• SCIENZE NATURALI E DELL’UOMO, ECOLOGIA
  • 31 Marzo 2020

    MAURIZIO PAROTTO: MILIONI DI ANNI, IL TEMPO IN GEOLOGIA

      Maurizio Parotto

    Milioni di anni...miliardi di anni...: cosa possono significare nell’esperienza comune, la cui prospettiva temporale difficilmente si spinge al di là della storia dell’Umanità? Provare a immaginare eventi distribuiti in una sequenza sterminata di anni suscita la stessa sensazione che si prova guardando, in una notte serena, la volta del cielo stellato sopra un’ampia pianura, sapendo che quei circa 3000 punti luminosi che si vedono, le stelle, sono lontani da noi miliardi e miliardi di chilometri: misure, anche queste, totalmente al di fuori dell’esperienza comune.

     

    E se si usano strumenti astronomici, si scoprono corpi luminosi senza fine in ogni direzione, a distanze tali che la mente si smarrisce. Gli astronomi hanno scelto come unità di misura la distanza che la luce percorre nello spazio in un anno, muovendosi a circa 300 000 km/sec: l’anno luce equivale a oltre 9,4 miliardi di km: e sono stati registrati segnali da corpi lontani da noi miliardi di anni luce!

    MILIONI DI ANNI, IL TEMPO IN GEOLOGIA

    Indice

    Trame concettuali della Geologia    
    Prime intuizioni di una Terra mutevole     
    La trama torna incerta e confusa: le poche luci non diradano ancora le ombre…     
    Precursori, ma non fondatori     
    La trama torna più chiara: dopo una lunghissima gestazione, nasce la Geologia      
    Prime luci dalla Germania...
    Nasce il Nettunismo      
    Perché 4000 anni?     
    James Hutton: La Terra è in continua trasformazione: deve essere molto antica, ben più di poche migliaia di anni!      
    Leggere le testimonianze del passato “scritte” nelle rocce......
    Un’eredità feconda: Charles Lyell e Charles Darwin      
    Il fondatore della Geologia moderna
    L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale richiede tempi molto lunghi...
    La “rivoluzione” di Hutton: il ciclo geologico      
    Cronometria: contare gli anni      

    Così, alla scoperta di uno spazio profondo da parte degli Astronomi, con distanze sconfinate, si è affiancata la scoperta di un tempo profondo da parte dei Geologi, per contenere la distesa abissale di eventi chimico-fisico-biologici che costituiscono la storia geologica della Terra.

    Oggi sappiamo che la Terra ha avuto origine come uno dei pianeti della stella Sole circa 4,6 miliardi di anni fa, e che dalla sua formazione ha subito un processo continuo di trasformazioni, a cominciare dal suo interno, a elevate temperature, fino alla sua superficie, a contatto con lo spazio vuoto.

    fig 1
    «...molte centinaia di cicli hanno ruotato...»

    Già, ma quanti sono quattro miliardi e mezzo di anni? Per farsene un'idea, i geologi usano da sempre lo stesso ‒ efficace ‒ paragone. Se quei circa 4600 milioni di anni fossero resi uguali a un solo anno, ogni secondo varrebbe circa 140 anni e ogni giorno circa 12 milioni di anni; quindi, se la Terra fosse “nata” allo scoccare della mezzanotte del primo gennaio, lo scorcio di secolo in cui noi stiamo vivendo corrisponderebbe agli ultimi momenti dell'ultimo giorno dell’anno: la storia dell'uomo, le sue civiltà, le sue produzioni artistiche, per quanto antiche, non arriverebbero a coprire più degli ultimi 30 secondi del 31 dicembre!

    La misura dell’età della Terra e la “cronometria”, cioè la datazione degli eventi geologici che si sono seguiti sul pianeta, è divenuta possibile solo nel secolo scorso, quando i grandi progressi nella fisica nucleare hanno messo a disposizione metodi di analisi e strumenti specifici per datare oggetti anche molto antichi. D’altra parte, l’idea che la Terra sia in continua trasformazione, attraverso processi che richiedono tempi lunghissimi, è maturata solo alla fine del ‘700: sono stati necessari, infatti, molti secoli di osservazioni e speculazioni, il cui moltiplicarsi nel tempo ha portato al delinearsi delle trame concettuali della Geologia.
    La parola trama ha in sé il significato dello svolgersi di una storia, ma anche quello del disegno che nasce dall’ordito di un tessuto ed entrambi i significati sono presenti nello sviluppo della Geologia. Come le altre scienze, la Geologia ha una sua evoluzione, ma, in modo particolare, ha anche l’evoluzione come oggetto fondamentale delle sue ricerche, un’evoluzione lunga quanto il tempo, visto che, attraverso il Sistema solare, il nostro pianeta partecipa alla storia dell’Universo.

    Il modo più semplice di individuare queste trame è quello di ripercorrere brevemente la storia della Geologia, anche se sarà sostanzialmente una storia che si è svolta nel mondo mediterraneo e del Vicino e Medio Oriente, in particolare in Europa, dove hanno operato i “fondatori” della moderna Geologia.

    Partiremo, tuttavia, dall’Asia, dalle grandi montagne dell’Himalaya, seguendo le conclusioni di un grande geologo, il nostro Giuseppe De Lorenzo, che nei primi decenni del secolo scorso scrisse uno splendido volume su Leonardo da Vinci e la Geologia (1920, Zanichelli)[1], nel quale presentò una documentata e lucida sintesi su La Geologia prima di Leonardo.

    Prime intuizioni di una Terra mutevole

    Seguire lo sviluppo storico della Geologia significa rintracciare il sorgere e il modificarsi, attraverso secoli di esperienze dell’uomo, del «discorso» (logos) fondamentale della Terra: nella visione moderna, un’evoluzione incessante che, da un certo momento, comprende anche l’evoluzione biologica e che coinvolge immense quantità di massa e di energia. E questo significa anche riconoscere i modelli che via via sono stati proposti per spiegare in modo unitario tanti fenomeni, nel tentativo di ricostruire, come in una serie di immagini (di cui moltissime ancora mancanti o mal decifrabili), i disegni dei successivi aspetti del nostro pianeta, dalla sua origine a oggi.

    L’immagine che è venuta componendosi è quella di un pianeta in equilibrio dinamico, cioè un equilibrio rinnovato ogni momento attraverso interazioni e continui scambi di materia ed energia tra crosta terrestre e oceani, tra atmosfera, terre emerse e oceani, tra superficie e interno del pianeta.

    Ma la nascita di questa visione globale ha richiesto una lunghissima gestazione, condizionata dal progressivo accumularsi di conoscenza e di nuove scoperte, a loro volta legate all’ampliarsi degli orizzonti geografici e delle possibilità di scambio di informazioni: di conseguenza, l’idea della Terra in continua trasformazione, attraverso processi in atto da tempi molto più lunghi di quanto non abbia sperimentato l’intera vicenda umana, resa concreta nel disegno di modelli in progressivo sviluppo attraverso ripetute verifiche, è relativamente recente e fa della Geologia una scienza tra le più giovani. Eppure, come dimostrava De Lorenzo, il quadro in cui avrebbero potuto germogliare quelle idee, che dovevano fiorire in modo definitivo solo a partire dal XVIII secolo, era già presente nel pensiero dell’uomo già oltre 3000 anni fa.

    L’inizio della trama è un disegno labile, sfumato, in genere legato in modo inestricabile ad altri disegni e, tuttavia, già riconoscibile. Nelle forme artistiche e mitiche delle visioni cosmologiche contenute in molti testi della cultura vedica, dei popoli indoariani migrati nell’alta valle del fiume Indo, tra le gigantesche catene himalayane (testi sacri in lingua sanscrita, i più antichi dei quali risalgono al 1500 a.C.), e nel Buddismo, iniziato nel VI-V sec a.C., emerge l’idea di una Terra in continua trasformazione, e nelle immagini dei miti che descrivono la lotta tra potenze interne della Terra e forze celesti sembra adombrarsi la consapevolezza di grandi fenomeni che modellano incessantemente il pianeta.

    fig 2 
    Le Asterie (India) «emanano raggi e rifulgono nella notte»...

    Affiora anche il concetto di processi lentissimi e poco appariscenti, ma capaci di produrre vistosi effetti perché liberi di agire in un tempo di lunghezza incommensurabile, come in uno dei Samyutta Nikaya (Discorsi in gruppi)[2], citato da De Lorenzo: «…se vi fosse una grande montagna di roccia compatta, […] e ogni cento anni un uomo venisse e la sfiorasse con la sua veste di seta...quella montagna finirebbe con il logorarsi e si consumerebbe più rapidamente di un ciclo del mondo […] eppure molti di tali cicli hanno ruotato, molte centinaia di migliaia». Come si vedrà, per riscoprire e accettare nel nostro pensiero il concetto di “tempo profondo”, espresso in miliardi di anni, indispensabile per comprendere l’evoluzione della Terra e, ancor più, dell’Universo, bisognerà arrivare al XIX secolo.

