• OFFICINA LETTERARIA
  • 13 Febbraio 2015

    Il colore dei suoni: Debussy e le arti figurative

      Alberto Panza

    In una lettera indirizzata a Edgard Varèse nel 1911, Debussy scriveva; “J’aime presque autant les images que la musique” e in un articolo apparso sulla Revue Blanche (1901), lo stesso compositore aveva attribuito al suo alter ego Monsieur Croche - lo pseudonimo con cui firmava le sue recensioni - questa particolare visione della musica:

    Il parlait d’une partition d’orchestre comme d’un tableau, sans presque jamais employer de mot techniques, mais de mots inhabituhels1. Nei suoi scritti, nella sua corrispondenza e perfino nelle sue partiture, possiamo trovare innumerevoli esempi di questa predisposizione. Ci limiteremo a tre esempi, tratti da ognuno di questi ambiti. Nelle note di accompagnamento alla prima esecuzione di Nuages, tenutasi ai concerti Lamoureux il 9 dicembre 1900, Debussy scriveva. “C'est l'aspect immuable du ciel, avec la marche lente et mélancolique des nuages, finissant dans une agonie grise, doucement teintée de blanc"2. In una lettera al suo editore Jacques Durand dl 14 luglio 1915, a proposito della Ballade de Villon, dichiarava: “J'ai un peu changé la couleur du n.2 des Caprices. C'était trop poussé au noir, et presque aussi tragique qu'un Caprice de Goya"3. E infine, nel sesto brano del primo libro dei Préludes, cui diede il titolo De pas sur la neige, al di sotto della prima misura in cui inizia in pp l’ostinata ripetizione di un intervallo di seconda ascendente- Debussy ha scritto in partitura: ““Ce rythme doit avoir la valeur sonore d’un fond de paysage triste et glacé”.

    Il rapporto tra suggestioni visive e ideazione musicale è una delle chiavi interpretative fondamentali dell’opera del compositore ed è stato riproposto nella mostra Debussy, la musique et les arts, tenutasi nel 2012 al Musée de l’Orangerie, sulla cui locandina è riprodotto il quadro di Henri-Edmond Cross, dal titolo ‘debussiano’ L’air du soir (1893, Musée d’Orsay).

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    Fig. 1. Locandina della mostra "
    Debussy: La musique et les arts". (2012).

    Uno dei fenomeni più rilevanti nel passaggio tra Ottocento e primo Novecento è un rinnovamento in tutti i campi della espressione artistica: figurativo, poetico e musicale. Ne fa cenno lo stesso Debussy, nella prosecuzione dialogo immaginario con Monsieur Croche, sopracitato: “J’osais lui dire que des hommes avaient cherché, les uns dans la poésie, les autres dans la peinture (à grand-peine j’y ajoutais quelques musiciens) à secouer la vieille poussière des traditions, et que cela n’avait eu d’autre résultat que de les faire traiter de symbolystes ou d’impressionnistes, termes commodes pour mépriser son semblable”. Debussy, al contrario di quanto spesso si è ripetuto, rifiuta l’etichetta di impressionista –come in genere qualsiasi etichetta- non il termine in sé, che dichiara, nello stesso brano, di apprezzare molto perché gli dà la possibilità di salvaguardare le sue emozioni contro ogni tipo di “estetica parassitaria”.

    Una delle principali innovazioni introdotte dall’impressionismo riguardava il ruolo privilegiato attribuito al colore come principale elemento espressivo nei confronti della linea di contorno e l’uso di tonalità pure al posto delle tonalità intermedie, ottenute mescolando i colori con il nero, il che dava ai quadri impressionisti una luminosità sfolgorante. Debussy faceva qualcosa di analogo valorizzando la dimensione timbrica del suono: in questo senso un importante antecedente alle rispettive ricerche va individuato nel lavoro di due importanti precursori: Delacroix e Chopin e nelle discussioni serali che i due intrattenevano nell’atelier del pittore, in Place Fürstenberg, sui colori dei suoni e le sonorità dei colori. Un’ulteriore innovazione, la più gravida di conseguenze per il futuro della pittura, riguarda la progressiva emancipazione dalla intelaiatura prospettica, considerata, dai tempi di Leon Battista Alberti, il prototipo stesso del modo di dipingere al naturale. Ma anche in musica esisteva un’armatura strutturale che organizzava la composizione, basata sul predominio delle scale maggiori e minori, introdotto dal temperamento equabile, e su un ordine gerarchico di importanza tra i vari gradi della scala (tonica, dominante e sottodominante). Il tutto faceva perno sulla tonica, centro assoluto -corrispondente al ‘punto di fuga’ della prospettiva razionale- da cui le linee melodiche potevano modulare toccando le tonalità più distanti, salvo poi alla fine tornare a casa, cioè alla tonalità principale, il che dava alle infinite variazioni possibili un effetto di omogeneità e regolarità e soprattutto un irresistibile effetto di ‘conclusione logica’ alla composizione. Debussy, in modo analogo agli impressionisti, non ne voleva sapere di questa autostrada; è noto l’aneddoto relativo alla sua frequentazione alla classe di libera interpretazione tenuta da César Franck, non certo il più ottuso tra gli accademici. Di fronte ai pressanti inviti del maestro (Modulez, modulez donc!) finì per soprannominare sarcasticamente Franck la machine à moduler.

