• SCIENZE NATURALI E DELL’UOMO, ECOLOGIA
  • 1 Dicembre 2017

    Echi e fragranze del Mare del Nord

      Maurizio Gentilini

    Il titolo è quanto mai fuorviante e foriero di equivoci…
    Perché? Perché quello del Nord non è un pelago che possieda le fragranze, le luci, gli odori che contraddistinguono mari come il Mediterraneo:

     

    il profumo del mirto che promana dalle coste della Sardegna, quello di zagara in Sicilia, il timo e il blu omerico del mare di Grecia, le essenze di cedro sulle coste del Libano e il caleidoscopio di spezie delle sponde egiziane e magrebine…

    E nemmeno l’oggetto dell’articolo – ovvero lo stoccafisso, il merluzzo dell’Artico norvegese essiccato – possiede caratteristiche tali da stimolare particolarmente la percezione dei nostri sensi.

    Le vie del merluzzo

    Altro sono gli elementi culturali legati alla sua produzione e lavorazione, al suo commercio e consumo. Le rotte commerciali basate sullo stoccafisso scandinavo, inaugurate dal mercante Pietro Querini nel XV secolo e convergenti sulla città di Venezia, rappresentano una sorta di omologo della via della seta (anche questa idealmente riferita alla Serenissima, in virtù della figura di Marco Polo) che legava l’Europa alla Cina e ai mercati dell’Oriente.

    Due assi cartesiani della storia della civiltà europea in epoca medievale e moderna, in cui ascissa e ordinata hanno il loro punto di incontro a Venezia.

    Il cibo (e le forme del cibo) supera le cesure cronologiche che noi diamo alla storia e alle sue ere. Il cibo fa parte dell’humus culturale delle civiltà che passano e, a volte, è l’unico elemento che persiste; e di solito persiste nella cultura popolare …

    Uno dei principali problemi dell'uomo di terra e di mare è sempre stato quello di conservare il cibo che faticosamente era riuscito a procurarsi. Per il mercante veneziano dovette essere una scoperta sensazionale imparare dalle piccole comunità norvegesi il più naturale sistema di conservazione: l'essiccamento al sole e al vento.

     lofoten2

    Una tecnica concepita nella notte dei tempi nei paesi scandinavi per trasportare sulle imbarcazioni alimenti molto leggeri che potessero fornire il massimo delle energie per sfamare le ciurme addette ai remi (100 grammi di merluzzo fresco forniscono circa 70 calorie, mentre con quello essiccato salgono a 350).
    Se i popoli vichinghi sapevano trattarsi di un pesce sano, nutriente e poco grasso, la scienza moderna ha poi sancito che è anche ricco di omega-3, proteine, vitamina B12 e sali minerali (fosforo, calcio, selenio e ferro).

    Lo stoccafisso è traduzione assonante del nordico “stockfish”, che significa “pesce bastone” per la sua rigidità.
    E’ un pesce da magazzino e da cambusa, per la facilità con cui può essere – appunto – stoccato. Leggerezza, facilità di trasporto, conservazione e consumo, contribuirono in maniera decisiva al successo dello stoccafisso nei secoli.

    Lo sviluppo dei trasporti delle merci via mare fu enormemente favorito dalla possibilità di usare questo alimento, che ben sostituiva quelli facilmente deteriorabili.
    Nel Medioevo, il commercio del merluzzo ebbe una immensa importanza. Divenne una sorta di moneta di scambio con tedeschi, olandesi, britannici e altri popoli dell' Europa del Nord. Merluzzo secco in cambio di grano, birra e tessuti. Per regolarne il valore e il mercato, alle navi della Lega Anseatica venne proibito di salire a nord del parallelo di Tromsø.

    Tempi e riti

    Poco o nulla è cambiato dall’epoca in cui Querini approdò nelle isole Lofoten e, ancor oggi, le modalità dell’esposizione del merluzzo all’aria aperta mantengono tutte le caratteristiche sedimentatesi e codificate nei secoli e una ritualità dai tratti ancestrali.

