• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Pagliacci, novità e successo

    Parole a non finire si potrebbero ancora spendere sul valore programmatico di Pagliacci e del ben noto prologo che dichiara i principî del Verismo in musica.

     

    Dato e non concesso che l’intenzione fosse quella di modellare una specie di opera-manifesto, nelle parole che Leoncavallo mette in bocca a Tonio quando il sipario è ancora chiuso possiamo cogliere un passaggio significativo: “Egli [l’autore] ha per massima sol che l’artista è un uom / e che per gli uomini scrivere ei deve”, parole che forse danno la spiegazione più semplice delle ragioni e del successo di un’operazione che, a partire dalla rappresentazione del 21 maggio 1892 al Teatro Dal Verme di Milano diretta da Arturo Toscanini, in capo a pochi anni vide questo breve saggio di teatro musicale installarsi sulle scene di ogni teatro di ogni paese.

    A dispetto dei detrattori che si interrogavano sulla corrispondenza tra intenzioni e risultato, sulla fondatezza di un’estetica veristica in musica, e via dicendo, Pagliacci colpiva ogni volta nel segno soggiogando il pubblico a tutte le latitudini. Stando alle predizioni dei critici un lavoro tanto “antiestetico” non avrebbe retto alle insidie del tempo. In particolare, dopo la rappresentazione parigina del 1902, sembrava che non rimanesse più nessun argomento di difesa per un lavoro ritenuto completamente inadatto a rappresentare il fermento culturale del tempo. Debussy ne denunciava la “grossolanità” che ”mandava a passeggio le più piccole preoccupazioni artistiche”, mentre Ricciotto Canudo parlava di opera “priva di senso artistico e ripugnante”. Viceversa, di fronte alla marcia trionfale che accompagnava Pagliacci da un teatro all’altro, al di là e al di qua dell’oceano, risultava che tutto l’apparato intellettualistico messo in atto per sbarrare il suo cammino non aveva incidenza alcuna sulla coscienza degli spettatori, i quali non ammettevano altre ragioni oltre quelle del loro istinto e dei loro bisogni.

    Probabilmente non aveva incidenza alcuna nemmeno il prologo, in cui è dichiarata l’intenzione di “pingervi uno squarcio di vita” e in cui la coerenza tra intenzione e risultato era riscontrabile solo nel sottolineare nell’opera d’arte la funzione di un uomo che scrive per altri uomini, cioè il primato della comunicazione in una fase in cui l’opera teatrale era chiamata a difendere la sua posizione di genere epicamente radicato in un contesto organico di civiltà con la dimostrazione di esserne in qualche modo la summa. Tale perlomeno dopo Wagner parve il compito degli operisti, anche di quelli che gli si contrapponevano e che nelle loro diverse realtà nazionali si impegnavano a trarne i succhi più fecondi. Nella rappresentatività del proprio lavoro destinato a risuonare in teatri intesi come templi, luoghi di edificazione della moltitudine, essi erano diventati una categoria di artisti ai quali era concesso e richiesto di agire come grandi sacerdoti, nonché di riunire al meglio l’energia creativa di tutte le discipline dell’espressione per alimentare un progetto capace di moltiplicare l’esito di ciascuna. Leoncavallo stesso ne aveva preso coscienza al punto da ambire, prima ancora di essersi affermato, a gratificare il proprio paese di un’epopea che faceva capo ai Medici, in cui storia politica e genio artistico sifondevano emblematicamente, prima stazione di una trilogia mai completata dedicata alle glorie d’Italia. Era la propaggine di un processo che accompagna la storia dell’opera lungo tutto il suo cammino, fin dall’origine fiorentina come attuazione di un ideale letterario classicamente volto a restaurare i portenti dell’antica teatralità, passando per le riforme settecentesche impegnate ad acquisire a ciò che sembrava essere diventato solo una frivola manifestazione canora i vantaggi dei valori drammatici approfonditi sul versante della ricerca letteraria, su fino a Wagner nel cui modello drammatico è celebrata la pretesa di assicurare al teatro musicale la funzione di innalzare le coscienze nel rituale del riconoscimento di un patrimonio di civiltà da preservare e nell’ascetica responsabilità di resistere al pretesto edonistico.

