• Diario d'ascolto
  • 7 Ottobre 2019

    LA SFIDA DI VIVALDI

      Carlo Piccardi

    Fra gli autori che hanno avuto giustizia solo nel Novecento figura certamente Antonio Vivaldi, il cui nome ha cominciato a installarsi nei repertori grazie all’azione di isolati ricercatori (Arnold Schering, Marc Pincherle) e alle iniziative dell’Accademia Chigiana di Siena a partire dal 1939. È quindi da meno di un secolo che, dietro il suo nome, ha preso corpo la nozione di una musica che oggi sovrasta prepotentemente qualsiasi altra manifestazione del Settecento italiano.

     

    Con ciò Vivaldi è diventato popolare e ha preso la rivincita mettendo a sua volta in ombra i nomi di Corelli, Albinoni, Torelli e superando nelle vendite discografiche mostri sacri quali Pergolesi e Scarlatti.
    Nondimeno alcuni pregiudizi intorno alla sua figura continuano sotterraneamente a circolare. Mi riferisco in particolare alla nota sortita di Stravinsky, il quale osò sostenere che il Prete rosso sarebbe stato “colui che ha scritto quattrocento volte lo stesso concerto”.
    In verità un certo modo di vederne i limiti si era manifestato persino all’epoca sua, quando i successi editoriali arrisi alle sue opere strumentali in tutta Europa non fugavano i dubbi che rimanevano nelle menti di personaggi rappresentativi, del calibro di Goldoni ad esempio, il quale lo considerava “eccellente violinista e mediocre compositore”. Sennonché un compositore è considerato cattivo non solo quanto lo è realmente, ma anche quando la sua scrittura non rispetta le regole imposte dalla consuetudine. 

     VIVALDI
    Antonio Vivaldi

    Ed è proprio a quest’ultimo livello che occorre situare Vivaldi, il cui rilievo storico sta proprio nell’aver segnato il confine di un’epoca, sciogliendo la scrittura musicale dai residui speculativi di una concezione dottrinale che ancora pretendeva la musica come manifestazione dell’ordine cosmico attraverso l’arte del contrappunto. Vivaldi non solo alle regole del contrappunto spesso trasgrediva, ma osava finanche negare il contrappunto stesso come principio, nell’instaurazione di lunghi passaggi all’unisono o di accompagnamenti al tema (“basso a tamburo”) di puro riferimento atmosferico e apparentemente privati di valore costruttivo.

    Dopo avergli fatto visita nel 1739 il musicografo francese De Brosses ne riportò l’impressione di “un vecchio con una prodigiosa smania di comporre”: è una testimonianza preziosa e significativa che mostra un artista agente fuori del controllo di ciò che si conviene, sospinto da un’urgenza che prevale sul rispetto della norma. La sua presenza come esecutore al violino non poteva lasciare senza turbamento, proprio per l’estremizzazione delle risorse con cui non esitava a rompere l’equilibrio dei modelli attesi.
    Ce lo riporta il diario di un mercante francofortese (Johann Friedrich Armand von Uffenbach) in visita a Venezia nel 1715: 
    "Verso la fine Vivaldi suonò un a solo – splendido – cui fece seguire una cadenza, che davvero mi sbalordì, perché un simile modo di suonare non c’è mai stato né potrà mai esserci: faceva salire le dita fino al punto che la distanza d’un filo lo separava dal ponticello, non lasciando il minimo spazio per l’archetto – e questo su tutte e quattro le corde con imitazioni e con velocità incredibile. Con ciò stupiva tutti, ma non posso dire di averne tratto godimento, perché non era così piacevole da udire quanto era abile nell’esecuzione".

    Facile sarebbe d’altronde tracciare un’equivalenza tra questa sua tendenza all’arbitrio e la condizione di vita, di prete consacrato che non diceva messa (per supposti ma non ben precisati motivi di salute), che andava in giro per l’Europa in compagnia di due cantatrici al limite dello scandalo, il quale, senza voler sfidare la società, viveva la propria vita all’insegna della sregolatezza.
    Orbene, un simile personaggio, che pochi avrebbero osato additare ad esempio, suscitò l’interesse di Johann Sebastian Bach il quale, senza muoversi dalla sua cittadella luterana, raggiunto dal successo continentale dell’Estro armonico, ne ripercorse la capricciosa scrittura derivandone trascrizioni per organo e per clavicembalo con orchestra.