    Ovviamente, sarebbe difficile vedere in queste immagini e intuizioni filosofiche e religiose o in quelle, per molti aspetti analoghe, della mitologia greca, una qualche forma di conoscenza geologica: ma è, per così dire, l’atteggiamento mentale nei confronti del mondo fisico e dei problemi che esso pone con il suo esistere che va sottolineato: quel modo di pensare risulterà l’indispensabile terreno fertile per far germogliare la curiosità e l’interesse per i fenomeni e le forme del mondo materiale, fino a stimolarne lo studio con spirito libero e con mente aperta, tanto da intravedere, dietro l’apparente stabilità e immobilità delle forme, la sostanziale mutabilità del mondo.

    In questa prospettiva, il progressivo precisarsi del disegno della Geologia si rintraccia nel pensiero degli antichi Greci, a cominciare dalle colonie ioniche lungo le coste egee dell’Asia Minore, famose per le loro tradizioni intellettuali, che videro anche il nascere dei primi scienziati. Con un progressivo distacco dal mito mediante l’uso di canoni razionali del pensiero, i filosofi ionici cominciarono a concepire un universo basato su leggi razionali, che potevano essere indagate.
    Talete e Anassimandro, di Mileto, Eraclito di Efeso, indagarono sulle cause prime e sull’eterno divenire delle cose, ma è soprattutto nel pensiero di Pitagora (570-496 a.C.) e della sua scuola che troviamo una completa e autorevole sintesi di grandi cause di cambiamenti tuttora attivi sul pianeta, ricavate da una serie di osservazioni e portate a conferma dell’idea di una continua e graduale rivoluzione nella natura della Terra.
    Il filosofo di Samo era vissuto a lungo in Egitto e aveva conosciuto i filosofi del vicino oriente, da cui aveva assunto probabilmente il concetto di fondo della progressiva distruzione e del rinnovamento della Terra, ma le sue idee rivelarono la forte originalità di un sistema filosofico rigoroso, ormai affrancato dalle mitologie cosmogoniche delle religioni egiziane e orientali. Noi conosciamo quelle idee solo nei versi di Ovidio (Metamorfosi, libro XV), ma, anche se forse con qualche modifica, essi rappresentano in modo sostanziale lo schema originario della dottrina della scuola pitagorica, ancora vivo dopo cinque secoli. Nei versi di Ovidio (che fa parlare Pitagora), la trama concettuale comincia a delinearsi: «Io stesso vidi ciò che un tempo era stato solida terra, trasformato in mare; vidi dalle acque emergere nuove terre e lontano dalle rive, abbandonate, conchiglie marine».[3] E continua poi la serie degli esempi, tratti dall’osservazione di fenomeni naturali: i fiumi scavano valli e sgretolano monti, portando detriti al mare, terre paludose sono diventate aridi deserti, mentre altre, prima asciutte, sono ora sommerse da acque stagnanti; a causa di antichi terremoti, scaturiscono acque che alimentano nuovi fiumi, mentre altri fiumi vengono sbarrati o finiscono in una voragine per riemergere altrove, come il grande Erasino [fiume dell’Argolide]; alcune terre, come Antissa e Faro, un tempo isole, sono state collegate al vicino continente dall’accumulo di depositi, mentre l’antica penisola di Leucade è diventata un’isola; antiche città, come Elice e Buri, in Acaia, a causa di terremoti, sono sprofondate in mare; crateri vulcanici cambiano la loro posizione: nemmeno l’Etna, sarà sempre infuocato…

    Queste conclusioni, in realtà, non sono rivolte alla diretta interpretazione di fenomeni geologici, e non vi è alcun tentativo di ricostruire cosa ha prodotto in passato e a cosa potrebbero dar luogo in futuro il continuo sommarsi di tali cambiamenti, legati a fluttuazioni senza fine: “Nulla si perde in questo mondo, credetemi, ma solo cambia e rinnova il suo aspetto”, fa dire Ovidio a Pitagora: l’elenco delle cause di cambiamenti nel mondo naturale è portato a testimonianza che «il cielo e quanto è sotto di esso e la terra e quanto essa contiene cambiano aspetto», in un continuo fluire.

    Ma la strada è aperta e l’attenzione agli aspetti naturali come tracce di fenomeni che hanno modificato e continuano a modificare la superficie del pianeta comincia a dare i suoi frutti. Si fa avanti il concetto che certi «oggetti» trovati nelle rocce, molto più tardi chiamati fossili, sono di origine organica e rappresentano resti di organismi un tempo vivi; come Pitagora, anche Senòfane di Colofone (580-488 a.C.) riferisce che «nei monti si trovano conchiglie e a Siracusa, nelle latomie[4], si trovano impronte di pesci e di foche…»,  mentre più tardi Erodoto (484-426 a.C.) riconosce la presenza di conchiglie marine in rocce affioranti nell’entroterra dell’Egitto. L’aspetto più importante di tali interpretazioni fu la deduzione che il mare aveva occupato un tempo quelle terre ora emerse, un modo di ragionare non condizionato da preconcetti, ma che dava valore all’osservazione e all’esperienza e che dava un metodo di indagine, come ancora appare tre secoli dopo in Strabone (63 a.C-19 d.C.), che, a proposito dei mutamenti della superficie terrestre «conviene dedurre una spiegazione da quanto cade sotto i nostri sensi, come alluvioni, terremoti, eruzioni e sollevamenti del terreno».

    Circa duemila anni fa, queste idee di continue trasformazioni suggerite dall’osservazione di situazioni e fenomeni naturali sembrano ormai entrate a far parte della trama, accolte e arricchite dal mondo romano: accanto a Ovidio, testimone della diffusione dei concetti naturalisti della scuola pitagorica, Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C.) si ispira a Epicuro (341-271 a.C.), il famoso filosofo greco formatosi nel già ricordato ambiente ionico, dove era viva la tradizione naturalistica: il poeta romano, parlando della formazione e trasformazione del mondo, in cui agiscono solo forze naturali, descrive terremoti ed eruzioni (delle cui attività aveva in Italia vistosi esempi) e indaga sulle possibili cause. Ancora una volta è difficile parlare di “visione geologica” in senso moderno, ma è innegabile la presenza di un substrato culturale fertile, pronto a favorire ulteriori sviluppi.
    Ma non fu così: quei germi della conoscenza geologica (come la scoperta del significato di fossili e la ricerca di cause naturali nelle trasformazioni della Terra) restarono a lungo ignorati e riprenderanno vigore solo dopo molti secoli nell’evoluzione delle conoscenze scientifiche.

    La trama torna incerta e confusa: le poche luci non diradano ancora le ombre…

    Prima di proseguire è necessario ricordare, per l’influenza che ebbe a lungo in seguito, il contributo e l’impulso (soprattutto metodologico) alla conoscenza della natura dato da Aristotele (384-322 a.C.), che, secondo la logica da lui stesso sviluppata, indagò l’uomo e la natura partendo da osservazioni sperimentali ordinate sistematicamente. Nella sua Meteorologia anche Aristotele, come già i filosofi ionici, ritiene che le cause dei cambiamenti che oggi operano nella natura siano in grado, con il passare del tempo, di portare a una trasformazione completa; gli occasionali eventi catastrofici (come una grande alluvione), che si verificano a lunghi intervalli, sono anch’essi parte del regolare e ordinato evolversi delle cose. I cambiamenti in atto portano quindi a grandi effetti, ma sono così lenti rispetto alla durata della vita dell’uomo, da passare quasi inosservati (cita, tra altri esempi, il processo di accrescimento del delta del Nilo).
    La grande diffusione del vasto corpus della dottrina aristotelica, soprattutto attraverso pensatori cristiani e musulmani, ebbe quindi conseguenze anche nel faticoso sviluppo delle conoscenze geologiche, soprattutto nella questione dell’origine e del significato dei fossili: Aristotele, infatti, a differenza degli altri filosofi greci prima citati, considerò le forme simili a organismi viventi che si trovano nelle rocce come i prodotti di una «forza formativa», simili a concrezioni di origine inorganica. Tale interpretazione, grazie alla grande autorità della tradizione aristotelica, ispirò molti studiosi fin oltre il Medioevo, dando origine a una controversia che, come vedremo, caratterizzò e condizionò per secoli lo sviluppo del disegno della geologia.