    Ogni tappa di questo processo, prevalentemente inteso come trasferimento di nozioni maturate in campo letterario, fu corredata da un apparato di teorizzazione più o meno cospicuo e ingombrante. Ciò non avvenne nel caso del Verismo, che pure giunse a estrinsecarsi in musica e a configurarvi l’assetto estetico ben più tardi della sua manifestazione avvenuta nel romanzo e nell’arte figurativa. Non solo l’avvento di Cavalleria rusticana (1890), per quanto fondata sulla trasposizione teatrale della novella di Giovanni Verga, non fu il risultato dell’elaborazione di un programma artistico globale corroborato dal collaudo letterario, ma persino le cinque opere composte da Alfred Bruneau su altrettanti soggetti di Émile Zola non furono sufficienti a evidenziare un rapporto organico tra i due campi artistici. Con tutto quanto di contraddittorio e di incompatibile era possibile rilevare tra concezione naturalistica e linguaggio musicale, tra l’esigenza della precisazione illustrativa e la difficoltà della musica di documentare la fattualità, con tutta la materia del dibattere posta in atto non solo non troviamo musicisti in prima fila a fornirci le risposte alle domande in sospeso, ma nemmeno gli scrittori beneficiari di questa sorta di appello alla letteratura. Paradossalmente la musica fu oggetto di riflessione più per i poeti dell’area simbolistica, la quale non si estrinsecò al pari del Verismo in una categoria musicale vera e propria. Il Verismo in musica fu quindi una tendenza senza teoria e senza organizzazione, senza una figura guida e senza un programma preciso, che, per essere stato tale, rivela una nuova situazione nel modo in cui si impongono e si modificano i modelli musicali.

    A capire i termini della questione ci può aiutare il testo del prologo di Pagliacci, non in ciò che di scontato vi si sostiene riguardo alla condizione umana dell’attore, bensì nel verso già citato in cui si menziona l’artista come “un uom / e [che] per gli uomini scrivere ei deve”. Il concetto, in sé banale e scontato, assume rilievo e importanza alla luce del sistema operistico del tempo, che aveva visto entrare in scena sempre più prepotentemente gli editori nel ruolo programmatico che precedentemente era assegnato agli impresari e ai direttori di teatro. Era la logica del mercato, che sempre ci fu e di cui l’impresario era la manifestazione palese in campo musicale, ma che nella società del capitalismo industriale fece sentire ben diversamente il suo peso per il quadro allargato in cui si configurava. Tra l’impresario e l’editore c’è la stessa differenza che passa tra un commerciante e un finanziere, nel senso che mentre il primo è impegnato a tenere sotto controllo una rete limitata di clienti alla ricerca del profitto immediato che gli viene dalle operazioni di scambio, il secondo ne prescinde agendo in visione strategica, cioè individuando ciò che è meritevole di investimento onde farlo fruttare su sala più ampia. Mentre il primo agisce come distributore di beni in un contesto stabilizzato, il secondo è colui che, valutando l’affacciarsi di nuove esigenze, le promuove fino a lanciare prodotti capaci di modificare i comportamenti della clientela.

    Il mercato all’interno del quale era governato il sistema operistico alla fine dell’Ottocento si reggeva su una borghesia consolidata e soprattutto acculturata, nel senso che il frequentatore del teatro d’opera era anche lettore di romanzi e di poesie, visitatore di mostre di pittura, ecc., in grado di apprezzare nell’un contesto l’allusione all’altro e viceversa. Quante poesie ottocentesche, o romanzi, parlano di musica o di musicisti? Quanti quadri da Fantin-Latour a Max Klinger evocano in immagini il suono di precise situazioni musicali di Wagner o di Brahms? La musica vi partecipava attivamente traducendo in suono il mito letterario di Goethe o ricavando soggetti operistici dai fortunati romanzi di Walter Scott. Era inevitabile a un certo punto che vi si rispecchiassero anche dibattiti estetici che già alimentavano la pubblicistica e che, prima di costituire occasione di chiarimento sulle scelte artistiche relative (cioè come confronto di idee), valevano come mobilitazione di energie intellettuali diffuse fra il pubblico, individuato in una sua dinamica di partecipazione al fatto culturale, non più visto come destinatario passivo dell’opera d’arte, ma considerato in qualche modo associabile al suo progetto. Se si giunse a parlare di Verismo in musica, ciò è dovuto a tale dinamica, a una sorta di motivazione dal basso che non si accontentava più di sancire, registrandoli, gli indirizzi artistici su cui i musicisti si incamminavano, ma che era impegnata a stabilire confronti, a fornire indicazioni, a interpretare la presenza di determinate linee-forza, in una parola a manifestare la presenza di un articolato e animato tessuto di aspettative che, in una determinata congiuinzione, potevano anche imporre norme e linee di comportamento, partecipando dall’esterno al processo creativo. Il Verismo musicale non esisterebbe senza questo collante, senza un campo d’azione in cui i singoli suoi momenti qualificanti si sono potuti collocare, hanno trovato relazioni tra di loro, con il contesto letterario, ecc., e beneficiato del delineamento di una coerenza che, prima ancora di essere l’emanazione della propria struttura interna, era il risultato di ciò che le veniva attribuito dal contesto.

