• OFFICINA LETTERARIA
  • 6 Novembre 2017

    Il diamante bianco - Note su Natura e Immagine nel cinema di Werner Herzog

    Nel cinema di Werner Herzog la Natura presenta una dimensione nel contempo mitica e materica, prodotto di racconti tradizionali e polo dialettico che impregna di sé i movimenti della cinepresa e gli snodi narrativi delle vicende, ispirazione ancestrale ed elemento centrale di assoluta libertà di improvvisazione sui luoghi reali di viaggi utopistici.

    Da questo punto di vista, la presenza filmica della Natura non si differenzia nel passaggio tra opere di finzione e documentari: da entrambe le tipologie preleveremo alcuni esempi significativi.

    La Natura è inseparabile dall’immagine filmica herzoghiana, e dal rapporto di quest’ultima con la visione spettatoriale, costantemente sfidata nella sua sospensione dell’incredulità, nella sua stessa capacità di dar forma al visibile, da un’immagine che denuncia metalinguisticamente la propria irrealtà. Fitzcarraldo (1981) appare, a tal proposito, emblematico.

    In questo film il paesaggio sembra corrispondere al racconto mitico degli Indios del paese “lasciato incompiuto dagli dei”. Per questo è un paesaggio sospeso tra reale e immaginario che richiede l’apporto di uno sguardo per raggiungere una formalizzazione. E lo sguardo della cinepresa realizza una formalizzazione di tipo estetico. Così l’avventura di Fitzcarraldo-Kinski, la smisurata utopia di costruire un teatro dell’Opera nel cuore dell’Amazzonia, si identifica con l’avventura del cinema di Herzog trasportato nella foresta con immani difficoltà e uno spirito conquistador esclusivamente ispirato dalla ricerca della bellezza, o dell’inutile. La logica geografica guida lo sviluppo della sceneggiatura, oltre a influenzare tutte le decisioni inerenti le riprese (in relazione ai tipi di paesaggio, alle condizioni atmosferiche, ai diversi livelli dei fiumi, alle abitudini degli Indios). Così il set quasi si identifica con l’ambientazione del film, nel senso che la spedizione di Fitzcarraldo è mostrata nei suoi aspetti materiali relativi alla ricerca del territorio corrispondente al progetto del protagonista (fino al cuore peruviano dell’Amazzonia), alla conquista e alla normalizzazione della montagna per permettere l’ascesa del battello (cfr. il lavoro degli indios - ingaggiati come comparse e operai - mostrato documentaristicamente, l’avanzata della nave filmata negli impacci del terreno e del livello delle acque), fino allo scivolamento impetuoso della nave nelle rapide del Pongo das Mortes, dove Herzog, Kinski e una parte della troupe rischiarono seriamente la vita. La pre-produzione durò tre anni e mezzo, furono costruiti un enorme accampamento nella foresta e due enormi navi a vapore: quella mostrata nel film nelle navigazioni sul fiume, e un’altra speculare, destinata a veicolare i travelling corrispondenti. I due movimenti si intersecano con un rapporto quasi fisico, che mima l’avventura filmica parallela alla diegesi: in particolare, i travelling “fuori bordo” creano un’atmosfera avvolgente e minacciante che asseconda la favolosa discesa agli inferi nella foresta della fantasticheria del protagonista.

