. Le riflessioni sul linguaggio richiamano sempre il completamento delle discipline che si occupano della psiche umana…

    Un film+parlato

    Infine, il carattere metalinguistico del film si manifesta anche attraverso il confronto continuo tra i luoghi evocati o designati dalla parola e i luoghi filmati che “resistono” nella loro identità visivo-materica grazie all’immagine. “Un film parlato” designa dunque due proposizioni a priori indipendenti che si incontrano, in un corpo a corpo incessante, dando luogo, in definitiva, a un movimento combinatorio nel quale i personaggi e il loro lógos appaiono assorbiti nella profondità dell’immagine filmica, la quale, in alcune sequenze, “sopravvive” al passaggio della parola: la scena rimane allora deserta, priva di azione e di linguaggio.

    La violenza del simbolo…

    Il periodo del film – siamo nel 2003 - è quello dell’imperversare della guerra globale al terrorismo e dello slogan ambiguo dello “scontro di civiltà”, periodo di divisione forzata dell’umanità, di globalizzazione dell’odio (mi riferisco ovviamente alla guerra in Iraq e all’occupazione dell’Afghanistan). Così il viaggio della nave verso la terra d’Arabia segue una direzione “ostinata e contraria”, direbbe De André, rispetto al corso della Storia deciso dal potere politico internazionale. Se dunque questo percorso di “incontro di civiltà” è infranto materialmente da un ordigno terrorista, esso si trasforma però in sciagura di morte a causa di un elemento simbolico, la bambola araba velata dimenticata dalla piccola Maria Joana sulla nave. Come a dire: se l’atto criminale è qualcosa di controllabile e di disinnescabile, la violenza del simbolo è sempre stata causa di divisione e di morte globali nella storia dell’umanità, come dimostrano le vestigia dei precedenti “scontri di civiltà” nel bacino mediterraneo.

    … e la ricomposizione del lógos.

    A tal proposito, la condivisione della parola umana, al centro della sceneggiatura e dei dialoghi del film, rimanda alla condivisione del potenziale simbolico e immaginario di cui questa è artefice e veicolo. L’armoniosa babele realizzata nel convivio del capitano è il segno di una condivisione di intenti che l’umanità ha parzialmente raggiunto dopo aver conosciuto secoli di barbarie e di guerra. L’uomo si è incontrato nella parola e ha trovato un accordo. Le istituzioni politiche fondamentali della democrazia si chiamano, non a caso, “parlamenti”, luoghi dove “si parla”, si discute al fine di giungere a decisioni il più possibile condivise, e quello che si realizza a bordo della nave è una sorta di ideale “parlamento europeo” (con la supervisione USA del comandante John, of course!) che riflette il ruolo fondativo del lógos per una convivenza civile tra i popoli. Ruolo fondativo che è, al tempo stesso, orizzonte da conquistare. E la stessa Unione Europea dovrebbe ripartire dal tesoro linguistico che la costituisce per rafforzare il suo ruolo ancora effimero di comunità politica, sembra dichiarare il film.

    Al termine di tutte le esplosioni e di tutte le guerre al terrorismo, di «tutti i nomi della violenza»18, l’uomo ritornerà insomma a comunicare, ritrovando in sé il principio innato del lógos. E con la condivisione della parola saranno le stesse visioni del mondo a incontrarsi. L’umano ritornerà a se stesso, e in questo ritorno si intensificherà, e nascerà così una civiltà autenticamente “globale”. Lógos come origine e destinazione ultima dunque, cioè come una sorta di “padre” da ritrovare e da ricercare: il percorso delle due portoghesi è destinato proprio all’incontro verso un padre con il quale proseguire il viaggio.

    La parola perduta della globalizzazione e il recupero della parola creativa e civilizzante (la lingua greca).

    Ma il periodo del film è anche quello in cui si verifica ciò che Bennis definisce «la realtà della perdita della parola nella vita umana»19, a causa di una globalizzazione percepita come la responsabile di uno spostamento violento dell’asse dei valori della parola stessa, «dalla durata al facile consumo, dalla trance alla spettacolarità, dal dialogo all’afasia; per cui la parola è rimpiazzata dalla non-parola»20. Il nostro tempo, sostiene Bennis, «obbliga la parola personale, creativa e civilizzante, a sottomettersi»21.

    Così, il dialogo polifonico e poliglotta di Um filme falado, costruito su quanto la parola ha di non usabile, di non finalizzato ad altro dalla comunicazione umana, appare la manifestazione dell’esigenza di un recupero del valore innato della parola, «lingua dell’umano in noi e tra noi»22, presenza condivisa, compresenza, condivisione dell’Io con il Tu («Io sono una voce polifonica»23, dice Bennis). Parola riflessiva rispetto alla propria natura umana e, al tempo stesso, parola di ascolto, parola condivisa. Parola “da porgere” attraverso l’eleganza del discorso, del gesto dell’offrire e del ricevere la parola. Parola contrapposta al mutismo collettivo di un mondo contemporaneo che Bennis definisce “sordomuto”, «da Occidente a Oriente, dal Nord al Sud»24, e reciprocamente.