    Nel privilegiare la comunicazione da uomo-artista a uomo-spettatore Leoncavallo mostrava la consapevolezza di trovarsi di fronte allo stato di complicità che lega il creatore al fruitore in un rapporto di necessità, non solo determinato dalla sua dipendenza funzionale nell’organizzazione della distribuzione del prodotto artistico, ma delineato anche a livello di concezione. Fu probabilmente quello il momento in cui l’editoria mutò la sua strategia (meglio, provvide a dotarsi di una strategia), cominciando a tastare il polso al pubblico, a rilevare orientamenti di interesse e a tenerne conto nelle scelte. Il modo in cui Ricordi spianò la via a Puccini è lì a dimostrarlo, così come il modo di sfruttarne il successo in funzione del consolidamento di una modalità di comunicazione piccolo borghese. Le scelte sbagliate di Mascagni dimostrano che, al di fuori di quella complicità, un sistema complesso come quello operistico non potesse più reggersi, mentre la mutevolezza di Leoncavallo, con i suoi continui capovolgimenti di fronte, è probabilmente la conseguenza di averne tenuto troppo conto, di essere cioè sceso ad adeguarsi fino all’esigenza minuta e spesso effimera, cioè incapace di costituire il riferimento per scelte durature. Resta il fatto che, nel suo definire l’artista uomo al pari dello spettatore, egli rovesciava il rapporto che si era imposto con l’affermazione dell’artista-demiurgo, nei confronti del quale il pubblico si compiaceva di stare in posizione riverente e soggiogata, posizione che continuerà ad essere ammessa e su cui tutta l’arte moderna fonderà il suo credo, ma che non potrà più essere esclusiva.

    L’opera veristica dunque non ha origini intellettualistiche ma integra semplicemente al tronco melodrammatico una serie di dati atti a collegarla alla problematica aperta sulla questione del realismo, argomento di vivaci dibattiti ancora in corso, tendenti a coinvolgere anche la musica in un discorso che altrimenti le sarebbe rimasto estraneo. Dalla pratica del naturalismo letterario essa prendeva gli elementi esteriori del pittoresco, ma significativamente, come ha notato il Dahlhaus, non giungeva mai fino a diventare strumento di critica sociale: l’elemento di colore era in un certo senso un diversivo più che un dato realistico di rappresentazione, al punto che l’opera veristica anziché essere un veicolo di estetica naturalistica, con tutto ciò che poteva significare in termini di denuncia dell’ordine sociale responsabile della miserabilità delle situazioni umane rappresentate, veniva a costituire un’operazione esorcistica capace di trasformare la brutalità delle condizioni portate sulla scena nel caratteristico, nell’elemento peculiare di un modo d’essere estrapolato dal suo contesto ed esibito al compiacimento della ricerca dell’originalità. L’introduzione del quadro d’ambiente, il moltiplicarsi degli episodi corali, più che mezzo per riprodurre la condizione di popolo nella sua quotidiana lotta per la vita, diventava occasione di idealizzazione spesso attraverso il gioco, come avviene appunto fra i villani che fanno da cornice alla tragedia sviluppata in Pagliacci, soprattutto il ”coro delle campane” con l’insistenza sull’intonazione onomatopeica, non a caso presa a bersaglio da non pochi commentatori, che è la parte del lavoro ammiccante in modo più scoperto a quella porzione consistente di pubblico alla ricerca di novità ma nel quadro scontato di una cultura media, in cui la problematica del realismo confluiva insieme con gli altri fattori a un livello di superficie.

