• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Orazio Vecchi, Selva di varia ricreazione

    “SELVA dico dunque per non seguire in essa un filo continuato, così veggiamo nelle Selve gli arbori posti senza quell’ordine che ne gli artificiosi giardini veder si suole”.

    L’intenzione di Orazio Vecchi dichiarata in capo alla Selva di varia ricreazione (1590) suona programmatica di un atteggiamento trasgressivo che ancor oggi fa del compositore modenese una figura anomala, appartata nel pur frastagliato filone madrigalistico cinquecentesco. Restìo a sottomettersi a disciplina di regolate proporzioni, quando fa il suo ingresso nell’artificioso giardino del madrigale classicistico egli più che aderirvi è portato a restituirlo in sottile e quintessenziale parodia. Qualcuno ha addirittura parlato nel suo caso di “antimadrigale”, probabilmente echeggiando il concetto di “antirinascimento” inteso come rivendicazione di libertà che non si lascia incanalare in norma trasparente e che alla regola dominante oppone la costanza di un atteggiamento in grado di agire a livello subalterno di civiltà, sia come manifestazione di arcaiche sopravvivenze di ispirazione popolaresca sia come progetto alternativo, meno formalizzato e addirittura carico di anticipazione.

    “Et havendo altresì giunto in uno lo stil serio col famigliare, il grave col faceto, e col danzevole, dovrà nascerne quella varietà, di che tanto il mondo gode”.

    La vita come mescolanza di situazioni ai limiti del bizzarro, non l’ordinato procedere su un predisposto cammino: la curiosità del musicista lo sospinge a saggiare l’inedito piacere dell’esperimento, della commistione di espressioni ritenute incompatibili tra di loro. Nella sua Selva madrigali sfilano accanto a canzonette, capricci si intrecciano con arie, dialoghi esaltanti la vocalità rispondono a fantasie strumentali senza parole, intonazioni di danze contrappuntano serenate, fino ad arrivare alla concezione di un madrigale a “diversi linguaggi”, saggio paradigmatico di ‘musica al quadrato’ in cui Vecchi, su cinque parti già messe in musica da Marenzio in cui agiscono in palese plurilinguismo Franceschina, Girometta, Zanni, Magnifico e Tedesco, giunge a intrigare con quattro voci posteriormente applicate, estendendo la disputa a Scolare, Pedante, “Fate ben per voi” e Graziano.

    “So bene che per aventura, alcuni potrebbono al primo incontro, questi miei Capricci, bassi e leggieri stimare, ma sappino questi che altro tanto di grazie, d’arte, e di natura ci vuole a far bene una parte ridicola in Comedia, quanto a fare un vecchio prudente e savio, e non sanno che al Musico sta bene alcuna volta col canto grave, il famigliare inserire prendendosi l’essempio dai Poeti, che se bene la Tragedia deve star dentro a suoi termini, non servendosi delle parole domestiche della Comedia, ne questa di quella, dice Horatio nell’arte poetica:

    "Spesso aviene però ch’alza la voce
    Il Comico, e ragiona alcuna volta
    Il Tragico con voce umile e bassa”

    Il richiamo al teatro non è casuale: la Selva sperimenta le modalità del rapporto drammatico che prenderà corpo nella dimensione di scena immaginaria (ma pur sempre scena) dell’Amfiparnaso (1597) e delle Veglie di Siena (1604), vere e proprie “comedie harmoniche” (l’Amfiparnaso in particolare ispirato alla commedia delle maschere). Un rapporto diretto tra Vecchi e la commedia dell’arte in verità non esiste, né nel senso dell’adattabilità della sua musica a quel tipo di azione scenica né nel senso che le sue commedie madrigalesche costituiscano la trasposizione di quell’esperienza in termini di teatro musicale. Esiste invece un’esigenza di rompere i lirici confini dell’immacolata visione petrarchesca fatta propria dalla consuetudine madrigalistica che porta Vecchi a cogliere attraverso le figure della commedia dell’arte metafore meno ineffabili di vita vissuta. Dalla serrata sostanza dialogica della commedia delle maschere egli ricava i tratti realistici di uno stile dove tuttavia l’aspetto mimetico non arriva mai a prevalere. Il tentativo dell’Amfiparnaso di rappresentare “sotto diverse persone tutte le attioni dell’huomo privato” rivela innanzitutto l’ambizione di individuare la quintessenza della natura umana al di là degli accadimenti. In secondo luogo è fondamentale il suo rifiuto di sciogliere palesemente in dialogo diretto le maglie della sua polifonia, che, al contrario, la sua musica esalta non tanto come adesione ad aulici modelli contrappuntistici quanto come fedeltà a una visione estetica di tipo contemplativo. Il concetto di “spettacolo [che] si mira con la mente, dov’entra per le orecchie, e non per gli occhi” (Amfiparnaso), escludendo la partecipazione visiva alla rappresentazione, sottrae l’ascoltatore al rapporto di immediato coinvolgimento. La sua musica non esisterebbe senza i lazzi di Zanni, i deliqui di Isabella, le spacconate del Capitan spagnolo, i brontolii di Pantalone, i sospiri di Lucio, che vi si rispecchiano tuttavia in gesto vocale sintetico e mediato. L’ambizione di mettere in opera fatti e personaggi “come specchio dell’humana vita” (Amfiparnaso) non conduce alla rappresentazione diretta, bensì al suo riflesso (specchio appunto) in una trama vocale non tanto autonoma (poiché il compositore dimostra capacità di muoversi disinvoltamente fra spunti compositi) quanto in grado di fornire all’autore un filtro alla rappresentazione del reale e di situarlo in posizione di distaccata osservazione dai casi verso i quali non gli è lecito nutrire altro che sentimento di ironia. Spettatore di vicende esilaranti, di beffe iperboliche, di amorosi incantamenti, di smodate facezie, egli non ne può ricavare che il senso di un’articolazione di eventi destinati a figurare in musica per la capacità di comporre un quadro armonico (nel senso appunto di “comedia harmonica”), non solo quindi intesa come trasposizione di un’azione in termini musicali ma anche come rispecchiamento dello stesso polifonico fluire dei casi della vita. L’invito di Vecchi agli spettatori “d’essere ascoltatori, et non giudici” e ad imparare “che molti sanno opporre, et pochi comporre” (Amfiparnaso), proprio in nome della musica rivendica l’atteggiamento della contemplazione come principio estetico situandosi perfettamente al centro della problematica rinascimentale, nonostante la consapevolezza di poter essere frainteso dagli stessi contemporanei sorpresi dall’originalità della proposta:

    “non ho composto questo mio Amfiparnaso ne per gli indotti temerarij, ne per li dotti severi, perché quelli non intendono, et questi non degnano”.

    ORAZIOVECCHI

    L’ascolto della Selva di varia ricreazione è quindi un invito a rilevare l’accostamento di due diversi registri, quello riferito alla rappresentazione vera e propria e quello della sua distillazione musicale, richiedente una chiave di lettura smaliziata capace di leggere tra le righe e di comprendere il significato di un’operazione di alta raffinatezza.

    Alla ricerca di un’unità fra opposte ipotesi espressive (la tradizione madrigalistica e la nascente teatralità del melodramma) messe in opera nella piena coscienza di attraversare una stagione di civiltà declinante di fronte a un’altra che stava per sorgere, Orazio Vecchi mantiene fede al supremo ideale polifonico lasciandovi il segno di una profonda riflessione sui fondamenti stilistici della propria musica, condividendo con ciò da specola tutt’affatto originale il travaglio estetico di un’epoca manieristicamente risolta a saggiare la portata delle sue risorse comunicative.