    La via finora tracciata per seguire l’evoluzione delle trame concettuali della geologia –almeno nel mondo occidentale- porta attraverso la tradizione indoariana a quella indoeuropea, fino nel cuore dell’area mediterranea, alle soglie dell’Era cristiana. Non si trovano, invece, contributi significativi nel pensiero dell’area del vicino e Medio Oriente, dove pure vissero popoli tra i quali fiorirono elevate forme di pensiero, filosofiche e religiose, che a loro volta si diffusero verso oriente e verso l’area mediterranea. Alcuni studiosi di storia della Geologia hanno visto nel mancato sviluppo del concetto di una Terra in trasformazione attraverso fenomeni naturali il riflesso di una concezione statica del mondo, nato (con tutto l’universo) dall’atto creativo di un unico dio, alla cui volontà sarebbero legate, perciò, tutte le manifestazioni naturali. In tale prospettiva, anche se nelle tradizioni religiose la creazione si svolgeva attraverso una successione di momenti (come i sei giorni della genesi biblica), il mondo in cui compariva l’uomo risultava alla fine formato in modo definitivo e i grandi fenomeni naturali venivano perciò riferiti al diretto intervento del dio creatore (come ad esempio, il diluvio universale, il cui racconto diffuso in occidente dalla tradizione ebraica, già era presente nelle tradizioni di altri popoli più antichi, in particolare nell’area mesopotamica).
    In definitiva, la ricerca delle cause dei fenomeni naturali non si poneva come un vero problema e lontana era anche l’idea che attraverso tali fenomeni la terra stesse lentamente trasformandosi, sia pure come un “completamento” della creazione.
    Può darsi, però, che questa interpretazione sia troppo semplice e che l’intera questione debba essere nuovamente affrontata con uno specifico e approfondito esame delle fonti originali; tuttavia, la diffusione nell’area greco-romana del pensiero cristiano (e, in seguito, islamico) ebbe una profonda influenza sullo sviluppo delle conoscenze geologiche. Per lungo tempo non si registrano nuovi progressi: anzi, le ricerche e le conclusioni sulla storia e la struttura della Terra vengono quasi del tutto dimenticate o, se ritornano, sono impiegate per scopi specifici. Così fu per le idee sulla natura e sull’origine dei fossili: mentre, sulla scia della tradizione aristotelica, perdurava in molti la convinzione di una loro origine inorganica entro le rocce in cui venivano trovati, la loro origine organica veniva accettata e affermata dai Padri della Chiesa tra cui Tertulliano (155-222 d.C.), ma a sostegno della veridicità del racconto biblico del diluvio universale: le conchiglie trovate sui monti erano effettivamente resti di organismi vissuti nel passato in mare e trascinati sulla terraferma dal diluvio, di cui rappresentavano le tracce.

    La trama del discorso geologico, il cui disegno aveva cominciato a delinearsi, torna a farsi incerta e confusa: dalla fine dell’Impero Romano, per tutto il Medioevo e il Rinascimento e fino alle soglie del 1700 continuò la controversia sull’origine dei fossili (che per molti comprendevano anche i cristalli di minerali), tra coloro che, ispirandosi al pensiero di Aristotele, li consideravano tentativi non riusciti della vis plastica e, quindi, come prodotti di una generazione spontanea della vita, e quanti, invece li consideravano veri resti di organismi viventi, ma nel quadro della Teoria diluviale. In ogni caso risulta persa l’idea dell’alternarsi nel tempo, in un medesimo luogo, di mari e terre ‒ testimoniata proprio dai fossili ‒ come segno evidente di trasformazioni del pianeta. Non mancarono voci dissonanti, ma rimasero senza seguito.
    Il grande filosofo arabo persiano Avicenna (980-1037), che si ispirò ad Aristotele, descrisse l’origine delle montagne o per sollevamento del suolo, nei terremoti, o per effetto dell’erosione delle acque correnti, «che scavano i terreni molli lasciando prominenti le rocce più dure», mentre interpretò i fossili come resti di antichi organismi, senza riferimenti al diluvio. Più tardi, nel secolo XII, anche il monaco Ristoro d’Arezzo, in una summa della dottrina cosmologica del suo tempo, descrisse l’opera dell’erosione dell’acqua nel modellare valli e monti, ma riferì la presenza dei resti fossili all’opera del diluvio. Valerio Faventies (=di Faenza) concluse che i monti sono dovuti a terremoti, alle rocce più molli lungo le coste, a fuochi sotterranei, all’attrazione della Luna o delle stelle...

    Cominciano i primi tentativi di ipotesi sull’interno della Terra. Athanasius Kircher (1602-1680) immagina un esteso sistema di condotti (Pirofilacia) che alimentano i “fuochi” (i vulcani) e un analogo sistema di cavità e canali (Idrofilacia) che alimentano le acque superficiali. Cartesio (1596-1650) propone un modello della Terra formata da strati di materiali diversi. Ma sono ancora modelli speculativi 

    Precursori, ma non fondatori

    In quel panorama culturale, in cui le teorie naturalistiche appaiono ricche di speculazioni anche fantasiose, spesso lontane dall’osservazione e basate su una visione filosofica aprioristica, le conoscenze geologiche sfiorano l’occasione per fare un gran passo avanti.
    Leonardo da Vinci (1452-1519) si interessa in più occasioni degli aspetti «geologici» del mondo che lo circonda e trae le sue conclusioni da numerose osservazioni ed esperienze. Interpreta correttamente la natura dei fossili e le informazioni che se ne possono ricavare su fenomeni accaduti nel passato. Confuta con rigore le idee che le conchiglie si formino per qualche forza plasmatica del suolo o degli astri: non si potrebbero trovare insieme, in tal caso, resti di individui giovani e vecchi (che egli distingue – ed è il primo a farlo ‒ dal numero delle strie di accrescimento), né si avrebbero resti interi insieme a resti frantumati e mescolati a ossa o denti di pesci «se non fossero stati accumulati lungo un antico lido dalle onde del mare». Respinge la teoria diluviale con numerosi argomenti e conclude chiedendosi come avrebbero potuto dei molluschi, che, come è noto, sono meno veloci delle lumache, arrivare nei dintorni di Milano (dove aveva trovato numerose conchiglie fossili), a 400 km dal mare, nei 40 giorni che sarebbe durato il diluvio («come disse chi tenne il conto d’esso tempo»…)

    fig3  

    Leonardo riconosce la vera natura delle conchiglie nelle rocce...

    Ma la modernità di Leonardo, più che nelle conclusioni, che recuperano in modo nuovo e autorevole concetti un tempo già comparsi nel pensiero scientifico, è nell’approccio alla realtà fisica che lo circonda. Egli esamina l’oggetto o il fenomeno su cui vuol indagare e lo confronta con quanto di analogo si può osservare in atto oggi (i molluschi attuali, i loro ambienti di vita e così via). La sua mente, libera da pregiudizi, intuisce la continua trasformazione della superficie terrestre, ma le sue esperienze e osservazioni e la fantasia dell’artista lo portano ben oltre le immagini di Ovidio, verso visioni del passato geologico della Terra che sconcertano per l’audacia innovativa, come nella descrizione dell’antico Mediterraneo, quando «le cime dell’Appennino stavano in esso mare in forme di isole […] e sopra le pianura d’Italia, dove oggi volano li uccelli a torme, solean discorrere i pesci a grandi squadre». Egli vede quello che descrive, perché ha visto le prove sul terreno.

    Purtroppo, il disegno di Leonardo rimase troppo a lungo nascosto nei suoi manoscritti per essere fecondo e fu conosciuto solo quando, dopo oltre tre secoli, la Geologia aveva riscoperto per altre vie quelle stesse idee, divenute princìpi fondamentali. Nella trama delle conoscenze geologiche Leonardo rimane tuttavia come un precursore, e il faticoso progredire delle conoscenze geologiche va cercato altrove.

    Anche nel secolo successivo le conoscenze geologiche sfiorarono, ancora una volta, la possibilità di più rapidi progressi. Niccolò Stenone (1638-1686), medico danese, riconobbe chiaramente che gli strati di cui sono formate molte rocce che contengono fossili si sono deposti in acqua e che i fossili sono resti di organismi rimasti incorporati nei sedimenti: questo portava a concludere che i monti, più che essere stati coperti dalle acque, si erano formati essi stessi, strato su strato, sul fondo di un mare popolato di organismi viventi. Soggiornò a lungo nel nostro Paese, invitato dal Granduca Ferdinando II de' Medici,  la cui corte era allora il punto di incontro di alcuni dei più importanti scienziati del tempo, e Stenone, oltre agli studi anatomici, si interessò di mineralogia e di geologia.
    Le sue osservazioni sulle rocce della Toscana lo portarono a stabilire i principi in base ai quali è possibile ricostruire la storia della Terra, e che sono oggi alla base della stratigrafia (la parte della Geologia che studia l’origine e il significato delle successioni di strati che formano gran parte delle catene montuose). Di fatto, nella struttura delle grandi valli che ebbe modo di esaminare riconobbe una successione di eventi, nei quali si erano alternate fasi di formazione di rocce sedimentarie e fasi di deformazione delle medesime, a opera di “forze interne” alla Terra. Ricostruì in tal modo una lunga “storia geologica”, suggerita dalla natura delle diverse rocce e dai rapporti geometrici tra rocce più antiche e rocce successive. In definitiva, arrivò a proporre uno schema di evoluzione nel tempo di un settore della crosta terrestre: un’idea per quei tempi rivoluzionaria, contraria alla comune convinzione di una Terra stabile fin dalla sua creazione.

    fig4 
    Una storia geologica: successione di «stati diversi» nel tempo

    Scrisse una breve sintesi di quelle conclusioni, con il proposito di riprendere e approfondire in seguito l’argomento: ma quelle idee non ebbero diffusione, per il precoce ritirarsi di Stenone dalla ricerca (di fede luterana, nel 1675 si convertì al cattolicesimo e si dedicò interamente alla vita sacerdotale[5]); le sue conclusioni dovettero essere “riscoperte” un secolo dopo: egli rimane, tuttavia, un precursore illuminato, che aveva chiaramente intuito la via per cominciare a scoprire il vero volto della Terra.

