• SCIENZE NATURALI E DELL’UOMO, ECOLOGIA
  • 6 Luglio 2016

    Evoluzione: da Australopithecus a Homo, parte terza

      Fabio Di Vincenzo

    L’estensione delle aree a prateria nel Plio-Pleistocene ha comportato anche un cambiamento nella qualità nutrizionale degli alimenti costitutivi della dieta degli ominini.

     

    Laden e Wrangham (2005) hanno proposto che una fonte alimentare importante, sia per le australopitecine gracili sia, in misura ancora maggiore, per i parantropi, fosse rappresentata dai così detti USO, underground storage organs cioè radici, tuberi e rizomi di piante a metabolismo C4 abbondanti nelle praterie tropicali; questi, per proteggersi dalle condizioni di estrema aridità sul terreno, hanno evoluto strutture sotterranee di immagazzinamento di acqua e sostanze nutritive come amido e oli vegetali.
    In quest’ottica potrebbe rivestire una particolare rilevanza il rinvenimento di lunghe schegge in osso, molto consumate e levigate lungo i margini da assumere quasi la forma di una spatola, nel sito sudafricano di Swartkrans in associazione stratigrafica con i resti di P. robustus e probabilmente utilizzati da quest’ultimo come strumenti di scavo del terreno in cerca di USO, o per aprirsi una via attraverso i grandi termitai colonnari per consumare le larve di insetti custodite al loro interno (Backwell & d’Errico 2001; d’Errico & Backwell 2003).
    Queste sarebbero le uniche evidenze disponibili circa l’impiego diretto di strumenti da parte di australopitecine. Infatti, altre prove riferite all’utilizzo di strumenti litici, da parte di Australopithecus garhi datato a 2.5 Ma (Asfaw et al. 1999) e Australopithecus afarensis, 3.4 Ma (McPherron et al. 2010), per lo sfruttamento ad uso alimentare di carcasse di animali, dedotto dalla presenza di segni di taglio (cut marks) lasciati su ossa fossili rinvenute lungo la media valle del fiume Awash in Etiopia, nei siti di Bouri e di Dikika rispettivamente, non hanno al momento ricevuto sufficienti conferme o sono state apertamente contestate e riferite a tracce lasciate da denti di coccodrillo.

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    Fin qui risulta che le australopitecine e in particolare i parantropi si specializzarono sempre più da un punto di vista sia ecologico che adattativo verso il consumo di USO, vegetali erbosi (contenenti un alto tenore di silice e quindi molto abrasivi) e semi coriacei (cioè ricoperti da strati di lignina e cellulosa per limitare la dispersione dell’umidità del seme esposto al clima caldo e secco della savana) tutti cibi ricchi di fibre, oli e nutrienti essenziali ma di difficile masticazione.

    Una serie di analisi eseguite con il microscopio elettronico a scansione (SEM) sulle microtracce di abrasione lasciate dagli alimenti sullo smalto dentario hanno però evidenziato che gli esemplari di parantropi studiati (in particolare P. boisei) non avevano consumato alimenti particolarmente resistenti e abrasivi nei giorni precedenti la loro morte (Ungar et al. 2008). Questo apparente contrasto tra una morfologia cranio-dentale da vegetariani-specialisti e un comportamento alimentare da vegetariani-generalisti trova la sua spiegazione in quello che in ecologia è noto come “paradosso di Liem” (Robinson & Wilson 1998) che prevede che un organismo che presenti adattamenti morfologici da specialista per il consumo ottimale di particolari risorse possa avere un comportamento da generalista quando altre risorse alimentari di pari o superiore valore nutrizionale sono abbondanti e più disponibili nell’ambiente in cui esso vive.
    In pratica in condizioni normali (cioé di relativa abbondanza di cibo) i parantropi consumavano gli alimenti che erano più facili da reperire e consumare, competendo alla pari con altri organismi sia specialisti che generalisti; nel momento in cui però una o più crisi ecologiche legate a prolungati o temporanei cambiamenti ambientali portava ad una drastica riduzione di questo tipo di risorse alimentari, ecco che le forme più specializzate risultavano avvantaggiate dalla selezione naturale, riuscendo a consumare con profitto alimenti non altrettanto accessibili ai competitori generalisti. In questo modo gli straordinari adattamenti dei parantropi poterono fissarsi e accumularsi nel tempo quasi fossero un “jolly” da giocare nei momenti di estrema difficoltà ecologica.

    In effetti, i parantropi non erano gli unici ominini che tra i 2.5 e 1 Ma si aggiravano su due gambe nella savana. Gli stessi eventi ecologici che avevano portato alla sostituzione delle australopitecine gracili da parte delle forme robuste, avevano anche permesso l’evoluzione, probabilmente sempre a partire da una delle specie riferite al genere Australopithecus, di una nuova forma di ominino, più versatile, che riusciva a sopravvivere grazie all’apporto calorico di una dieta improntata a una maggiore onnivoria e che includeva anche una più spiccata carnivoria rispetto a quanto avveniva nelle australopitecine. Erano questi i primi membri del genere Homo.
    Per un tempo lunghissimo quindi due generi distinti di ominini hanno convissuto fianco a fianco negli stessi ambienti sia in Africa orientale, dove resti di Paranthropus e Homo sono stati rinvenuti negli stessi strati geologici in importanti siti pliocenici come la gola di Olduvai in Tanzania, Koobi-Fora e Omo sulle rive del lago Turkana, sia nei territori dell’Africa meridionale a Swartkrans e a Drimolen. Il fatto che due forme ominine distinte abbiano condiviso per così tanto tempo lo stesso territorio, una condizione che in termini ecologici si definisce simpatria, ci dice molto circa i rispettivi stili di vita e abitudini alimentari.