    BACH
    Johann Sebastian Bach

    Quello che più conta in questo caso però non è l’identificazione da parte del compositore tedesco della grande efflorescenza inventiva del Nostro, bensì della sua ferma capacità costruttiva. Ce lo ha testimoniato il biografo Forkel, mostrando Bach preoccupato di non cadere nelle ovvietà di scrittura tipiche dei “compositori con le dita (ovvero ussari della tastiera, come Bach li chiamava)”, coloro cioè i quali lasciavano “che le dita dettassero loro che cosa scrivere, anziché dir loro stessi alle dita cosa suonare”. Orbene, racconta Forkel, in questa necessità di "portare ordine, coerenza e corrispondenza fra le idee […] i concerti per violino di Vivaldi, da poco apparsi, facevano al caso suo. Li udiva lodare spesso quali musiche eccellenti, al punto che gli venne la felice idea di arrangiarli per il suo clavier. Studiò in che modo vi si trattassero le idee, studiò la mutua correlazione di queste, lo schema seguito nella modulazione e molte altre caratteristiche. L’adattamento d’idee e figurazioni concepite per il violino ma inadatte alla tastiera gli insegnò per di più a pensare in termini musicali, cosicché quando ebbe finito non aveva più bisogno di trarre le idee dalle dita, ma al contrario le concepiva, già prima, nella sua immaginazione.

    Ciò che a Goldoni pareva una carenza del compositore (le irregolarità fraseologiche, le rotture di simmetria, le brusche modulazioni, l’estremizzazione della dinamica, ecc.) proprio per un grande contrappuntista quale fu Bach costituivano i valori di Vivaldi, sicuramente in quanto il tedesco era sì un formidabile conservatore della tradizione ma con l’impegno e la responsabilità di porla all’altezza del tempo e di svolgerla nelle sue potenzialità anticipando addirittura traguardi futuri. 

     GOLDONI
    Carlo Goldoni

    Come in ogni epoca anche allora ogni artista innovativo si trovava a fare i conti con i parrucconi. Vivaldi (in compagnia di Alberti, Locatelli e Tessarini) fu additato da Charles Avison fra i compositori “che hanno errato nell’eccedere in una modulazione non naturale”; al che William Hayes, docente di musica a Oxford, insorse prendendo le difese del musicista veneziano, ammettendo che lo si potesse criticare per “frivolezza e manierismo”, ma non per mancanza di rigore che, oltre a onorare come principio, avrebbe saputo applicare magistralmente nella fuga del Concerto op. 3 n. 11.

     VIVALDI CONCERTO INIZIO FUGA

    FUGA 2

    FUGA 3

    Antonio Vivaldi, Concerto op. 3 numero 11, Inizio della Fuga

    In verità tali tensioni di giudizio non sono altro che l’indice di un passaggio epocale, della fine di un’epoca che alla musica assegnava ancora un compito equilibratore delle emozioni secondo un ideale di società statico, ma ormai già confrontata con una realtà aperta alle regole della concorrenza e che all’individuo era costretta a lasciare uno spazio di libertà che con Vivaldi si traduceva addirittura in atto di sfida. La tensione degli intervalli estesi, l’ossessività ritmica, lo spregiudicato impiego della dissonanza, l’apparente rottura di continuità attraverso le pause, l’uso di accompagnamenti spezzati dove il frammento ha un doppio significato (in sé e in rapporto con la più ampia componente strutturale), il frequente contrasto fra maggiore e minore, sono tutti elementi di un concetto compositivo inneggiante alla libertà individuale, i quali, unitamente alla presa di coscienza (che con lui si avvia a essere definitiva) della dimensione sonora in quanto tale (su cui si fonda la tecnica di orchestrazione in quanto realizzazione acustica dell’immaginario pulsionale), sono ormai disposti a diventare il fondamento della moderna sensibilità musicale borghese.