    La trama torna più chiara: dopo una lunghissima gestazione, nasce la Geologia

    Prime luci dalla Germania...
    Nonostante l’“occasione” perduta dei grandi precursori, le idee che fosse possibile trarre informazioni dallo studio delle rocce e delle forme della superficie terrestre ricominciarono a farsi strada. Tra il ‘600 e il ‘700 la questione dell’origine e del significato dei fossili si risolve: tra gli altri, Robert Hooke (1635-1703) conferma l’origine biologica dei fossili, quindi si devono accettare grandi variazioni nel tempo della distribuzione delle terre e dei mari, i cui resti (le rocce sedimentarie delle montagne) contengono numerosissime testimonianze di forme di vita diverse, molte scomparse o sconosciute.

    Osservazioni sempre più diffuse e attente sulla struttura delle montagne, spesso nel corso di ricerche per lo sfruttamento di risorse minerarie, aprono la via all’idea che una regolare successione di rocce diverse, una sull’altra, indichi una successione di eventi, cioè una storia di mutamenti nel tempo della superficie terrestre (come aveva sostenuto Stenone). La scena di queste scoperte è nel cuore della Germania, nella pianura della Turingia, delimitata a nord dal massiccio montuoso dell’Harz e a sud dalle ultime propaggini del massiccio boemo. La sommità e il cuore dei massicci risultano formati da rocce dure, tenaci, senza strutture particolari, intensamente fratturate; i fianchi, che scendono a formare la pianura, sono costituiti, invece, da strati più teneri, di vari colori, soprattutto calcari e arenarie, in strati uniformi e regolari su grandi estensioni, come un mantello che riveste il nucleo massiccio.

    Johann Gottlob Lehmann (1719-1767) concluse che il nucleo dei monti, massiccio e privo di fossili, doveva risalire al tempo della creazione del mondo, e definì quei rilievi montagne primarie, mentre gli strati regolari, contenenti fossili, dovevano essersi deposti in acqua come sabbia e fango, che erano stati dilavati dai fianchi delle montagne primarie durante il Diluvio universale e poi si erano consolidati in rocce durante il ritiro delle acque; perciò definì quei rilievi montagne secondarie.
    È chiaro che, a parte l’interpretazione delle cause, Lehmann aveva compreso che nella storia della Terra si riconosceva una successione di eventi, ai quali si poteva risalire dalle testimonianze delle rocce: si stavano riscoprendo le conclusioni di Stenone. Non solo: nelle stesse zone, in modo indipendente, Christian Füchsel (1722-1773) giunse alle stesse conclusioni, ma andò oltre, scoprendo che molti strati erano caratterizzati da fossili specifici, il che permetteva di correlare, cioè collegare idealmente tratti di strati distanti tra loro; inoltre, studiò i processi di formazione di rocce oggi in atto, per interpretare rocce antiche, considerate come prodotti di processi simili svoltisi nel passato: il “metodo di lavoro” di Leonardo cominciava a venire riscoperto...

    La strada era aperta: il disegno della Terra cominciava a farsi più chiaro; ricordiamo, tra gli altri, il geologo veronese Giovanni Arduino, che nel 1758 ricostruì con grande dettaglio e precisione la successione di rocce lungo la Valle del Torrente Agno, tra Montecchio e Conca di Recoaro. In base alle sue numerose e originali ricerche nelle Alpi, Arduino arrivò a suddividere “la serie degli strati che compongono la corteccia visibile della terra... in quattro ordini generali e successivi”, preceduti da un’era primeva e corrispondenti al futuro concetto di ere geologiche; questi intervalli vennero da lui denominati, a cominciare dal più antico: PrimarioSecondarioTerziario e Quaternario, formatisi "non solo in tempi, ma anche in circostanze assai diverse”, e venivano definiti in base alle caratteristiche delle rocce e dei resti fossili in esse contenuti. La sua idea era che ciascuno di questi periodi fosse delimitato da fenomeni naturali, come alluvioni e glaciazioni.

    fig5 
    Arduino, stratigrafia della Valle dell’Agno, tra Montecchio e Conca di Recoaro (1758)

    Questo nuovo modo di “leggere le rocce” per ricostruire una storia diventa un paradigma, che si diffonde rapidamente tra i sempre più numerosi studiosi di geologia, termine introdotto nel 1603 dal grande naturalista Ulisse Aldrovandi.

    Nasce il Nettunismo
    Le conclusioni di Lehmann e di Füchsel, che riconoscevano una successione di avvenimenti nel tempo, con la formazione e il sollevamento di montagne seguiti dal deposito di strati di sedimenti fossiliferi, erano decisamente “moderne” nel panorama di allora, ma purtroppo furono ignorate. I tempi, però, erano maturi per questo nuovo sviluppo nel disegno della trama e lo scenario rimane in Germania; questa volta è protagonista il territorio intorno a Freiberg, in Sassonia, dove alcuni mercanti nel 1168 avevano scoperto rocce contenenti argento metallifero, dando inizio a un’attività che nei secoli aveva trasformato l’area in un fiorente distretto minerario; proprio a Freiberg nel ‘700 era attiva la Scuola mineraria presso la quale insegnava Abramo Werner (1749-1817), le cui lezioni venivano seguite da moltissimi allievi provenienti da Tutta Europa, per la loro “specializzazione” nelle discipline minerarie e per conoscere le nuove idee sulla formazione della crosta terrestre.

    Secondo la teoria nettunista, come venne definita, in uno stadio primitivo la Terra era formata da un nucleo solido di forma irregolare, completamente ricoperto da un oceano le cui acque contenevano in soluzione o in sospensione tutto il materiale che avrebbe formato la crosta. Il primo strato di materiali che si depositarono sul nucleo era formato dal ben noto granito, seguito da altre rocce simili, ma costituite da cristalli di minerali diversi; erano rocce massicce, prive di fossili, e vennero distinte come rocce primitive.

    fig6
    Werner: Schema dell’origine delle rocce secondo il Nettunismo.

    Lo strato che si depositò in seguito era formato da precipitati chimici e frammenti di rocce primitive: l’oceano si stava riducendo e qua e là le rocce primitive emergevano in forma di isole e venivano erose. I nuovi accumuli vennero distinti come rocce di transizione: apparivano inclinate (deposte su pendii), di aspetto scistoso, cioè si sfaldavano facilmente, e potevano contenere fossili.

    In seguito, l’oceano si abbassò ulteriormente e nuovi strati ricoprirono come un mantello i rilievi formati dalle rocce precedenti; comprendevano arenarie, calcari, giacimenti di carbone e molte di esse contenevano fossili (corrispondono alle montagne secondarie di Lehmann e Füchsel). Werner le distinse come rocce stratificate.

    Al di sopra delle rocce stratificate, si erano accumulati i depositi alluvionali, costituiti da ghiaie, sabbie e argille, prodotte per erosione delle rocce antiche da parte dei fiumi e abbandonate nelle zone più depresse, che erano divenute, così, ampie pianure.

    Come vedremo, questa ricostruzione non è priva di problemi nell’interpretazione dell’origine di alcune rocce, ma risultava chiaro, come diceva Werner, che «la nostra Terra è figlia del tempo ed è stata costruita per gradi». Le conclusioni di Leonardo e di Stenone cominciavano a venire riscoperte e il parametro tempo acquista importanza.

    Uno dei punti più critici era dovuto alla presenza di rocce vulcaniche, simili al ben noto basalto. Werner affermò, invece, che le rocce vulcaniche erano “accidenti della crosta terrestre recenti e trascurabili”, dovuti alla combustione occasionale nel sottosuolo di livelli di carbone che avevano prodotto la parziale fusione delle rocce con cui erano a contatto, in particolare arenarie.

    Altri studiosi avevano osservato che il basalto si formava per raffreddamento di lave che fluivano in superficie dal cratere di un vulcano. In particolare, Nicola Desmarest (1725-1815) aveva studiato sul terreno il distretto vulcanico dell’Alvernia, nella Francia centrale, e aveva visitato molte regioni con vulcani attivi, per cui dimostrò che i basalti non erano precipitati chimici, ma vere rocce vulcaniche. Quindi, ai “nettunisti”, sostenitori dell’origine di tutte le rocce sostanzialmente come precipitati chimici da un oceano, si opposero i “plutonisti”, che riconoscevano la grande importanza e diffusione delle rocce vulcaniche, cioè legate a processi in atto all’interno del pianeta, che doveva essere molto caldo.