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    Infatti, per poter convivere insieme, due specie qualunque di organismi devono necessariamente differenziare la propria ecologia trofica, altrimenti, una delle due specie inevitabilmente finirà per prevalere sull’altra, facendola estinguere in ragione di un vantaggio anche minimo nella capacità di competere per le stesse risorse.
    Questo è in poche parole il principio di esclusione competitiva che regola la distribuzione di tutti gli organismi (ominini compresi) in relazione al realizzarsi di determinate condizioni ecologiche.
    E’ probabile quindi che i parantropi riuscirono a competere con successo specializzandosi sempre più nel consumo di vegetali sia teneri che resistenti e in particolare USO, erba e granaglie, mentre i primi rappresentanti del genere Homo, svilupparono ulteriormente l’opportunismo alimentare già presente nelle australopitecine gracili, come riflesso di una più spiccata versatilità comportamentale. In particolare, questi ultimi poterono sfruttare oltre ai vegetali reperiti spontaneamente nell’ambiente, anche una fonte proteica stabile e relativamente abbondante nell’ecosistema di savana, rappresentata dalle carcasse di erbivori abbandonate dai predatori, principalmente grandi felini.
    I primi Homo si caratterizzavano quindi per un comportamento alimentare da onnivori con una accresciuta tendenza alla carnivoria non legata a fenomeni di caccia attiva ma allo sfruttamento (in termine tecnico scavenging o sciacallaggio) di carogne e carcasse in diretta competizione con altri saprofagi come sciacalli e avvoltoi o addirittura con gli stessi grandi felini rimasti a presidio della preda. Questa importante risorsa trofica rimaneva probabilmente meno accessibile ai parantropi in quanto richiedeva, per essere sfruttata, l’impiego di strumenti litici complessi rappresentati in principio da ciottoli scheggiati, mediante un percussore, su di un lato (choppers) o su entrambi i lati (chopping tools), in modo da ottenere un margine tagliente per poter recidere tendini e brandelli di carne rimasti sulle ossa o per fracassare le stesse e ricavarne il prezioso midollo osseo, una fonte alimentare importantissima, molto ricca di grassi ed estremamente energetica.

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    Si è molto discusso sulla possibilità che i parantropi fossero gli autori e gli utilizzatori finali se non di tutta, almeno di una parte dell’enorme quantità di industria litica che si rinviene in associazione con i fossili di ominini Plio-Pleistocenici e generalmente attribuita al genere Homo. Per quanto tale possibilità non possa essere esclusa del tutto, anche in riferimento alla riconosciuta abilità dei parantropi nel manipolare e usare strumenti mediante la presa di precisione delle dita (Susman 1998), esiste però un generale consenso circa il fatto che furono i primi umani e non i parantropi a realizzare questa industria paleolitica che è sempre stata trovata in associazione con il genere Homo e mai dove presente il solo genere Paranthropus.

    Fin dall’inizio l’evoluzione del genere Homo è stata caratterizzata dal costante accrescimento dei volumi encefalici, fenomeno noto con il termine di encefalizzazione, che nella realtà è una processo evolutivo molto più complesso e assai meno lineare di quanto generalmente venga ritenuto anche tra gli stessi paleoantropologi.
    Già le prime forme di Homo (e.g. Homo habilis, Homo ergaster) vissute tra 2.5 e 1 Ma, mostrano un cervello più grande dal 30 al 50% rispetto a quello di una qualunque australopitecina (Holloway et al. 2004).
    Tale crescita è stata sostenuta e permessa grazie all’adozione di una dieta molto calorica e di alta qualità nutrizionale in quanto il cervello è un organo estremamente “vorace” in termini di energia metabolica consumata (Aiello & Wheeler 1995) e richiede, per il suo corretto funzionamento a livello cellulare, l’apporto di un’elevata quantità di nutrienti essenziali (acidi grassi polinsaturi come Omega-3 e Omega-6) non direttamente sintetizzabili dall’organismo (Cunnane 2005). Una dieta con un più alto tenore di proteine e grassi animali, può soddisfare entrambe le esigenze; a sua volta la crescita della complessità cerebrale consente lo sviluppo di nuove e più sofisticate capacità cognitive, legate alla percezione spaziale dell’ambiente circostante, alla così detta memoria di lavoro, alla socialità, alla capacità di comunicare e, non da ultima, all’abilità tecnica per la costruzione di strumenti necessari per poter accedere a quelle stesse risorse alimentari in grado di sostenere a livello sia fisiologico che metabolico lo sviluppo cerebrale, avviando in questo modo una serie di cicli di retroazione (feedback), estremamente positivi, tra miglioramento nutrizionale della dieta e sviluppo del cervello e delle capacità cognitive.
    Al contempo il maggior consumo di carne, midollo e sostanza cerebrale di origine animale cui comunque rimane associata una forte, addirittura preponderante, componente di consumo di vegetali non erbacei (frutta, bacche e tuberi), ha portato a un “rilassamento” delle pressioni selettive che avevano spinto, nelle australopitecine, verso l’aumento delle dimensioni della dentatura e delle strutture masticatorie, favorendo invece la fissazione di mutazioni per la riduzione relativa della massa dei muscoli masticatori (Stedman et al. 2004) e di tutte le strutture dentali e cranio-facciali a livello degli zigomi e delle mandibole, con una conseguente riduzione del prognatismo facciale per ragioni molto diverse, anzi addirittura opposte, rispetto a quanto era avvenuto nei parantropi.
    Tale riduzione si fece probabilmente ancora più marcata a seguito del controllo, da parte dell’uomo, del fuoco che spontaneamente si sprigionava nei frequenti incendi della savana e del suo utilizzo anche per la preparazione di alimenti a partire forse già da 1.6 Ma, anche se non sono state trovate evidenze certe di cibi cotti associati a questi antichi focolari (Wrangham et al. 1999).