    In ogni paesino delle Lofoten, accanto alle case, c’è il magazzino della lavorazione del pesce dove i merluzzi appena pescati subiscono il primo trattamento. Una lavorazione che comincia con l’intervento delle abili mani dei bambini, che recuperano lingue e guance, considerate una prelibatezza e cucinate fritte in pastella. Segue il taglio delle teste e delle interiora, destinate alla trasformazione e ai mercati più poveri.
    Il corpo del pesce viene messo a essiccare sui graticci di legno collocati ai margini dei centri abitati.
    Il processo di essicazione dura circa tre mesi e si chiude da sempre con il solstizio d’estate. A san Giovanni (il 24 giugno) in ogni paese vengono accesi grandi fuochi per segnalare che è tempo di ritirare i merluzzi ormai secchi.
    Lo stoccafisso viene suddiviso nelle diverse classi di qualità (Nederland, Bremese, Lub, Westre, Ragno, …) e pressato in balle da 50 chilogrammi. Le spedizioni iniziano a luglio.

     Stockfish

    Materia prima e ponte tra culture

    Il merluzzo essiccato è uno di quegli elementi che, come pochi altri, costituiscono “materia prima” di culture e preparazioni alimentari molto distanti tra loro. Può essere pertanto considerato “strumento di inculturazione”, ovvero elemento di base accoppiato a ingredienti tipici di una molteplicità di luoghi e aree geografiche.

    Il primo di questi accoppiamenti si evince già dal rapporto per il governo della Repubblica di Venezia steso dal Querini al suo ritorno dalla Norvegia, dove parla della lavorazione dello stoccafisso e del suo consumo condito con il burro:
    "…I socfisi seccano al vento e al sole e perché sono di poca humidità grassa, diventano duri come legno. Quando li vogliono mangiare, li battono col roverso della mannara che li fa diventare sfilati come nervi, poi compongono butirro e spetie per dargli sapore, et è grande et inestimabile mercanzia per quel mare di Alemagna …"

    E gli accoppiamenti del pesce secco dei mari del nord con prodotti tipici delle regioni in cui verrà esportato nel corso dei secoli genereranno infinite ricette e modalità di consumo.

    Va comunque chiarito che il merluzzo della specie Gadus morhua, essiccato ai gelidi venti del circolo polare artico, si consuma per la maggior parte in Italia. In tutto il resto del pianeta prevale l’uso del baccalà, ovvero il merluzzo conservato sotto sale, che lo mantiene morbido e umido.

    Il consumo nella penisola si concentra essenzialmente in Veneto, Liguria, Calabria, Sicilia, e Campania (esiste tuttavia un'antica tradizione nelle zone di Livorno e di Ancona), regioni nei cui porti lo stoccafisso approdava con le navi mercantili nei secoli addietro. 

     alla genovese

    Le associazioni a condimenti e ad altri alimenti diventeranno pressoché infinite, espressioni di culture e costumi alimentari regionali ed etnici che genereranno un autentico mosaico di sapori.
    Qualche esempio: olio (in tutta l’area mediterranea), latte e polenta (nelle zone di terra del Triveneto), cipolla (il pesce accoppiato alla cipolla è un uso tipico dell’alto Adriatico, ma non del resto del Mediterraneo), patate (dopo che vennero importate dal Perù nel 1540), pomodoro (quando giunse in Europa al seguito di Hernan Cortes e dopo i primi studi di Pietro Andrea Mattioli), olive e peperoncino (tipico delle ricette calabresi), pastellato e fritto (secondo le tradizioni della cucina romanesca, imbevuta di cultura ebraico-sefardita), con uva passa e pinoli (in Sicilia, ma si tramanda si tratti di un costume mediorientale importato dai crociati).

    Il territorio italico dà il nome a molte ricette, declinate in base ai gusti locali: alla genovese, alla messinese, alla vicentina, all’anconitana, alla calabrese, per citarne alcuni.

     VICa titolo

    Anche i mercati e la distribuzione nella penisola cambiano a seconda della latitudine: nel nordest e in Calabria viene importato lo stoccafisso della qualità “ragno” che, prima della vendita, è rullato e battuto per facilitare il rinvenimento in acqua.
    Nelle altre zone si usano qualità più robuste (e meno pregiate), con lavorazioni diverse.