    Leopold von Buch (1774-1853), il più illustre allievo di Werner, era fermamente convinto dell’origine sedimentaria dei basalti sostenuta dal suo maestro, ma quando visitò l’Alvernia e poi altre aree vulcaniche recenti o attive (“andate a vedere”, incitava Desmarest, che opponeva alle speculazioni a tavolino l’osservazione diretta sul terreno), rimase convinto della grande importanza dei processi che coinvolgevano l’intervento di magmi. Non solo, ma fu anche costretto a rinunciare all’idea che il granito, ritenuto da Werner la più antica tra le rocce primitive e formato per precipitazione chimica dalle acque dell’oceano prima che iniziasse la vita, poteva essere anche molto recente.
    Uno dei luoghi in cui osservò questa situazione fu sulle nostre Dolomiti, a Predazzo (Val di Fiemme), dove nel 1822 si era recato su invito del geologo vicentino Marzari Pencati (1779-1836) e dove ebbe modo di vedere una massa di granito appoggiato sopra dei calcari (roccia secondaria), che apparivano chiaramente trasformati in marmi (cioè una roccia metamorfica) dal contatto con materiale caldissimo. Von Buch tornò sul posto insieme al grande geografo Alexander Humboldt e alla fine fu costretto ad accettare le idee dei plutonisti.

    fig7
    Filoni di granito rosso attraversano rocce sedimentarie marine.

    Quindi, cadeva un punto fondamentale del nettunismo: il granito non è “la roccia primigenia” e può presentarsi ripetutamente nella storia della crosta terrestre; risale come magma dall’interno del pianeta, dove evidentemente possono formarsi ammassi di rocce fuse; quando si arresta nella sua salita, riscalda per grosse estensioni le rocce con cui è venuto a contatto e le trasforma (“rocce metamorfiche di contatto”), mentre lentamente si raffredda e forma un ammasso di granito (o di una roccia magmatica diversa, a seconda degli elementi chimici che il magma contiene).

    Grazie alle ricerche sul terreno sempre più estese e approfondite, il disegno della Terra si è fatto via via più complesso e la trama ha cominciato a rivelare una storia di modificazioni successive: si avvicina la necessità di tenere in considerazione un tempo geologico, cioè “adatto” a misurare la durata delle modificazioni che si cominciavano a intuire.

    In realtà, quando comparvero le prime idee su una storia “globale” della Terra, come quella proposta dal nettunismo, l’età della Terra non rappresentava un vero problema (se non per qualche isolato “precursore”): nell’area di diffusione del pensiero cristiano era infatti convinzione comune che il nostro pianeta avesse poco meno di 6000 anni, poiché si riteneva che avesse iniziato a esistere solo circa 4000 anni prima di Cristo.
    Ma come si era giunti a quei 4000 anni?

    Perché 4000 anni?
    La fonte di quella cronologia erano i testi della Bibbia, soprattutto la Bibbia dei 70, cioè la versione greca del testo originale ebraico realizzata dagli studiosi della biblioteca di Alessandria, al tempo di Tolomeo II (309-246 a C). La lingua greca, molto più diffusa di quella ebraica, favorì la lettura e lo studio dei testi che presentavano la lunga storia di eventi che avrebbero portato alla nascita di Gesù Cristo. Molti studiosi si dedicarono all’analisi e all’esegesi di quei testi, ma fu Sesto Giulio Africano (160-240), nato nell’attuale Libia, a ricostruire la prima cronologia della storia biblica, confrontando anche fonti greche, egiziane e persiane. Nelle sue Cronografie (221 d C) pose la nascita di Cristo 5500 anni dopo la creazione del mondo.

    Opera fondamentale fu, in seguito, quella di San Girolamo (374-420 d C), che realizzò la versione in latino della Bibbia (nota come Vulgata) e rivide i calcoli delle precedenti cronologie, ponendo la nascita di Cristo 5200 anni dopo la creazione.

    I tempi che seguirono, con le invasioni barbariche e la caduta dell’Impero Romano di Occidente, portarono a lunghi secoli in cui la conservazione delle conoscenze proseguì nei centri isolati dei monasteri. La trasmissione delle cronologie avvenne senza modifiche, ma nuovi studi ripresero con grande autorevolezza con la riforma di Martin Lutero (1483-1546), che sottolineò il valore della Bibbia come testo di riferimento anche storico: i suoi calcoli lo portarono a modificare quelli precedenti e a porre la creazione del mondo nel 3961 prima di Cristo.

    In seguito – siamo ormai prossimi alle conclusioni nettuniste di Werner – fu l’arcivescovo J. Ussher (1521-1656) a porre definitivamente l’origine della Terra nel 4004 avanti Cristo. (Le sue conclusioni si erano basate sui calcoli effettuati dall’astronomo Keplero, che a sua volta aveva seguìto Lutero).
    In questo contesto maturarono grandi progressi e nuove idee, in un diverso scenario rispetto a quello precedente: non più nel cuore della Germania ma tra Scozia e Inghilterra. Il passaggio al nuovo paradigma, però, non sarà facile, anzi, sarà segnato da forti contrasti di pensiero.

    James Hutton: La Terra è in continua trasformazione; deve essere molto antica, ben più di poche migliaia di anni! 

    Le conclusioni di von Buch non erano nuove, ma erano state già raggiunte e ampliate almeno 20 anni prima da James Hutton (1726-1797), nato a Edimburgo. Nella seconda metà del ’700 la città scozzese era nota come l’”Atene del Nord” per l’attività di centri di cultura come l’università, la scuola di medicina e la Philosophical Society, alle quali si aggiunse, nel 1783, la Royal Society di Edimburgo, per promuovere e diffondere un’eccellente preparazione nelle scienze e in filosofia, storia, letteratura. Un terreno culturale così fertile attirò numerosi studiosi e favorì confronti e stimoli per sviluppi decisivi in vari campi del sapere.

    Hutton si laureò in medicina (ma non esercitò mai); il suo interesse per la natura delle superficie terrestre si sviluppò nei diversi anni che dedicò alla cura di una tenuta agricola, da lui ereditata, studiando i suoli e raccogliendo osservazioni sulle rocce sedimentarie che affioravano nei dintorni, ma arricchì anche la sua esperienza sui graniti dei Monti Grampiani, nella Scozia centrale, come membro di una commissione tecnica. Quando, nel 1767, tornò a Edimburgo, ormai noto come esperto di suoli e di minerali, cominciò a partecipare a confronti e discussioni con numerosi esperti di varie discipline, finché nel 1785 fu invitato a presentare le sue idee ai membri della Royal Society, in una dissertazione Sul sistema della Terra, la sua durata e stabilità.

    A quel tempo anche a Edimburgo si era diffusa la teoria nettunista, che veniva insegnata e seguita nell’università, ma la lunga esperienza di osservazioni di terreno avevano portato Hutton a “leggere” le rocce sedimentarie in modo diverso; le rocce detritiche che affioravano ampiamente, come ghiaie, arenarie e simili, risultavano formate in mare, erano, cioè, le rocce secondarie dei nettunisti; ma, come mostrò Hutton, erano formate da frammenti di rocce anch’esse chiaramente formatesi in mare: quindi, bisogna ammettere che devono essere esistite altre rocce sedimentarie, più antiche, che, dopo la deposizione in mare, sono state sollevate e hanno formato nuove terre emerse; in seguito, i normali processi erosivi le hanno degradate e ridotte a minuscoli frammenti, che i fiumi hanno portato al mare per un nuovo ciclo di deposizione, finché un successivo sollevamento le ha portate a formare le attuali terre emerse.

    Queste conclusioni toglievano credibilità alla teoria nettunista, secondo la quale le rocce sedimentarie si erano formate via via in una serie continua dall’oceano originale, man mano che le acque andavano riducendosi (fenomeno, tra l’altro, non spiegato in modo convincente); quindi la formazione del mondo si era ormai conclusa e la superficie delle terre emerse era in lenta, continua consunzione, cioè veniva soltanto erosa e i detriti portati dai fiumi nei mari.

    La prospettiva offerta da Hutton era invece nettamente diversa: le terre emerse vengono erose, i detriti finiscono nei mari e si accumulano, formando rocce sedimentarie, ma poi forze interne al pianeta (secondo Hutton, il calore) ne provocano la deformazione e il sollevamento fino a farle emergere come nuove terre emerse, destinate, a loro volta, a essere erose. Come conseguenza, nuovi accumuli di rocce si depositano al largo delle coste dei mari, per essere in seguito deformate e sollevate in rilievi montuosi, a loro volta erosi e spianati, con trasporto di detriti in mare, e la storia si ripete. Si configura così, un ciclo, «senza più tracce di un inizio, né prospettive di una fine», come conclude Hutton stesso.

    Leggere le testimonianze del passato “scritte” nelle rocce
    La teoria nettunista veniva di fatto pesantemente smentita, ma la nuova teoria, insieme a espressioni di adesione, suscitò perplessità e forti dissensi. Hutton aveva ben chiari i punti della sua presentazione che avevano bisogno di maggiori documentazioni (“prove”), e iniziò una serie di ricognizioni sul terreno in numerose località della Scozia, accompagnato da alcuni studiosi suoi amici, tra i quali un artista capace di documentare con accurati disegni le prove di terreno. Nel giro di tre anni (1786-1788) raggiunse i suoi obiettivi, visitando diverse località della Scozia, dai versanti meridionali dei Monti Grampiani ai Bassopiani centrali.

