PROFUMO DI PASSATO
In una cronaca di Napoli del 1898, in occasione di uno dei ritorni di Francesco Paolo Tosti nella città della sua formazione, Matilde Serao ne parlava in questi termini: “Ah, egli è sempre per noi, per tutti, l’autore di quelle appassionate romanze che sono Carmela e Dopo!..., che sono Vorrei morire! e Malia, l’autore di quelle romanze aggraziate, delicate che sono L’Ideale, L’Aprile, Chanson à Ninon, l’autore di quel pensiero musicale All’alba che ha in sé tutto l’ardore segreto di un sogno, tutta la delusione della realtà, ma il suo spirito d’arte si è sollevato a regioni più chiare e fresche e serene […] gli domandammo che ci ripetesse i suoi più antichi trionfi, gli cercammo, avidamente, che ci ridonasse, nel canto delle sue vecchie cose, di quelle che hanno fatto e che rifanno, anche adesso, il giro del mondo, le impressioni degli anni trascorsi e nella immaginazione e nella memoria, noi le ritrovammo, vivaci e limpide, come allora”.
Il giudizio di una scrittrice in fatto di musica non è evidentemente da prendere alla lettera. Vi traspare immancabilmente non l’analisi dell’opera ma il suo uso, il suo modo di entrare biograficamente nella vita di ognuno con un significato che, più che riguardare l’opera in sé, riguarda un genere specifico, quello della romanza da salotto.
Matilde Serao, Eleonora Duse, Francesco Paolo Tosti, Adolfo De Bonis e (forse) Tristan Bernard. Nizza, marzo 1897. Inventario Primoli
Per la scrittrice la musica non è in fondo un prodotto d’autore vero e proprio, bensì un tramite tra l’ascoltatore e la realtà, quella immanente o quella trascorsa, come risulta dalla disinvoltura con cui Tosti viene accostato ad alcuni grandi della musica: “Ma infinitamente cara a tutte le anime dolenti, sarà quella Serenatella mesta di cui solo il titolo diminuisce la importanza musicale […] A tutte le anime dolenti, io dico, poiché in questa Serenatella vi è quell’ineffabile di tristezza musicale che vi tira dal cuore agli occhi le lacrime più nascoste, vi è quel senso intimo di dolore che solo i grandi malinconici come Chopin e Schumann seppero condensare in poche frasi musicali, vi è quella bellezza triste e affascinante di cui parla Baudelaire: sois belle et sois triste. E, a quella purissima dolorosa musica, in quel pomeriggio di primavera, parve che tutto trascolorasse, in fondo a quel giardino, e che tutti i fiori languissero, come le anime languivano”.
A misurare la disparità di giudizio tra la posizione di chi si appella alla visione letteraria e quella dell’osservatore di formazione musicologica varrà il modo in cui il London Times chiudeva nel 1916 il suo necrologio: “la sua musica ebbe una popolarità più vasta che profonda”, dove è facile capire che non è alla profondità del vissuto che si faceva riferimento ma a quella dei valori musicali autonomi, che la cultura musicale del tempo intendeva secondo il modello tedesco, severo e chiuso, incapace di concedersi a qualsiasi divagazione di frivolezza.
La musica da salotto era soprattutto espressione della realtà sociale, più che intellettuale, e quando questo ambiente sociale venne meno, essa perse il suo valore.
In verità all’epoca risulta che la critica musicale lo accolse per certi versi con entusiasmo. Persino Filippo Filippi, l’autorevole critico milanese che fa testo in tutte le indagini riguardanti la recezione dell’operismo del tempo, non fece mancare l’attenzione alle romanze tostiane, con interventi analitici rivelanti una considerazione che va al di là di ciò che dovrebbe comportare una semplice musica d’uso:
“La preghiera, sulle belle strofe di Giuseppe Giusti, è una cantilena larga che va crescendo con effetto, e mi pare scritta benissimo per la voce: non molto nuova, nelle prime battute c’è un sentore di Shubert, poi di Gounod. La melodia Sull’alba è molto più Tostiana: la forma è nuova, l’armonia accurata, alle volte anzi ricercata, come nella terza battuta della quinta pagina quegli accordi un po’ ostici, che fanno moto contrario col canto. Bellissima la Visione, e col violoncello deve riescire di un effetto ideale; le prime battute calme, quasi parlate, mi ricordano vagamente il soliloquio di Margherita nell’atto della prigione del Mefistofele. Il canto è quasi sempre declamato e lo accompagna una dolcissima melodia in mi maggiore”.
La romanza non era quindi un semplice oggetto di passatempo, ma argomento di discussione e di confronto, cioè era partecipe di un momento di civiltà che probabilmente era condannato al tramonto per il semplice fatto di rappresentare il prolungamento di un modello di vita aristocratico, un pezzo di ‘ancien régime’ per intenderci, sopravvivente in un secolo ormai democratico che, con l’avvento della società di massa dopo la prima guerra mondiale, sarebbe stato completamente esautorato. Era un destino segnato, di cui la musica non solo reca la traccia quando è tentata dal tendere verso i modi esornativi ma di cui la critica più avveduta del tempo avevagià preso coscienza, come dimostra G. A. Biaggi in un articolo del 1886 nel discutere sulla popolarità di Tosti:
“Questa popolarità è giustificata: giacché egli ha saputo crearsi uno stile, ha trovato una linea di mezzo fra la canzonetta francese e la romanza; un genere di componimento tutto suo che ha la spigliatezza, la leggerezza, il quasi-parlando della canzone senza averne la volgarità, ed ha tutta la grazia, la eleganza, il gusto delle persone ammodo; una maniera di composizione che ricorda la leggiadria dell’antico minuetto e i gabinetti tutti fiori e profumi delle eleganti del secolo XVIII”.
In questo senso è importante anche la considerazione del modo di cantare di Tosti. Ricordava Filippi: “Se le cose di Tosti avessero bisogno di réclame certo non potrebbero sognarne una migliore che d’esser cantate da lui: i mezzi vocali del compositore non sono potenti, ma l’incanto della sua dizione può difficilmente essere uguagliato”. In proposito andrebbe ricordato come Verdi, richiesto da un musicista tedesco di indicargli un insegnante di canto con cui perfezionarsi in Italia, gli facesse il nome di Tosti, inteso come preservatore della tradizione belcantistica, dal fraseggio morbido, sinuoso e attento alle sfumature. Il fatto che tale tecnica fosse destinata a soccombere con l’affermarsi della plateale vocalità veristica è un argomento in più per individuare il canto salottiero come il depositario di una civiltà dalla forte componente retrospettiva che, se non ha potuto contribuire direttamente al ‘progresso’ della musica verso il Novecento, mantiene un suo grado di essenzialità per la comprensione delle molte facce del secolo che lo precede.