• NUTRIRSI CLUB
  • 20 Gennaio 2021

    RENATO PALLAVICINI: LA FORBICE DI IKEA, NATURA E CULTURA NEL TEMPO DELL'ARCHITETTURA GLOBALE

      Renato Pallavicini

    Forbice: «Per lo più al plurale, le forbici, un paio di forbici, utensile d'acciaio per tagliare...». Così recita il Dizionario Treccani. Ma forbice, nell'uso al singolare, sta per «divaricazione progressiva di due valori». Possono essere valori matematici, economici ma anche culturali, etici, filosofici.

     

    Prendiamo un paio di forbici di uso comune e di una marca diffusa globalmente: Ikea. La scelta è casuale (potrei sceglierne di un'altra marca qualsiasi) ma non troppo. Perché in questo caso la marca, anzi il marchio/logo è fortemente simbolico. 

    Forbici Ikea

    Se guardiamo un po' più da vicino le nostre forbici Ikea e puntiamo gli occhi sul perno, il fulcro attorno al quale ruotano le due lame, scopriamo che sull'acciaio - oltre all'incisione della marca, Ikea, e alla classificazione del tipo di acciaio, Stainless - compare la scritta Made in China.

    Ikea Made in China

    Che cosa ci dice, simbolicamente, questo?
    Ci dice che un oggetto antichissimo - rimasto nel tempo sostanzialmente identico a se stesso (il discorso potrebbe valere per molti altri oggetti) - è passato da una manifattura artigianale alla produzione industriale. Ma soprattutto a un luogo di produzione globale: in questo caso la Cina (di nuovo, il discorso potrebbe essere esteso ad altri Paesi, luoghi di fabbricazione dei prodotti dell'economia globale: basta leggere le etichette dei nostri vestiti e ci scopriremo, inevitabilmente, tutti globalizzati). 

    Ma il fatto che la nostra forbice sia marcata Ikea, suggerisce un'ulteriore riflessione. E cioè che un oggetto figlio di una tradizione di design industriale moderna, fortemente radicata in Europa (dal Werkbund alla Bauhaus e oltre), tradizione che persegue funzionalità e standard e coniuga forma, funzione e produzione, è - per così dire - migrato, seguendo mutate leggi e condizioni economiche e produttive, in un Paese «distante» come la Cina.

    Facciamo un passo ulteriore. Poniamo Natura e Cultura (due valori e/o categorie) sulle punte delle nostre forbici e apriamole. La divaricazione delle due lame ha scisso un manufatto culturale, ha separato natura e cultura dell'oggetto, divaricando forma e funzione, ideazione e produzione. L'apertura delle lame ha assunto dunque la valenza simbolica della divaricazione geografica e culturale. 

    Natura e Cultura, insomma, per mondanizzarsi e mondializzarsi, ovvero accadere e operare nel mondo hanno bisogno di aperture e divaricazioni che comportano Trasformazioni e Trasmigrazioni.

    E il perno della forbice - come da definizione - funziona da fulcro e consente l'apertura e la chiusura delle lame o - in senso traslato - la divaricazione oppure l'accostarsi/ricongiungersi: una «dialettica meccanica» metafora di altre e diverse dialettiche e contraddizioni. 

     Mumbai Forbice urbana
    Mumbai, Forbice urbana

    Giardino, mondo, architettura.

    Il tempo della globalizzazione ha divaricato come non mai la forbice tra natura e cultura. Il recente libro di Massimo Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019) ha sviscerato filosoficamente ed eticamente il rapporto/conflitto tra natura e cultura, tra giardino e mondo. In un passo del suo libro (pag.11) Venturi Ferriolo scrive: "Pratica di vita, la filosofia c'insegna a vivere interrogando i grandi problemi della conoscenza e della condizione umana. Trasformare il mondo in un giardino è un'attività filosofica dallo sforzo teorico vano se non viene accompagnata e sorretta dalla volontà d'azione per la ricerca di un mondo migliore. Mondo - scrive Venturi Ferriolo - sono i luoghi concreti di vita, cantieri perenni dell'esistenza, dell'abitare e costruire incessantemente per esistere".

    Credo che l'Architettura sia l'arte e la tecnica di agire nei «cantieri perenni dell'esistenza e dell'abitare».

    Oltre al libro di Massimo Venturi Ferriolo, faccio riferimento ad altri testi e contributi, di carta o digitali, memorie di studi e qualche ricordo ed esperienze di cose viste e viaggiate.
    Tra i molti testi: Costruire e abitare - Etica per la città di Richard Sennett (Feltrinelli 2018), Le città dell'economia globale di Saskia Sassen (Il Mulino, 1994-2010), frutto delle ricerche di due celebri sociologi che si sono occupati del lavoro, dei legami sociali nei contesti urbani, degli effetti sull'individuo della convivenza nel mondo moderno urbanizzato e delle metropoli globali. 

    E le città globali, oggi, solo in parte abitano la vecchia Europa o la nuova America o il Giappone. Ma sono situate in misura crescente a latitudini e longitudini diverse e distanti da noi: America latina, Africa, Asia (soprattutto in Cina).