    Esplorò tre località nelle quali affioravano ammassi di rocce granitiche, che mostravano senza alcun dubbio di essersi intruse dal basso entro rocce sedimentarie, facendole inarcare vistosamente: non solo, ma dalla massa principale di granito si dipartivano numerose “ramificazioni”, che corrispondevano a fessure lungo le quali il granito era penetrato come una “roccia liquida” ad alta temperatura, tanto da alterare chimicamente la roccia con cui venivano a contatto. In seguito, queste diramazioni verranno chiamate filoni e i graniti e rocce simili verranno definite magmatiche intrusive. Quegli affioramenti confermavano che i graniti (e rocce simili) si sono formate da rocce fuse (quindi, l’interno della Terra deve essere molto caldo), non per precipitazione dalle acque di un oceano; inoltre, si sono messe in posto più volte nel tempo (anche ora lo staranno facendo, in qualche parte della crosta terrestre) e non sono necessariamente rocce primitive.

    Il secondo obiettivo delle esplorazioni di Hutton era di trovare testimonianze di rocce sedimentarie formatesi ripetutamente in tempi diversi, quindi non secondo una rigida sequenza da un unico oceano primordiale in progressiva riduzione. In pratica, quello che Hutton contava di rintracciare erano rilievi formati da successioni di rocce sedimentarie con strati non tutti regolarmente paralleli tra loro, come prevedeva la teoria nettunista, ma dovevano apparire in “pacchi” con diversa geometria; per esempio, gli strati sottostanti nella successione (quindi, quelli formatisi prima) dovevano avere una giacitura diversa, cioè dovevano apparire inclinati o addirittura verticali, o anche arcuati in pieghe: in breve, risultare deformati da movimenti della crosta. Gli strati sovrastanti, depostisi successivamente, dovevano avere una geometria diversa, discordante rispetto a quella degli strati sottostanti: per esempio, dovevano apparire orizzontali, o anche inclinati, ma in modo diverso rispetto a quelli sottostanti.

    Fu quello che Hutton scoprì e fece rappresentare in precisi disegni, per future illustrazioni. Presso il confine meridionale della Scozia, seguì il corso di un fiume che, con la sua erosione, aveva inciso una profonda valle, mettendo in luce una sezione geologica naturale, che Hutton poté studiare in dettaglio, affacciandosi dal bordo del ripido versante su cui correva la strada e osservando la parete quasi verticale del versante opposto: in basso, dove scorreva il fiume, affioravano rocce sedimentarie con strati verticali, che nella parte alta del versante erano ricoperte in discordanza da altre rocce, ma in strati orizzontali. Stava osservando le testimonianze di due cicli diversi di formazione di rocce, separati da una fase di deformazione: le rocce del ciclo più antico (quelle sottostanti) erano state sottoposte a qualche forza per cui gli strati, in origine quasi orizzontali – l’unico modo in cui gli strati possono formarsi, sotto l’azione della gravità ‒ , erano divenuti verticali; e poiché apparivano bruscamente interrotti alla sommità dai segni dell’erosione, dovevano anche essere emersi. In seguito, però, il mare doveva aver nuovamente invaso l’area ed era iniziata la deposizione di un nuovo ciclo di rocce sedimentarie (quelle che apparivano orizzontali); anche questo ciclo, a sua volta, era stato interrotto da una nuova fase di deformazione, che aveva fatto emergere tutta la successione ora visibile. Ma la storia continua: l’incisione in atto da parte del fiume, con l’erosione delle rocce affioranti e il trasporto dei detriti verso i mari, indica che è già in corso un nuovo ciclo di formazione di altre rocce.

    Confortato da quelle testimonianze (che la teoria nettunista non poteva spiegare) e sapendo che a sud di Edimburgo, lungo il settore orientale delle pianure centrali, affioravano ampiamente due tipi di rocce sedimentarie molto diverse, a lui ben note, progettò un’esplorazione lungo le rive del Mare del Nord, seguendo in barca (con Sir James Hall, famoso chimico, e John Playfair, brillante matematico) la base delle alte scarpate (falesie), che da tempo l’erosione marina sta incidendo (e incide tuttora) in prossimità di Capo St. Abb. (Berwickshire). Quel taglio naturale, alto tra i 15 e i 25 metri, mette in luce per molti chilometri un’altra spettacolare sezione geologica, in particolare in prossimità di Siccar Point (oggi divenuta una località di pellegrinaggio “geologico”).

    Le ripide pareti sono formate da strati di una roccia di colore grigio scuro, da verticali a inclinati, fino a incurvati in pieghe. La roccia è nota come grovacca, e corrisponde a un’arenaria con granuli di quarzo mescolati a materiale argilloso molto fine, depostisi in mare (resti fossili). La sommità delle pareti è formata da strati di arenarie rossastre, in strati poco inclinati, nettamente discordanti rispetto a quelli sottostanti, e si sono depositati in un ambiente emerso arido, costellato di lagune.

    fig8 
    La discordanza angolare di Siccar Point; in basso, le fasi della formazione di una discordanza tra rocce di cicli diversi.

    Ancora una volta erano di fronte a testimonianze chiare e spettacolari di un frammento di una storia geologica antichissima, con cicli di formazione di rocce separati da fasi di deformazione, con emersione di rilievi, che ora sono attivamente erosi e verranno spianati, per essere in futuro nuovamente sommersi... 

    John Playfair ricordò in seguito: «Ci sentivamo inevitabilmente trasportati indietro nel tempo, a quando le rocce scure [=le grovacche], che ora apparivano con strati verticali, giacevano ancora sul fondo di un mare, e le arenarie di fronte a noi stavano iniziando a depositarsi, in forma di sabbia o fango, nelle acque di un oceano che avanzava su quelle rocce più antiche, raddrizzate ed erose. E un'epoca ancora più remota si presentò alla nostra mente, quando gli strati della più antica di queste rocce, invece di presentarsi raddrizzati fino alla verticale, erano ancora orizzontali, adagiati sul fondo del mare, non ancora deformati da quell'incommensurabile forza che poi esplose attraverso il solido pavimento del globo. Rivoluzioni ancora più remote apparivano nella distanza di questa prospettiva straordinaria. Cresceva lo stupore della nostra mente, come presa da vertigine nel guardare così lontano nell’abisso del tempo! ...» (Royal Society of Edinburg, 1805)

    James Hutton aveva avuto ragione. La natura e la storia della crosta terrestre si possono dedurre dalle rocce e molti studiosi lo avevano fatto, oltre ai precursori dimenticati. I nettunisti, per esempio, sostenevano che le rocce sedimentarie si erano formate via via nel tempo per precipitazione dalle acque di un oceano primitivo, ricoprendo le rocce granitiche primigenie. Ma non si erano spinti oltre nell’osservazione delle singole rocce, o non si erano fatti le domande “giuste”. Hutton aveva esaminato a lungo quelle rocce, le grovacche scure e le arenarie rosse, ampiamente diffuse in Scozia, e aveva studiato in modo specifico i suoli agricoli prodotti dall’erosione e dall’alterazione di quelle rocce. Aveva così osservato che gli strati scuri di grovacca erano rocce sedimentarie detritiche, cioè formate per accumulo di frammenti di altre rocce, evidentemente preesistenti, quindi più antiche; alcuni granuli erano minuscoli, fino a microscopici, altri erano ciottoli di varie dimensioni e contenevano spesso resti fossili di vari tipi. La conclusione fu che le grovacche si erano deposte in un mare nel quale arrivavano i granuli e i ciottoli trasportati dai fiumi che erodevano e modellavano una terra già emersa.

     
    fig9
    Evoluzione nel tempo di un tratto della crosta terrestre, secondo l’interpretazione di Hutton.

    Quei processi devono essere durati per tempi lunghissimi, vista la velocità di erosione dei fiumi attuali. Ma quel mare e quella terra cambiarono aspetto: movimenti della crosta, attivati da forze interne al pianeta, deformarono le grovacche, raddrizzando e incurvando gli strati e sollevandoli fino a far emergere nuove ampie distese continentali, con pianure e catene montuose. A quel punto, gli agenti erosivi iniziarono a modellare nuovi paesaggi, in funzione della posizione geografica e delle condizioni climatiche locali, e detriti sempre più abbondanti vennero trasportati verso le aree più depresse, come le pianure costiere e la piattaforma continentale, il cui “pavimento”, in affioramento o sul fondo del mare, era formato dalla sommità delle grovacche scure erose.

    L’esame moderno delle arenarie ha permesso di concludere che a quel tempo (circa 350 milioni di anni fa) l’area della futura Scozia era una fascia costiera emersa, arida, costellata di lagune. Le grovacche scure si erano formate molto prima, circa 400 milioni di anni fa). Hutton aveva insegnato a “leggere” concretamente la storia della Terra....

    fig10
    La “Grande discordanza” messa in luce dalla profonda incisione del Gran Canyon, nel Colorado.