    Lo stoccafisso è comunque un cibo che ha sempre superato le frontiere politiche e culturali. Basti pensare come – agli inizi dell’evo moderno – la via del merluzzo essiccato abbia attraversato senza particolari dazi i confini tra i nascenti stati nazionali e quelli tracciati tra i paesi che aderirono alla Riforma e le terre cosiddette “cattoliche”. Queste ultime semmai favorirono indirettamente il consumo di merluzzo, anche sulla base di disposizioni canoniche, elaborate non solo su base teologica.

    Cibo dei “giorni di magro”

    Nel mondo cristiano l’astinenza dal consumo delle carni risale a tempi molto antichi; in origine era di più giorni alla settimana, poi concentratisi nel venerdì, scelto in considerazione della memoria della passione di Cristo.

    Nell’ultima sessione del Concilio di Trento (1563) vennero rivisti i giorni dell’anno da considerarsi festivi, quelli in cui osservare il digiuno e in cui astenersi dalle carni, e l’elenco dei cibi vietati nei giorni di magro, che in pratica divennero più di 150 l’anno.

    Tra gli alimenti ammessi c’era il pesce, che per le popolazioni non costiere era però costoso e facilmente deperibile.

    Una soluzione al problema la suggerì uno dei padri conciliari, Olaf Manson, arcivescovo di Uppsala (ma da tempo residente a Roma, tanto da trasformare il suo nome in Olao Magno) interessato allo spirito della riforma della Chiesa, ma anche alle fortune commerciali dei suoi conterranei svedesi.

    Nel 1555 pubblicò e diffuse tra i colleghi partecipanti al Concilio la Historia de gentibus septentrionalibus, con molte descrizioni della cultura e degli usi delle popolazioni scandinave.

    Nella Historia tesseva le lodi di un pesce detto “merlusia”, che abbondava nei mari del Nord ed era perfetto per essere essiccato o messo sotto sale, per la sua convenienza economica e per ottemperare alle disposizioni ecclesiastiche del mangiare magro.

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    Grazie a questa promozione, il merluzzo conservato, già conosciuto da un centinaio di anni, ma importato dalla Norvegia con modesto successo, avrebbe messo in moto un fiorentissimo commercio e si sarebbe diffuso tra le popolazioni italiche cambiandone le abitudini alimentari e culinarie.

    Povertà e ricchezza

    Merluzzo simbolo del “mangiare di magro”, ma anche cibo dei poveri nei paesi lontani dal mare e per coloro che non si possono permettere di sostituire la carne con pesce fresco. E quindi simbolo di povertà e di privazione, tanto da influenzare anche l’iconografia dell’arte popolare: la Quaresima viene spesso raffigurata come una vecchia emaciata che brandisce minacciosamente un pesce secco.

    Questa dimensione popolare del baccalà (come viene chiamato lo stoccafisso nelle regioni settentrionali) è tipica dell’area dell’Italia del Nord Est (con Venezia come fulcro commerciale) e del Nord Ovest (dove veniva chiamato il “branzino dei poveri”). Una pietanza simbolo di parsimonia e di fantasia, catalizzatore del talento di massaie, osti e frati francescani addetti alle mense dei bisognosi (famose le loro ricette!), capaci tanto di creare piatti gustosi quanto di far quadrare i bilanci. Di qui le associazioni – talvolta ardite – con ingredienti altrettanto poveri come polenta, patate, acciughe.

     Stockfish mercato

    Oggi che al precetto religioso dell’astinenza dalle carni e del digiuno si è sostituito il disciplinare laico dell’alimentazione sana e ipocalorica, il merluzzo si sta riprendendo qualche bella soddisfazione, diventando spesso protagonista delle mense più altolocate e delle tavole più snob. Oltre al gusto e alla varietà di impieghi, contribuiscono alla sua fortuna l’abbondante disponibilità di omega-3, elemento capace di combattere ed esorcizzare alcuni dei peggiori fantasmi del nostro tempo: il subdolo colesterolo e i diabolici radicali liberi.

    Una nemesi e una rivincita di quella che, per secoli, era stata solo una “magra consolazione”.

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