     Cina Muraglia
    Cultura Città cinese Jing Jin Ji
    Cina, La Muraglia urbana  

    Di fronte a questo salto di scala (anche geografica) la domanda di come e quanto l'etica (cioé il riferimento all'ethos inteso come «posto da vivere», luogo dell'abitare il mondo e dell'abitare bene) possa plasmare la progettazione della città si fa più pressante. Sennett aggiunge che: «la città sembra storta[1] perché esiste un'asimmetria tra cité e ville». Insomma: tra città antica, storica e città moderna, contemporanea e poi metropoli globale.

    Sintetizzando:
    La Cité è il luogo dell'abitare, della comunità; la Ville è lo spazio del movimento, della folla anonima.

    Il sociologo americano nel suo Costruire e abitare fa un excursus nel quale c'è posto per la filosofia, la letteratura, la sociologia: da Aristotele a Kant, da Balzac a Proust, da Baudelaire a Simmel. E, naturalmente, c'è posto per l'Architettura, con molti esempi: dall'Addizione Erculea di Ferrara ai boulevard parigini tracciati dal Barone Georges Eugène Haussmann, agli interventi di Ildefons Cerdà a Barcellona, dal sistema dei Parchi di Frederick Law Olmsted alla Città Giardino di Ebenezer Howard, ai progetti di Le Corbusier per una Ville Radieuse (il Plan Voisin per Parigi e quello per una Città per tre milioni d'abitanti). A riprova che la dialettica del Moderno tra cité e ville ha conosciuto molti conflitti e tentativi di sintesi. 

    Parigi Haussmann
    La Parigi di Haussmann. Mappa con tracciati in rosso i nuovi viali che mettono in relazione i diversi arrondissement.

    Le Forme del costruito e dell'abitare, argomenta Sennett sono «qualcosa di più di una riflessione politica o economica... sono il frutto della volontà del costruttore» e, aggiungiamo, dei bisogni dell'abitante. Perché «l'ambiente fisico sembra scaturire dal modo in cui abitiamo un luogo e da chi siamo davvero. 

    Ma la forma che le città assumono non ne discende linearmente. Non è un diretto processo di cause ed effetti, un proporzionale mutamento di quantità e qualità; piuttosto è raramente uniforme e omogenea, anzi appare «storta»,  colma di contraddizioni e dotata di contorni frastagliati». 

     PARIS LE CORBUSIER 2La Parigi di Le Corbusier. Modello del Plan Voisin, 1925. 
    Il progetto immagina lo sviluppo della capitale francese collegato ad una revisione di una vasta organizzazione territoriale.

    Complessità e Contraddizione, allora, come i concetti che il PostModerno ha introdotto nella lettura dei linguaggi architettonici e delle stratificazioni urbane, analizzati in due celebri testi dell'architetto americano Robert Venturi: Complessità e contraddizioni nell'architettura (1966) e Learning from Las Vegas (1972). Stratificazioni e paesaggi in cui entrano oggetti non strettamente architettonici come insegne, stazioni di servizio, illuminazioni al neon, torri di servizio, cisterne, pali telefonici...

    Come agire dunque in questa complessità e contraddizione?

    • Con una pluralità e commistione di linguaggi tra eclettismo e postmodernismo? 
    • Mettendo a confronto e conflitto schemi urbani (razional-geometrici, organici, misti ecc.)? 
    • Commisurando e adattando progetti e interventi della Ville alle esigenze della Cité? 
    • Intervenendo demiurgicamente o usando procedimenti partecipativi, modesti, discreti?

    Sennett si risponde in parte, affermando che: «... l'urbanista deve essere il partner dell'abitante della città, non il suo servitore - critico sul modo in cui vive la gente e autocritico su quel che costruisce. Se tale relazione tra Cité e Ville può essere creata, allora la città può aprirsi».[2]

    ParadiseNowNatura e Architettura. Una foto da «Paradise Now», © Peter Bialobrzeski

     

    [1] L'aggettivo storta è preso in prestito da Immanuel Kant, quando nel suo saggio Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica, scrive che: «da un legno storto, come è quello di cui l'uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto».
    [2] La conferenza si chiudeva con una proiezione di una serie di immagini riferite a città e architetture che mostrano la divaricazione della forbice da cui siamo partiti, e alcuni tentativi di ricongiunzione.

    Immagine di copertina:
    Camille Pissarro, Boulevard Montmartre, pomeriggio al sole, (1897). Ermitage. 
    Gli sventramenti del tessuto medievale parigino, operati dal Barone Haussmann, cambiano il volto della città e instaurano nuovi modi di vita e di fruizione del tempo

    Conferenza tenuta il 25 ottobre 2019, nell'ambito del Ciclo "La Parola Tempo", promossa da NUTRIRSI in collaborazione con DSU, Dipartimento Scienze umane e sociali, Patrimonio culturale - CNR
    Museo Macro Asilo, via Nizza 138, ROMA. Ottobre-Dicembre 2019