    Certamente sarebbe limitativo condurre il confronto tra Debussy e l’impressionismo soltanto sulla base della somiglianza esteriore dei titoli utilizzati dal compositore (Reflets dans l’eau, Brouillards, En bateau) con alcuni motivi tipici della imagerie impressionista, tanto più che si alternano ad altri (Cloches à travers les feuilles, Et la lune descende sur le temple qui fȗt, La cathédrale engloutie) che sembrano riferirsi più propriamente al clima simbolista. Quando Debussy torna a Parigi dopo il suo soggiorno di studi a Villa Medici, nel 1887, la prima fase della avventura impressionista si era conclusa; l’ultima mostra del gruppo risale infatti all’anno precedente, ma ormai si era messo in movimento qualcosa di inarrestabile: i grandi viaggi, come quelli di Ulisse o di Colombo, spesso si fanno sbagliando strada, trovando terre diverse da quelle che si cercavano o si credeva di cercare. Così gli impressionisti erano partiti cercando un modo più giusto e naturale di vedere e di dipingere e finiscono per mettere in crisi l’idea che una tale modalità normativa possa esistere. Le loro opere introducono l’idea che la visione è un fenomeno dinamico e mutevole, in cui agiscono una quantità di variabili non codificabili, tra cui entra anche la disposizione emotiva dell’osservatore, ma soprattutto l’idea che la pittura non consiste in una riproduzione oggettiva ma in una reinvenzione o reinterpretazione di ciò che viene rappresentato. In questo senso, malgrado la diversità di temi e soggetti rappresentati, si può pensare ad una linea di continuità tra l’impressionismo e i movimenti successivi. Lo aveva bene intuito Edvard Munch, che negli anni ottanta soggiornava a Parigi e frequentava i mardis letterari di Mallarmé, ove ebbe anche occasione di incontrare Debussy. Ricorda Munch nei suoi diari: “L’impressionismo non è una stazione centrale, né una destinazione finale – è un treno che continua a camminare”4.

    Privilegiare gli aspetti percettivi ed emotivi sulle nozioni e le regole, implicava ammettere la verità delle apparenze, aprire la strada a una nuova visione che comprende non solo l’effimero, il fugace, il contingente, ma anche un sottofondo di indicibilità, come elemento costitutivo del nostro rapporto con il mondo e con la vita. Non è un caso che all’ultima mostra impressionista partecipino anche personaggi come Gauguin e Redon, i primi a proposito dei quali venne adottato, in Francia, il termine di simbolismo pittorico. La principale linea di continuità consiste nel fatto che l’evocazione o l’allusione prendono il posto della descrizione referenziale, presunta oggettiva. Nello stesso senso M. Croche scriveva: “Il n’y a plus imitation directe, mais tranposition sentimentale de ce qui est ‘invisible’ dans la nature5: i tableaux sonores di Debussy si differenziano dunque dalla cosiddetta musica a programma, sul genere delle composizioni di Chabrier o D’Indy, particolarmente in voga nella Francia dell’epoca.

    Whistler fu uno dei primi a esplicitare teoricamente l’analogia sempre più stretta tra il nuovo modo di dipingere, evocativo e non descrittivo, e la scrittura musicale. In una delle Ten o’clock lectures, conferenze pubbliche tenute a Londra nel 1885 e tradotte in francese da Mallarmé6, aveva infatti dichiarato: “La natura contiene gli elementi, forme e colori di ogni pittura, come la tastiera contiene le note di ogni musica. Il pittore è come il musicista che si siede al piano. Sceglie le sue note, forma i suoi accordi, traendo una armonia dal caos”. Mentre Debussy intitolava le sue opere come se fossero quadri, Whistler faceva esattamente l’inverso speculare, adottando termini musicali accompagnati dalla indicazione dei colori principali: Symphony in White, Arrangement in Grey and Black, Harmony in Grey and Green.

    Durante i suoi soggiorni londinesi, Whistler alloggiava in uno studio a Chelsea, sulla riva del Tamigi prospiciente il quartiere industriale di Battersea, una delle zone industriali della città, piena di fabbriche, cumuli di scorie e smog, che viene trasfigurata magicamente in una serie di trentadue dipinti cui diede il titolo di Nocturnes (Fig.2).