    Per questo De Oliveira filma le due conversazioni alla tavola del comandante in lunghe sequenze che costituiscono la struttura portante del film: per una forma di resistenza all’afasia – e alle stesse regole della fiction - che si esprime nell’esaltazione della durata della parola, «che è enunciazione dell’umano nella lingua (la mia e la vostra) e nella civiltà (la mia e la vostra)»25, come scrive Bennis.

    Questa forma di resistenza che si concretizza nell’utilizzo sottolineato di una lingua “classica”, di civilizzazione, alla quale lo spettatore non è abituato, quasi una lingua simbolica, dall’elevato valore riflessivo, il greco, “patrimonio culturale” dell’umanità, emblema di una comunicazione che persiste e resiste al di là della sua diffusione storico-geografica, in virtù della sua identità di matrice morfologica e concettuale di numerose lingue occidentali. Lingua “estranea” che «preserva l’estraneità»26, l’estraneità di tante lingue, e dunque la sopravvivenza della parola. Lingua greca che, in tale identità di matrice, è tutt’uno con la civiltà classica ed ellenistica che essa ha tramandato e che ora riposa nel nostro patrimonio valoriale e spirituale. Lingua che, in altri termini, è garanzia del mantenimento di un’origine umana comune. Pur essendolo mediante il suo dissolvimento nella pluralità delle lingue. Principio linguistico fuori dal mercato, fuori dalla politica, in qualche modo fuori dalla Storia, che però ha contribuito a orientare in maniera decisiva.

    Un ragionamento simile – quello relativo al principio linguistico che rischia di scomparire dalla Storia - è sviluppato quasi in contemporanea con il film, nel 2004, da Guido Ceronetti nelle riflessioni introduttive alla sua traduzione della raccolta delle poesie del grande poeta greco Constantinos Kavafis Un’ombra fuggitiva di piacere. Ceronetti ingloba anche la lingua italiana tra le lingue “di tramonto” a fondamento della comunicazione umana e afferma nella sua prosa sempre ispirata e profetica: “Entrambe, greco e italiano, siamo lingue di tramonto del Tramontante (l’Occidente), lingue in perdita d’anima, che tra un po’ cesseranno di essere comprese, salvo per luoghi comuni. Entrate nel baraccone magico finché siete in tempo o non ci saranno, per voi, che dei gesti, dei gesti di muti o di balbettanti”27.

    Se la civiltà greca, come quella latina, si sviluppò nel cuore del Mediterraneo, «spazio infinito», ancora oggi «idea aperta, dimora poetica”, questo retaggio culturale pare dunque dissolversi “in una realtà globalizzata che dimentica, allo stesso tempo, le lingue e la poesia»28, come scrive Bennis. Realtà globalizzata simboleggiata e veicolata dalla mediazione linguistica dell’inglese – che sostituisce nel film la babele alla vigilia dell’esplosione -, metafora di assorbimento linguistico e di una diversa forma di universalismo opposta al modello poliglotta, autenticamente “multiculturale”.

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    Il canto che dissolve il lógos nella bellezza

    Alla base della comunicazione poliglotta del film vi è «la voce che attraversa le parole»29, la phoné che rimanda all’origine unitaria del linguaggio, del suono e del senso.

    La phoné è parte integrante del linguaggio ed è anche, secondo Aristotele, «segno del doloroso e del piacevole»30. E l’accentuazione espressiva della phoné è il canto, il “mélos” che, in un certo senso, dissolve l’astrazione del lógos nell’epifania di una parola poetica, che ricompone miticamente la parola e la cosa.

    Il canto di Irene Papas anticipa l’inabissamento della nave all’ingresso del mar Arabico, territorio di separazione31, soglia varcata dalla civiltà cristiano-occidentale a quella arabo-islamica. Quel canto antico e melodioso contrassegna poeticamente la frattura del lógos in realtà politiche e teologiche che si dichiarano guerra, l’orizzonte ancora utopico della piena comunicazione umana. In effetti, l’ultimo suono del film non sarà più la pluralità dei linguaggi umani, dispersi nell’attentato come gli uomini del mito della Genesi,bensì il rumore senza tempo delle onde accompagnato da un verso del canto greco: la frattura del lógos esorta l’uomo alla ricerca della bellezza. E tuttavia l’orizzonte del lógos sopravvive agli incidenti della Storia, dato che le tre donne che lo impersonificano riescono a salvarsi.

    L’erranza nel canto

    Il canto di Irene Papas è anche intensificazione stilistica del tema del viaggio, secondo il tópos dell’“erranza nel canto”. Il canto come «storia aperta che, dallo scritto, porta la mia mano là dove la fine è l’infinito […] Là ascolti il soffio, l’ignoto, l’infinito – emersi dal nulla – ripetersi in eterno nella voce della poesia»32, nella prosa musicale di Bennis. Canto e viaggio come storia aperta, rivelazione dell’ignoto e dell’infinito. Il viaggio del film, non a caso, si conclude su se stesso, nel movimento dell’erranza, sulle note del canto greco: ma in fondo, grazie al suo carattere infinito, inesauribile,il canto porta avanti il viaggio che, nella finzione, viene interrotto dalla violenza degli uomini33.