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    Appare allora evidente che gli adattamenti alimentari, sia che abbiano interessato direttamente la morfologia dentale o altri aspetti della complessa fisiologia umana, come lo sviluppo del cervello, hanno rappresentato il fattore di gran lunga più importante, tra i molti possibili, nel determinare il percorso intrapreso dall’evoluzione degli ominini, partendo dalle fasi più antiche sino alla comparsa dei primi uomini. Analizzando con procedure di statistica multivariata solamente tre variabili relative alle dimensioni assolute della dentatura posteriore, ai volumi encefalici e ai tassi di sviluppo ontogenetico (cioè ai tempi relativi di crescita corporea) per diverse specie di ominini riportate in tabella 2, è possibile caratterizzare in modo assai preciso l’evoluzione umana in relazione ai fattori che maggiormente hanno influenzato la variabilità morfologica osservata tra le diverse specie e generi di ominini a partire dal Pliocene fino ad oggi.

    Evoluzione-Fig.4

    La proiezione dello spazio multivariato riportata nella figura 4, mostra chiaramente come i diversi generi e le singole specie si distribuiscano in maniera molto ordinata lungo le direttrici di massima variabilità (definite componenti principali) con le australopitecine gracili ripartite sull’asse verticale in base alla loro antichità e con i parantropi che si dispongono immediatamente a seguire lungo lo stesso asse verticale che rappresenta il progressivo aumento nelle dimensioni assolute della dentatura posteriore, ad indicare che questo è il fattore che maggiormente ha influito sull’evoluzione di queste forme.
    Tutte le specie umane, invece, si dipartono dalle australopitecine disperdendosi lungo l’asse orizzontale che coincide con l’aumento dei volumi encefalici e con il ritardo nei tassi di sviluppo, mantenendo valori dentali simili a quelli medi di una australopitecina gracile. Ad essere più precisi, le aree dei denti sono soggette a un effetto di scalatura con l’aumento delle dimensioni corporee complessive, quindi se rapportate a queste (vedi tabella 1), si assiste nel genere Homo a una riduzione relativa della dentatura posteriore anche piuttosto marcata.

    In pratica nel Pliocene l’evoluzione umana assume idealmente la forma di una Y con le australopitecine gracili poste alla sua base a formare il “gambo” e parantropi e umani che dipartendosi da esso, si divaricano divergendo lungo i suoi “rami”.
    Con i medesimi dati usati precedentemente ma espressi in forma di distanze rappresentative della maggiore o minore somiglianza morfologica tra le diverse specie, è possibile ricostruire l’albero evolutivo degli ominini a partire dalle prime australopitecine vissute oltre 4 milioni di anni fa nel Pliocene fino ad arrivare alla nostra specie, con ben evidenziate le principali caratteristiche evolutive e adattative di ogni gruppo (figura 5).

     Evoluzione-Fig.5

    Se l’aumento di importanza progressivamente assunto dalla dentatura posteriore nell’alimentazione (e quindi per la sopravvivenza di ogni individuo e per estensione della specie di cui fa parte) ha rappresentato il “motore” dell’evoluzione delle australopitecine, un diverso e più rivoluzionario modello biologico incentrato sullo sviluppo, quasi esponenziale, dei volumi encefalici e delle capacità cognitive a esso associate, nonché su fattori regolativi dello sviluppo, è ciò che invece ha caratterizzato l’evoluzione umana con l’emergere dei primi rappresentanti del genere Homo cui noi stessi apparteniamo.

    Anche in questo caso, comunque, è l’alimentazione a fissare le regole del gioco, il cui risultato finale ha rischiato più volte di non essere così scontato come, guardando retrospettivamente alla nostra storia, ci può a volte presuntuosamente apparire.
    Ma di questo e di altro, avremo modo di riparlare.

     

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