    Le note del canto di Caruso che si librano nel paesaggio sospeso - nel duplice senso, ossimorico, della suspense narrativa e della sospensione della narrazione – dei territori degli indiani del Perù “Jivaros” si amalgamano con la visione estatica che accompagna il film, visione costruita intorno a lentissime panoramiche o travelling che fanno balenare l’irrealtà dei luoghi rappresentati e della stessa spedizione (l’immensa barca Molly Aida inghiottita nel paesaggio dell’inquadratura herzoghiana, sempre mirabilmente formalizzata nei suoi contrasti interni, in modo tale che il movimento associato alla macchina da presa, come i frequenti “camera-nave”, è intensificato dai conflitti di direzione interni al piano, a creare un’immagine potentemente ambigua e sensualmente illeggibile). La stessa motivazione narrativa risulta così assorbita nel dispositivo estetico-estatico, che fa sì che l’azione non sia mai dissociata dalla contemplazione, che la natura non sia un materiale grezzo da piegare attraverso una qualche civilizzazione, bensì una zona d’ombra destinata ad accogliere una bellezza indifferente alla Storia. Il canto di Caruso, la mole del battello sono una penetrazione in una natura che non attendeva altro per raggiungere una sua pienezza, proprio quella creazione lasciata in sospeso dagli dei. Non a caso, gli indios accettano di essere adiuvanti della spedizione, mettendo alla prova il “dio bianco” Fitzcarraldo nell’impossibile ascesa della montagna amazzonica con il battello e nell’ancor più fatale superamento delle rapide Pongo das Mortes. È qui che la relazione dialettica arte/natura si risolve in un’impresa sovrumana, che sarebbe metafisica se non fosse estetica. In definitiva, la “conquista dell’inutile” (titolo dei diari di Herzog scritti durante la tormentata lavorazione del film) si identifica con la realizzazione dell’immagine audiovisiva (quasi nel senso ejzenstejniano, dato che, come testimonia lo stesso regista, fu l’immagine potente del magnetofono nella foresta ad aver ispirato l’intera operazione del film) che vede composte al suo interno l’armonia delle arie di Caruso e la selvaggia e inaccessibile bellezza dell’Amazzonia.

    In Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972) è il fiume il grande oggetto di una raffinata ricerca visuale. Il movimento dell’Urubamba, attraversato dalla spedizione verso l’Eldorado, il suo umore e la sua febbre, è tutt’uno con i movimenti di macchina e con l’organizzazione dell’inquadratura, cosicché è impossibile considerare quell’elemento naturale come un semplice esistente narrativo. O, più precisamente, la narrazione è inseparabile dal dispositivo formale costruito intorno al fiume, fin dall’utilizzo di “camera-zattere” chiamate ad assecondare i movimenti delle zattere diegetiche, in una relazione che si dà come materica in virtù della presenza pienamente percepibile della macchina da presa, con i suoi movimenti ipnotici che schiudono lo sguardo dello spettatore su un territorio di frontiera corrispondente alla fantasticheria.

    In una variante stilistica, la foresta amazzonica - l’ambiente mortalmente onirico che accompagna la folle spedizione verso l’(inesistente) Eldorado - è l’oggetto di diversi inserti in cui la narrazione è letteralmente sospesa, e sospeso è quell’ambiente naturale che nulla dice, ma allude con profondo enigma all’annientamento della ragione umana all’interno di quel paesaggio. Le figure del ritorno su se stesso (cfr. le intense panoramiche sulla zattera ricoperta di scimmie al termine della spedizione-allucinazione di Aguirre) e del silenzio (spesso significato dagli accordi melodici dei Popol Vuh) sono gli stilemi di tale enigma: la natura emerge per absurdum dalla rappresentazione del limite estremo della follia conquistatrice dell’uomo.

    In White Diamond (Il diamante bianco), documentario del 2004, l’immagine naturale raggiunge la sua purezza, una tonalità diafana riflessa attraverso il prisma del “diamante bianco”, il piccolo dirigibile che attraversa la foresta pluviale della Guyana, il sogno di volare sopra i luoghi di un’altra leggenda indigena, “le cascate dietro le quali vive il paese dei rondoni”. Il riferimento ancestrale non ha nulla di una ricognizione sui luoghi del mito (che non farebbe altro che dissolverlo per sempre), ma solo un’analogia di ispirazione: il volo come topos di conoscenza. Per Herzog, il volo associato alla possibilità di filmare cose mai viste. La foresta pluviale è di nuovo un ambiente estetico nel quale si situa la temeraria impresa di Graham Dorrington di inventare una nuova macchina volante, un dirigibile ultraleggero: come se le visioni di Aguirre o di Fitzcarraldo si fossero realizzate in un’utopia che riguarda la stessa presenza della macchina da presa (e del regista che accetta il folle volo): non più la nave sull’albero immaginata in una rêverie, bensì la stessa cinepresa che vola su una foresta, la natura selvaggia come territorio da esplorare come la frontiere della visione. Ecco, il cinema di Herzog estetizza una natura rispettata nei suoi connotati fenomenici come un’immensa visione della macchina riproduttiva del cinema. E laddove la macchinalità sembra più estrema emerge un linguaggio sconosciuto che “parla” gli uomini che sfuggono alle regole naturali (?) del vivere civile.

    In «Roma Tre News», XIII, n. 3, 2011, pp. 41-43