    D’altra parte l’integrazione di elementi popolareggianti, privilegiando il riferimento ai caratteri delle espressioni centro-meridionali dove domina il fattore lirico (stornello, ecc.) di contro al fattore epico-narrativo prevalente nell’Italia del nord (ballata, ecc.), consentiva alle scelte “veristiche” di Leoncavallo, Mascagni e compagni, di inserirsi linearmente sul tronco melodrammatico italiano, dove la forza del dramma, la manifestazione dell’azione, non è mai riuscita a prevalere sull’espressione dell’affetto. In questo senso la continuità lirica è riconoscibile anche nel quadro d’ambiente, in particolare nella precipitosa animazione corale con cui si apre il secondo atto di Pagliacci, nel quale assistiamo al trambusto del pubblico che si accalca sul luogo in cui i saltimbanchi si apprestano a dare la rappresentazione. Lì infatti, alla prosaicità degli elementi esteriori (il richiamo della tromba di Peppe, le esclamazioni del pubblico, ecc.), fa da sfondo l’orchestra la quale in definitiva non partecipa alla concitazione ma, nell’ininterrotta linea melodica e nella chiara intonazione stornellante, assume la funzione del canto spiegato nel momento in cui le voci risultano impegnate ad altro scopo. Se, in altro contesto, alla disposizione affettiva del canto fa da contrappeso l’orchestra (alla cui concitazione è affidata la specificazione del movimento in cui le singole unità liriche si collocano), nell’opera veristica la perdita di coerenza lirica della parola cantata (piegata dagli accadimenti a una somma di interiezioni e di esclamazioni come manifestazione deterministica di sollecitazione nervosa allo stato fisico), è compensata dal recupero della funzione ‘affettiva’ da parte dell’orchestra. Ciò spiega il costituirsi della categoria dell’’intermezzo’ (in Pagliacci quello che divide il primo dal secondo atto), dove l’orchestra, che nella tradizione operistica rappresenta il richiamo agli accadimenti esteriori della vicenda (lo è sempre l’ouverture nel suo prorompere, od occasionali brani strumentali intermedi quali i momenti danzati o quelli descrittivi, come la grande battaglia evocata da Čaikovskij in Mazeppa), si sottrae al corso dell’azione per sollecitare l’attenzione a livello del sentimento fermato nel tempo. È come se, di fronte a una struttura tendente a sbilanciarsi troppo verso il fronte drammatico, si imponesse il riequilibrio rinforzando il polo lirico, ciò che comunque implica il riconoscimento dell’asse costitutivo del melodramma italiano e quindi l’inquadramento dell’opera veristica come una variante del vecchio tronco. Da questo punto di vista tale nuova stagione creativa può essere vista, anche a causa dell’assenza di una teorizzazione programmatica, come la manifestazione di un processo determinato dal basso, dal radicamento del modello melodrammatico italiano nella coscienza estetica collettiva in grado di condizionare tutte le successive ipotesi di teatro musicale. Pagliacci ne è un punto emergente, così come nell’immagine dall’artista asservito (“La gente paga e rider vuole qua [...] Ridi, pagliaccio e ognun applaudirà”) vi è adombrata la consapevolezza di una realtà di mercato in cui, per quanto celebrata, l’arte non è libera ma sottomessa alla logica del consenso. In che misura Leoncavallo ne dipendesse è dimostrato da Pagliacci, nel riuscito equilibrio tra innovazione e popolarità, e altrove da una serie di appuntamenti mancati probabilmente proprio per il fatto di averlo cercato troppo. Se la ricerca del successo a volte facile ne ha offuscato gli obiettivi, l’estensione del suo campo d’azione (dall’opera alla musica di intrattenimento, dalla romanza al prodotto discografico, dall’operetta alla musica cinematografica, ecc.) rivela nel compositore napoletano l’artista reattivo alle condizioni di una nuova epoca, alla ricerca di una ragion d’essere che, se non è individuabile in un equilibrato programma d’azione, ne fa una personalità meritevole di essere indagata in quella molteplicità di aspetti che ancora costituiscono la comunicazione nell’insieme delle arti dello spettacolo.