    Dialogare significa «scegliere la libertà, la bellezza e l’ambiguità»34. Libertà di un viaggio senza destinazioni ulteriori al di fuori della conoscenza, bellezza e ambiguità di lingue che attraversano il film come in una trance poetica. Questi elementi fanno di Um filme falado un’opera pienamente inserita nella storia contemporanea e dotata, al tempo stesso, dell’universalità atemporale del canto poetico.

    Questo testo è stato pubblicato in Gabriele Anaclerio, Il corpo e il frammento, Bulzoni, Roma 2012,pp. 59-69.

     
    Bibliografia

    1Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la parola. Viaggio, poesia, ospitalità, Donzelli, Roma 2009. La pubblicazione comprende sei saggi di Bennis scritti tra il 1999 e il 2006 e una piccola ma significativa antologia della sua poesia.

    2Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la poetica del viaggio, in ivi, p. 27.

    3È da sottolineare come l’uomo sia un pilota d’aerei, un “personaggio errante” e, in un certo senso, “mitico”, dato che nel corso del viaggio sarà soltanto evocato.

    4 Cfr. Aristotele, Politica, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1986, vol. IX.

    5 Tullio De Mauro, In principio c’era la parola?, Il Mulino, Bologna 2009.

    6 Ivi, p. 13.

    7 Inoltre, il personaggio di Irene Papas è una cantante-attrice, la Delphine di Catherine Deneuve rimanda alla Delphine de Les Demoiselles de Rochefort e Francesca è il nome di due personaggi televisivi interpretati da Stefania Sandrelli negli anni ’90 (in Colpo di coda, 1993 e Caro maestro 2, 1997).

    8 Cfr. Tullio De Mauro, In principio c’era la parola?, cit., p. 12.

    9 De Mauro ricorda che i latini e, in particolare Cicerone (De inventione), utilizzavano il termine “civilis” pertradurre l’aristotelico “politikós” (ivi, p. 13).

    10 Cfr. ivi, p. 21.

    11 Manoel De Oliveira, Nota del regista, in Un film parlato.DVD “Cinema Internazionale”.

    12 Cfr. Tullio De Mauro, In principio c’era la parola?, cit.,pp. 36-41.

    13 Ivi, p. 56.

    14 Ivi, p. 54.

    15 Leonor Silveira ha parlato di «discours blanc» («discorso bianco») per definire la propria recitazione, veicolo trasparente dell’opinione del regista sulla civiltà e sulla storia (in Olivier Jojard, Manoel domine tous les sens, “Cahiers du cinéma”, n. 583, ottobre 2003, p. 28).

    16 Mohammed Bennis, Destino della poesia, destino della parola, in Il Mediterraneo e la parola…, cit., 57.

    17 Hélène Frappat parla di «individus bien plus parlés que parlants» («individui molto più parlati che parlanti»), in Détour, «Cahiers du Cinéma », n. 583, cit., p. 28.

    18 Mohammed Bennis, Destino della poesia, destino della parola, in Il Mediterraneo e la parola…, cit., p. 55.

    19 Ivi, p. 50.

    20 Ivi, pp. 51-52.

    21 Ivi, p. 53.

    22 Ivi, p. 46.

    23 Mohammed Bennis, Tra due paure, in Il Mediterraneo e la parola…, cit., p. 8.

    24 Mohammed Bennis, Destino della poesia, destino della parola, in ivi, p. 53.

    25 Ivi, p. 54.

    26 Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la poetica del viaggio, in ivi, p. 30.

    27 Guido Ceronetti, Limiti, in Constantinos Kavafis, Un’ombra fuggitiva di piacere (a cura di Guido Ceronetti), Adelphi, Milano 2009.

    28 Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la poetica del viaggio, in ivi, p. 29.

    29 Mohammed Bennis, Destino della poesia, destino della parola, in ivi, p. 45.

    30 Aristotele, Politica, citato in Tullio De Mauro, In principio c’era la parola?, cit., p. 11.

    31 È da sottolineare come le sequenze del film siano intervallate dalle inquadrature di uno scafo senza orizzonte, dell’estensione marina che sembra tenere in balia la nave, dei saluti di separazione che scandiscono la progressione del viaggio: tutti segni di un destino privo di approdo.

    32 Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la poetica del viaggio, in Il Mediterraneo e la parola…, cit., p. 29.

    33 Sottolineiamo anche, nel canto di Irene Papas, la convergenza “stilistica”tra il canto e il vento che porta via i fiori, la bellezza.

    34 Mohammed Bennis, Destino della poesia, destino della parola, in Il Mediterraneo e la parola…, cit., p. 58.