    Un’eredità feconda: Charles Lyell e Charles Darwin

    Quando, nel 1788, tre anni dopo la presentazione alla Royal Society, uscì finalmente la stampa del testo della dissertazione Sul sistema della Terra, la sua durata e stabilità (nella quale, però, non era stato aggiunto alcun riferimento alle scoperte degli ultimi anni), una rivista largamente diffusa, dedicata a far conoscere novità e scoperte scientifiche, manifestò un fermo dissenso sulle conclusioni di Hutton. Un periodico scientifico, invece, liquidò Hutton come teorico dalle mire speculative, con pochi fatti a sostegno delle sue “favole filosofiche”. Solo una rivista dedicò una lunga recensione delle idee di Hutton, senza esprimersi né a favore né contro, ma riconoscendone il rigore scientifico. Inoltre, l’anno dopo uscì un volume sul regno minerale, al quale era stato aggiunto dall’autore (J. Williams) un lungo capitolo di pesante critica a Hutton, le cui idee di tempi lunghissimi «avrebbero condotto allo scetticismo, e da ultimo alla miscredenza e all’ateismo».

    Hutton non fu impressionato da quei giudizi negativi, anzi, dopo le recenti esplorazioni, nelle quali aveva avuto come testimoni illustri studiosi, iniziò la stesura di una versione ampliata del testo precedente della sua teoria, che fu pubblicata nel 1795 in due volumi, con il titolo La Teoria della Terra.

    Ma due anni dopo, James Hutton si spegneva, vinto da una dolorosa malattia che lo aveva a lungo tormentato.

    Nei suoi ultimi anni, Hutton sperò, forse, che la sua fatica finale potesse essere il suo testamento spirituale. Sfortunatamente, è stato spesso osservato, il suo modo di scrivere non era semplice e tantomeno accattivante, e furono veramente pochi a leggere i due volumi. L’eredità di Hutton, cioè la diffusione delle sue idee, fu dovuta al suo amico John Playfair, che gli era stato spesso compagno nelle ricognizioni di terreno, e che sapeva, dagli appunti e dalle carte lasciate da Hutton, quanti e quali argomenti avrebbe voluto ancora pubblicare. Scrisse, così, Illustrazioni della teoria huttoniana della Terra, che pubblicò nel 1802 in un grosso volume, nel quale presentava la teoria di Hutton con una serie di capitoli chiaramente illustrati, ai quali fece seguire molti altri capitoli come note e aggiunte su numerosi argomenti, facendo riferimento alle proprie esperienze insieme a Hutton e, successivamente, a esplorazioni condotte per proprio conto.

    Lo stile chiaro rendeva la presentazione accessibile e accattivante e le Illustrazioni furono un grande successo editoriale. Ma allora non servì molto alla causa di Hutton, di fronte alla forte ostilità dei nettunisti: d’altra parte, nell’Università di Edimburgo il corso di Geologia era tenuto da R. Jameson, un noto seguace di Werner, ed era il corso più frequentato al mondo in quella materia, il cui docente non perdeva occasione per criticare, mettendole spesso in ridicolo, le idee di Hutton.

    Con i primi decenni dell’‘800, però, nuove scoperte e nuove idee cominciarono a diffondersi e anche lo sfondo di queste vicende si ampliò a dimensioni europee. L’eredità di Hutton trovò chi seppe raccoglierla.

    Il fondatore della Geologia moderna
    Charles Lyell (1797-1875) nacque in Scozia l’anno in cui James Hutton si spense.
    Destinato a fare l’avvocato, si iscrisse all’Università di Oxford, ma si interessò di Geologia e seguì le lezioni di William Buckland, tra i fondatori della Geological Society di Londra (1807), le cui idee erano in linea con il nettunismo. Una volta laureato, si trasferì a Londra per proseguire i suoi studi, ma divenne membro della Geolgical Society e cominciò le sue ricerche sul terreno. Prese parte a diversi viaggi nell’Europa continentale, studiando le successioni di rocce che attraversava.

    Scoprì così strati di rocce di ambiente lacustre, quindi continentale, emerso, ricoperte da rocce di ambiente marino: cosa non spiegabile in termini nettunisti, visto che l’oceano primordiale si era ritirato una volta sola, in continuità, formando via via tutte le rocce sedimentarie. Inoltre, in un viaggio in Scozia, nel 1824, si fermò nella tenuta di James Hall, che volle accompagnare il giovane collega a Siccard Point, perché potesse vedere una classica discordanza tra cicli di rocce diverse.

    A quel punto, Lyell tornò a Londra ma dedicò tutta la sua attenzione all’opera di John Playfair, Illustrazioni della teoria huttoniana della Terra, e cominciò a pubblicare i primi risultati delle sue ricerche. Effettuò viaggi decisivi: in Alvernia, per esaminare i vulcani, ritenuti “irrilevanti” dai nettunisti; attraversò le imponenti strutture delle Alpi e percorse l’Italia, esaminando le diverse aree vulcaniche e fermandosi a esaminare i fenomeni vulcanici in atto nella zona vesuviana, dove riconobbe nella baia di Pozzuoli le tracce di movimenti verticali del suolo, verso l’alto e verso il basso, tuttora attivi. Sono solo alcuni esempi dei risultati delle sue ricerche, che si estesero anche alle Ande, raccogliendo le relazioni sui terremoti che accompagnavano sollevamenti di ampi tratti di quei grandi rilievi, e ad altri continenti. Nel 1830 pubblicò il primo volume dei suoi Principi di Geologia, Tentativo di spiegazione dei primi mutamenti della superficie terrestre, con riferimento alle cause attualmente agenti.

    fig11 
    Le colonne del “Serapeo” di Pozzuoli, immagine scelta come frontespizio del primo volume dei Principles of Geology di Lyell (1830).

    Nel 1832 e 1833 uscirono gli altri due volumi. L’opera partiva dai testi di Hutton e di Playfair e offriva la sintesi di una grande massa di ricerche, rigorosamente documentate, e costituiva i fondamenti della Geologia moderna: per oltre un secolo, con numerose edizioni, è stata punto di riferimento per studiosi della giovane disciplina.

    L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale richiede tempi molto lunghi...

    «Ho portato con me a bordo il primo volume dei Principles of Geology [di Lyell], che ho studiato attentamente: mi è stato di grande aiuto sotto molti punti di vista
    Così Charles Darwin (1809-1882) ricordava in tarda età la sua partenza con la nave Beagle per il suo viaggio di cinque anni (1832-1836) di esplorazione scientifica intorno alla Terra. Inoltre, aveva chiesto che gli venisse spedito al porto di Montevideo, in Uruguay (dove era prevista una lunga sosta della Beagle) il secondo volume dei Principles, la cui uscita era imminente.

    Darwin sapeva chi fosse stato Hutton: aveva frequentato per due anni (1825-1827) l’Università di Edimburgo per studiare medicina, ma i suoi interessi naturalistici lo avevano portato piuttosto a seguire le lezioni di Geologia, tenute da R. Jameson, nettunista e, come già ricordato, sprezzante nei confronti delle idee di Hutton. Si trasferì a Cambridge, dove si laureò (ma non praticò la professione), finché nel 1831 fu segnalato come naturalista di bordo per il viaggio della Beagle.

    Nei cinque anni del viaggio intorno al mondo (circa tre anni complessivi in numerose terre e 18 mesi in nave), ebbe modo di fare una splendida esperienza nel campo della biologia, ma effettuò un notevole lavoro di osservazione anche nel campo geologico. In una delle isole vulcaniche dell’arcipelago di Capo Verde, per esempio, poco all’interno dalla costa che stava esplorando scoprì una collina alta una decina di metri, di roccia vulcanica scura, ma con una fascia sommitale bianca, che risultò formata da innumerevoli resti di conchiglie e di cespi di coralli. Concluse che si doveva trattare di un tratto di costa coinvolto nel sollevamento del fondo del mare fino ad emergere, perfettamente conservato: quindi, non conseguenza di un evento catastrofico.

    Qualche anno dopo, nell’ottobre del 1835, nella fascia tropicale dell’Oceano Pacifico (in avvicinamento a Tahiti), osservò numerosi «anelli corallini che sorgono proprio a pelo dell’acqua e vengono detti atolli»; l’anno successivo, quando la Beagle entrò nell’Oceano Indiano e raggiunse le Isole Cocos (o Keeling), stabilì che poteva cercare di verificare le conclusioni di Lyell sull’origine delle isole coralline, che, nel secondo volume dei “Principi”, venivano interpretate come “incrostazioni” di coralli e altri organismi sulle pendici di isole vulcaniche sommerse. Le ricerche, condotte con numerosi scandagli lungo le ripide pendici esterne delle scogliere, misero in luce che le costruzioni coralline continuavano in profondità, ma solo fino a circa 35 metri i coralli erano vivi (è la massima profondità alla quale arriva luce sufficiente e indispensabile per la vita dei coralli coloniali), mentre più in profondità i resti degli organismi costruttori si mescolavano a sabbia fino a rimanerne sepolti. Darwin arrivò a concludere che gli atolli si sviluppano lungo le coste di isole di origine vulcanica, che, con l’estinguersi dell’attività, scendono sotto il livello del mare, per il lento sprofondamento del fondo oceanico. In entrambi i fenomeni citati, Darwin constatò che il nettunismo non poteva fornire nessuna spiegazione, mentre le idee di Hutton, sostenute da Lyell, prevedevano proprio una Terra in continua attività.

     fig12
    L’origine degli atolli corallini, secondo Darwin.