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    Fig.2. James Whistler,
    Nocturne Blue and Silver – Chelsea (1871). Londra, Tate Gallery

    Queste immagini, che costituiscono uno dei contributi più originali alla pittura tardo-ottocentesca, vennero così descritte nelle Ten O’Clock Lectures: “Quando la bruma della sera riveste di poesia la riva di un fiume, come di un velo, e le povere costruzioni si perdono nel firmamento e le ciminiere diventano campanili, e i magazzini nella sera diventano palazzi e la città intera è come sospesa al cielo, e una contrada fatata giace davanti a noi (…) i toni e le delicate sfumature offrono suggestioni per armonie future”. Al suo mecenate Frederick Leyland, Whistler scrisse di avere adottato il titolo alla maniera di Chopin, non tanto in relazione all’ora, quanto all’atmosfera emotiva, e aggiungeva: “Non ha idea di quanto questi titoli possano creare irritazione nei critici e piacere in me. Per me è un titolo affascinante: dice poeticamente tutto quello che voglio e non più di quanto vorrei (say all I want to say and no more than I wish)”7, evocazione, appunto, e non descrizione. Questo genere di opere, così diverse dalla tradizione del vedutismo, non vennero particolarmente apprezzate né dalla critica né dal pubblico londinese, che sosteneva non ci fosse nulla da vedere, mentre ottennero un buon successo a Parigi, allorché vennero esposte nella Galleria Durand-Ruel nel 1897 (Fig.3), ove lo stesso Debussy ebbe occasione di apprezzarle.

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    Fig.3, James Whistler,
    Nocturne: Blue and Gold, Old Battersea Bridge, (1872-77). Londra, Tate Gallery.

    Non è certo casuale se, in occasione della prima esecuzione dei Trois nocturnes per orchestra, il giornale “Le Figaro” definiva, nella recensione del concerto, Nuages, Fêtes, Syrènes come: “tableaux qui évoquent des souvenirs des étranges, délicats et vibrants Nocturnes de Whistler, d’une poésie profondément troublante”. Del resto, nel programma redatto per l’occasione, il compositore proseguiva questo gioco di riferimenti incrociati, riproponendo il termine “notturno” non in senso musicale ma pittorico: “ Le titre Nocturnes veut prendre ici un sens plus générale et sourtout plus decoratif. Il ne s’agit pas donc de la forme habituelle de Nocturne, mais de tout ce que ce mot contient d’impressions et de lumiere speciales”8.

    Potremmo concludere questo breve excursus sul tema delle suggestioni visive nella musica di Debussy, ricordando come la rete di affinità elettive abbia prefigurato, nella Parigi dell’epoca, una sorta di Gesamtkunstwerk più sottile e meno magniloquente di quella wagneriana, una sinergia tra pittura, poesia e musica, in cui quest’ultima svolge il ruolo di spirito-guida. All’alba del nuovo secolo, commentando la sua scelta di mettere in musica il Pélleas et Mélisande di Maeterlinck (1902), definisce così il suo orientamento: “Je voulai donner à la musique une liberté qu’elle contient peut-être plus que n’importe quel art, n’étant pas borné à une reproduction plus ou moins exacte de la nature, mais aux correspondences mystérieuses entre la Nature et l’Imagination”9. In questo brano Debussy utilizza il termine correspondences, tratto da un altro geniale precursore, Charles Baudelaire. Se la realtà è al suo fondo inafferrabile, il linguaggio dell’arte dovrà rifiutare la referenzialità descrittiva, la definizione e la spiegazione, mantenendo il carattere insaturo dell’allusione e della metafora, in cui corrispondenze e sinestesie generano accostamenti imprevisti, propri del carattere eternamente aurorale della creazione artistica. Questa convergenza di intenti è espressa anche da Stéphane Mallarmé, altra grande fonte di ispirazione di Debussy, il quale scriveva: “Je fais de la musique, et appelle ainsi non celle qu’on peut tirer du rapprochement euphonique des mots, cette premère condition va de soi; mais l’audelà magiquement produit par certaines dispositions de la parole, où celle-ci ne reste qu’à l’état de communication matérielle avec le lecteur, comme les touches du piano”10. Era stato lo stesso Mallarmé, all’indomani della prima esecuzione del Prélude à l’après-midi d’un phaune (1894) a dichiarare che la parafrasi musicale di Debussy era andata realmente più lontano, nella nostalgia e nella luce, con finezza, con inquietudine, con ricchezza, rispetto al suo stesso testo poetico.


     Voci bibliografiche

    1 C. Debussy, Monsieur Croche et autres écrits, Paris, Gallimard, 1987, p.49.

    2 A. Malvano, L’ascolto di Debussy. Torino, EDT, 2009, p.110.

    3 C. Debussy, Correspondance (1872-1918). Paris, Gallimard, 2005, p.1909.

    4 Edvard Munch, Frammenti sull’arte. Milano, Abscondita, 2007, p.22.

    5 C. Debussy, Monsieur Croche (…), cit., p.96.

    6 S. Mallarmé, Ten O’Clock, in Œuvres Complètes, vol.I. Paris, Gallimard, 1998, p.842.

    7 Lettera di Whistler a leyland, cit. in Jean-Michel nettoux, harmonie en bleu et or. Paris, fayard, 2005, p.108.

    8 Léon Vallas, Claude Debussy et son temps. Paris, Allbin Michel, 1958, p.205.

    9 C. Debussy, Monsieur Croche (…), cit., p.62.

    10 S. Mallarmé, Œuvres completes, (cit, p.807.