• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Max Bruch, Concerto in sol minore op.26

    La prima impressione che prova colui che si trovi ad ascoltare la più fortunata composizione di Max Bruch è che questo canto sensuale di violino sia sgorgato immediato, già conchiuso da un felice momento creativo.

    In realtà il Concerto op. 26 procurò non pochi grattacapi al giovane compositore che iniziò a scriverlo nel 1864 e che, dopo innumerevoli ritocchi, riuscì a portarne a termine la stesura nel 1867. Il destino radioso di questa composizione universalmente nota e apprezzata è infatti inverso alle preoccupazioni arrecate al musicista il quale, data la situazione dei diritti d’autore in quell’epoca, fu tra l’altro compensato assai scarsamente del suo capolavoro da parte degli editori, non mancando spesso di rammaricarsene nel suo epistolario. Già durante la laboriosa composizione le numerose esitazioni, dovute al fatto di inoltrarsi in un terreno all’apparenza a lui poco congeniale, furono rincarate dallo scoramento provocatogli dall’amico Hermann Levi a cui chiese consiglio. Il celebre direttore d’orchestra, brahmsiano convinto, di fronte allo scarso interesse dell’amico per le complesse elaborazioni tematiche, cercava insistentemente di indirizzarlo verso modelli inadatti alla sua indole. Per giunta la consulenza del celebre violinista Joseph Joachim, a cui il concerto sarà dedicato e che ne diventerà il portabandiera, se da un lato servì ad aggiornare la parte solistica dell’opera provocò malintesi destinati ad amareggiare gli ultimi anni del compositore. Quando infatti nel 1912 venne pubblicata la corrispondenza di Joachim, Max Bruch fece di tutto affinché non vi apparissero le lettere in cui venivano suggerite le modifiche che furono adottate nella stesura della parte di violino del concerto. Al vecchio musicista, la cui vasta produzione era caduta nell’oblìo, sembrava che tali indiscrezioni lo privassero dei maggiori meriti della composizione dell’unica sua opera sopravvissuta, amata e odiata nello stesso tempo. Uno scherzo del destino aveva fatto sì che un compositore autore di una lunga serie di oratori e di cantate, di musica corale e persino di opere teatrali - il quale durante tutta la vita era andato dichiarando ripetutamente di non essere particolarmente dotato per la musica strumentale poiché la sua naturale aspirazione lo indirizzava alla musica vocale - assistesse al misconoscimento di ciò che pensava la sua parte migliore e alla celebrazione di quell’unicum spuntato proprio sul terreno in cui egli si sentiva meno sicuro. In verità il successo del primo concerto per violino diventò per lui quasi un’ossessione e, se dapprima il moltiplicarsi delle esecuzioni lo rallegrerà e gli dimostrerà la giustezza delle sue convinzioni nella sfida lanciata a Hermann Levi, in seguito non riuscirà più a fargli sopportare le frequenti visite di sconosciuti violinisti che si recavano da lui per ascoltare il suo giudizio sulle loro interpretazioni del concerto. In un epigramma umoristico inviato a Philipp Spitta, Bruch giunse persino a concepire un divieto di polizia che per tranquillizzare gli animi in pena proibiva severamente l’esecuzione del suo Allerwelts-Concert. Nonostante ciò l’esistenza di altri due concerti, di una Romanza, di una Fantasia, di un Adagio appassionato, di una Serenata e di un Konzertstück (tutti per violino e orchestra) testimoniano l’ostinazione del giocatore che tenta di rifarsi al gioco ritentando la stessa buona carta, ma ormai senza più successo. L’analisi di queste composizioni rivela la patetica sconfitta di un artista rimasto vittima dei luoghi comuni da lui stesso creati, gli stessi luoghi comuni che portarono al fallimento gli imitatori. Max Bruch in realtà con l’op. 26 non solo aveva scoperto una buona carta, ma l’aveva giocata fin troppo bene. Individuato il segreto della freschezza che aveva reso possibile la felice riuscita del Concerto di Mendelssohn, il maestro renano ne semplificò la tipologia riducendo il tutto a canto, individuato tra il gesto retorico e la sconsolatezza. Ciò che ben comprese il musicista fu la possibilità di svelare nello strumento solista la sua natura di canto, la capacità di personificare se stesso.

    Tuttavia le riserve di Levi sulle manchevolezze nell’elaborazione tematica di Bruch sono vere solo in parte. L’intreccio è in realtà sapiente ed articolato in modo interessante: il cupo si bem.-sol ripetuto dei bassi che contrappunta il tema principale del primo movimento ad esempio ammicca spesso durante il primo movimento stimolando rimandi e indovinate operazioni di memoria, mentre ai temi vengono spesso affiancati controsoggetti che rivelano meditate strutture. Tuttavia tale dispiegamento di mezzi non conduce ad appurare nuovi orizzonti formali, bensì è posto in funzione quasi «scenica» con lo scopo di apportare più ricche sfumature psicologiche destinate a dare maggiore rilievo al violino, da questo punto di vista inteso come personaggio. La significativa consulenza di Joachim, che assicurò alla parte solistica l’adeguamento alle più moderne conquiste del virtuosismo strumentale (ma è da sottolineare il fatto che Bruch sollecitò consigli anche di altri violinisti, in particolare di Ferdinand David), non interessa solo come fatto di integrazione stilistica. Le sue conseguenze si svelano nella dimensione nuova in cui si trova ad agire la parte solistica che riduce l’intera compagine strumentale al suo servizio, obbligando talvolta le parti orchestrali ad adottare le stesse sue movenze virtuosistiche con effetti dirompenti sulla struttura sinfonica di cui ormai resta ben poco. Nel Concerto di Bruch si instaura un nuovo equilibrio come se dal racconto in terza persona (tale ad esempio si può ancora definire in gran parte il Concerto di Mendelssohn) si fosse passati al racconto in prima persona, con la riduzione di molteplici punti di vista a uno soltanto. Pur esistendo la possibilità di analizzare l’opera con lo strumento classico della forma sonata, qui essa non conta più come tale, essendo intesa semmai come logica sovrastrutturale. Da questo momento in poi infatti le deroghe alla forma ereditata non si contano più, mentre sovrabbondanti emergenze tematiche, divagazioni e code stanno ad indicare un’urgenza di nuovo tipo. Ma d’ora in poi sarà indispensabile un’invenzione sempre meglio caratterizzata in ciò che essa saprà intuire e se ciò conferma la natura di capolavoro dell’op. 26 spiega pure il logorio dell’immaginazione nelle successive meno fortunate composizioni violinistiche di Max Bruch, dove il supporto di una forma ricalcata non basterà più a controbilanciare le carenze inventive.