    Questo tema era ben presente nelle sue ricerche e lo coinvolse fortemente quando la Beagle si ancorò al largo di Valdivia, lungo la costa meridionale del Cile: il 20 febbraio 1835 Darwin sbarcò e mentre stava preparandosi per esplorare le pendici dei rilievi andini sperimentò direttamente l’effetto di un violento terremoto, con epicentro vicino alla cittadina di Concepción, 300 km più a Nord, ed era stato accompagnato, dopo circa 30 minuti, da gigantesche onde di maremoto. Quando la Beagle raggiunse la baia vicino a Concepción videro gli effetti disastrosi: la cittadina era stata totalmente distrutta, le vittime erano state numerosissime, oltre 300 forti scosse in dodici giorni. Tra gli effetti, Darwin osservò che lungo la costa, sopra il limite dell’alta marea, il suolo era incrostato di molluschi che vivono in acque basse: era evidente, la terra si era sollevata di quasi un metro!

    Dall’esperienza del terremoto di Valdivia e Concepción e dalle osservazioni sulle Ande (che attraversò in più punti) concluse che la formazione delle montagne doveva essere una conseguenza di piccoli movimenti (come quello del terremoto sperimentato) che si ripetono per tempi lunghissimi.[6]

    Quando, durante la lunga sosta nelle Isole Galapagos, le osservazioni nel campo della biologia cominciarono a suggerire le domande che lo avrebbero portato, qualche anno dopo, a formulare la sua teoria “Sull’origine delle specie”, Darwin aveva già in mente una Terra dinamica, la cui superficie era sottoposta a continui mutamenti, alcuni rapidi, come terremoti ed eruzioni vulcaniche, altri impercettibili, causati da processi naturali, come erosione dei fiumi sulle terre emerse e del mare lungo le coste; come conseguenza, concludeva, interi settori della crosta terrestre tendevano periodicamente a sollevarsi, fino ad emergere, e altri ad abbassarsi, fino a venire sommersi dalle acque. E tutto questo richiedeva, evidentemente, tempi molto lunghi, necessari, anzi, indispensabili per i processi di evoluzione cui stava pensando.

    La “rivoluzione” di Hutton: il ciclo geologico
    A metà degli anni ’30 dell’Ottocento, il nettunista Buckland aveva rinunciato al Diluvio universale per spiegare la formazione di rocce, mentre Jameson era arrivato ad accettare, sia pure con riluttanza, le concezioni di Hutton e di Lyell.

    La «rivoluzione huttoniana» aveva vinto; la Geologia, «libera» da catastrofi e oceani universali, poteva ormai dedicarsi a cercare di ricostruire cosa fosse accaduto sulla Terra in un tempo così incredibilmente lungo, con l’impiego di un nuovo, potente strumento concettuale: il ciclo geologico o ciclo di Hutton, costituito da tre fasi successive:
    LITOGENESI   in un dato settore della crosta terrestre, nel corso di milioni di anni, si vanno accumulando grossi spessori di rocce sedimentarie, in un bacino marino il cui fondo è in lento sprofondamento;
    OROGENESI  movimenti profondi, che coinvolgono anche il mantello terrestre, deformano quel settore di crosta con pieghe e faglie: nel giro di qualche decina di milioni di anni, si solleva una catena montuosa;
    GLIPTOGENESI (o EROSIONE)   appena la crosta in deformazione si solleva sopra il livello del mare inizia l’erosione nelle sua varie forme: attraverso molti milioni di anni di “competizione” tra sollevamento ed erosione, il rilievo finisce per venire ampiamente spianato.
    Quando quel settore, sempre in risposta a movimenti interni al pianeta, comincerà a sprofondare, il mare tornerà a invaderlo e sui nuovi fondali cominceranno a depositarsi le rocce di un nuovo ciclo...

    E tutto questo da un passato lontanissimo, verso un futuro ancora più lontano: “senza tracce di un inizio, né prospettiva di una fine”, come scriveva Hutton...

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    Una suggestiva immagine della continua evoluzione della superficie della Terra attraverso il tempo, evocata dalle profonde intuizioni di Hutton.

    Tra le successioni di rocce di due cicli resterà, come segno vistoso, una superficie di discontinuità, una “discordanza angolare” simile a quella di Siccard Point, ma estesa per centinaia di km, come la spettacolare Grande discordanza che si vede con straordinaria evidenza lungo le pareti della gola del Gran Canyon del Colorado, negli Stati Uniti.

    CRONOMETRIA: contare gli anni

    La scoperta del ciclo geologico ha fornito lo strumento per ricostruire la storia della Terra. Ricerche allargate via via a tutti i continenti hanno portato a riconoscere numerosi cicli, diversi per estensione e distribuzione geografica, per spessori e tipi di rocce coinvolte, per rapporti geometrici (per esempio, resti di un ciclo ricoperti da testimonianze di un altro ciclo, quindi successivo).

    Il lungo e tenace lavoro di correlazione, cioè di collegamento tra cicli riconosciuti in continenti diversi, ha portato a ricostruire un mosaico ormai completo della struttura geologica della crosta terrestre e a compilare una cronologia, cioè a mettere in ordine in un’unica sequenza tutti i cicli, a partire dalle rocce che sono geometricamente sotto tutte le altre, quindi sono le più antiche, via via fino a quelle appena formate, cioè le più giovani.

    In nessuna parte della superficie della Terra affiora in continuità tutta la sequenza, ma i vari continenti sono formati da porzioni più o meno estese della sequenza. E questo ci porta a una delle grandi scoperte della Geologia moderna: i continenti non sono sempre stati come li conosciamo oggi, né hanno sempre avuto la posizione geografica attuale; non basta: solo in tempi piuttosto recenti, e con l’uso di mezzi e tecnologie nuovi abbiamo letteralmente “scoperto” la crosta oceanica, ben diversa da quella dei continenti: ma questa è un’altra storia.

    Torniamo alla sequenza delle rocce della crosta continentale. Come in un libro vengono distinte delle parti, ciascuna articolata in capitoli, a loro volta suddivisi in paragrafi, così nella storia della Terra si riconoscono Eóni, divisi in Ere, articolate in Periodi. Ogni evento, ogni mutamento della superficie terrestre riconosciuto, ogni testimonianza fossile si colloca in qualche tratto di questa lunghissima cronologia.

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    Carta Cronostratigrafica Internazionale, realizzata e aggiornata periodicamente dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia (edizione 2018).

    Per poter inserire in questa storia dei numeri che indicassero gli anni trascorsi dal verificarsi di un evento a oggi o quelli della durata di un’era o di un periodo, è stato però necessario che la Fisica nucleare facesse alcune scoperte fondamentali, come la radioattività naturale di certi minerali, il decadimento radioattivo e, soprattutto, il decadimento radioattivo a tasso costante. Tra fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento i metodi di datazione radiometrica hanno fatto continui progressi e oggi l’abisso del tempo scoperto da Hutton ha i suoi punti di riferimento: la storia della Terra è iniziata 4,6 miliardi di anni fa, l’Era mesozoica, dominata dai grandi rettili, è iniziata 252 milioni di anni fa ed è durata 186 milioni di anni, e così via, periodo dopo periodo.

    E tutto questo, come ci insegna l’Astronomia moderna, è solo una parte del tempo dell’Universo, che ci porta indietro, a oltre 13 miliardi di anni fa ...

     Note bibliografiche
    [1] Di questo volume è stata realizzata una ristampa anastatica nel 1989, da Zanichelli Ed.
    [2] Discorso XV, 5-6; per maggiori conoscenze, si veda: Samyutta Nikaya (Discorsi in gruppi),a cura di Vincenzo Talamo, Astrolabio Ubaldini Ed., 1998
    [3] Ovidio, Le Metamorfosi, libro XV, vv. 262-264; Rizzoli, 1999
    [4] Le latomie sono antiche cave di pietra per costruzione, scavate in massicci rocciosi calcarei con tecniche particolari, fino alla profondità di molti metri; molto diffuse in Sicilia (famose quelle di Siracusa). Tale sfruttamento iniziò probabilmente nel V secolo a.C. e le cave furono utilizzate fino all’epoca romana.
    [5] Stenone fu sepolto a Firenze, nella Basilica di S. Lorenzo; nel 1988 è stato proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II
    [6] Dopo il rientro a Londra, Darwin scrisse “Sulla connessione che esiste tra certi fenomeni vulcanici nel Sud America, e sulla formazione di catene di montagne e di vulcani, come effetti della stessa forza che solleva i continenti”. (nel 2010, nella stessa area, si è avuto un violento terremoto, con Mw 8,8 e ipocentro a 35 km di profondità).

    Conferenza tenuta il 25 ottobre 2019, nell'ambito del Ciclo "La Parola Tempo", promossa da NUTRIRSI in collaborazione con DSU, Dipartimento Scienze umane e sociali, Patrimonio culturale - CNR
    Museo Macro Asilo, via Nizza 138, ROMA. Ottobre-Dicembre 2019