• Diario d'ascolto
  • 10 Giugno 2015

    Krzysztof Penderecki: Magnificat

      Carlo Piccardi

    Impostosi prepotentemente all’inizio degli anni sessanta con Anaklasis (1959-1960) e Threni alle vittime di Hiroshima (1959-1961), svelando capacità sbalorditive nel trattamento ‘materico’ degli strumenti ad arco,

    Krzysztof Penderecki fu tra i primi compositori d’avanguardia a guadagnarsi l’interesse di un pubblico più vasto, notoriamente diffidente verso gli esponenti che avevano invece legato la loro reputazione, ai festival specializzati della musica contemporanea.
    La Passione secondo Luca, eseguita per la prima volta nel 1966 come celebrazione del 700° anniversario del duomo di Münster, è probabilmente da considerare la prima composizione d’avanguardia ad aver goduto una fortuna pari ai capolavori più rappresentativi dell’anteguerra.
    La consacrazione di Penderecki non va però vista semplicemente come affermazione integrale di una poetica per lungo tempo rimasta ibernata nelle cittadelle della nuovamusica. La ‘popolarità’ della Passione non riguarda infatti tanto il suo destino quanto piuttosto i termini entro cui si svolge il suo discorso, già all’origine impostato come recupero di rituali comunicativi che l’avanguardia aveva altezzosamente aborrito. La possente mole della composizione, dove i più inquietanti ritrovati del linguaggio degli esperimenti vengono adattati all’esigenza di una drammatizzazione del testo memore dell’antica tradizione oratoriale nella magniloquente dimensione di grande affresco didascalico, già rappresentava la resa all’immota realtà della comunicazione delle testimonianze artistiche che la società contemporanea ha conservato in tutta la solidità delle sue strutture e funzioni e che anni di sperimentalismi non è riuscito ad abbattere. E sull’onda del consenso riacquistato crebbe d’intensità la vocazione religiosa che spinse Penderecki a produrre una lunga serie di opere sinfonico-corali, tutte o quasi composte per circostanze celebrative e all’intenzione di committenti d’eccezione (l’ONU, ecc.). 

    Che si tratti di una mutazione di qualità, benché il compositore neghi sdegnosamente tale affermazione, è fuori dubbio, anche se apparentemente l’attività di Penderecki continua a svilupparsi su due piani distinti che si pretendono dialettici. Quasi parallelamente al Magnificat è nata infatti la Partita strumentale dove è fatto sfoggio di soluzioni aperte e in cui l’urgenza espressiva è sospesa di fronte al riemergere dell’interesse per una ricerca sulla materia sonora senza preclusioni, in linea con l’imperativo che all’epoca degli esordi aveva prodotto, oltre i capolavori citati, Polymorphia (1961). Ma ciò che allora si configurava come momento di verifica di direzioni spalancate verso spazi inesplorati, nelle opere successive si presentava come provocazione maldestra di colui che pretende di rifarsi una verginità. Le chitarre elettriche, che (dopo le sensazionalistiche applicazioni jazzistiche di Actions, 1971), attraverso le consunte formule d’improvvisazione di un jazz ormai storicizzato, tentano di portare nuova lena all’impresa di tenere in vita un concetto sempre meno credibile di musica aleatoria, non bastano a salvare le apparenze; come non basta, lo sperimentalismo di ritorno dell’arrabbiata scrittura violinistica del Capriccio (1967) frammentariamente articolato e incapace di ritrovare quei punti focali da cui si dipartiva il filo del discorso esplorativo dei primi esperimenti.
    Nessun inganno allora poteva infatti destare l’assunto contenutistico della composizione per coro e percussione Dai salmi di Davide (1958), coerente più che mai nel rifuggire dall’andamento oratorio e capace di impostare con disponibilità sciolta da pretese proclamatorie un’attualissima integrazione di portati linguistici di fresco conio. Ma forse già qui inconsapevolmente maturava il destino di una resa all’estetica dell’allusività che, come rovescio della medaglia impressa in nome dell’ordine immanente alla stessa materia sonora, recuperava il fascino incantatorio di sonorità non ancora esorcizzate.

    E qui, più che ai nomi chiamati in causa di Strawinsky e Bartók, occorrerà insistere sulla paternità ben più significativa di Varèse, le cui ululanti sirene si fanno risentire in Fluorescences (1962), facendo esplodere l’iridescente materia sonora in uno sconvolto paesaggio neoromantico. Questo è il presupposto necessario per capire il nesso apparentemente inesistente tra gli assaggi sperimentalistici e gli ariosi affreschi corali del Penderecki successivo che, con le leggi dell’ordine universale evocate attraverso le geometrie corali di Kosmogonia (1970), sembra dichiarare programmaticamente il principio a cui ricondurre il suo operare. Non a caso già in Polymorphia la pulsazione panica che arroventa l’addensamento materico delle sonorità degli archi sbocca su un possente accordo di do maggiore, esattamente parallelo al conclamato mi maggiore che conclude la Passione che, come la verticalità armonica dell’accordo perfetto nel finale del Magnificat, pure si staglia come momento trascendentalmente risolutore di ogni tensione.

    Alla luce di questi fatti si spiega perciò il ‘ritorno all’antico’ nelle opere sinfonico-corali di Penderecki, dettato da motivazioni assai affini alle operazioni che già tentarono i romantici (cecilianesimo, ecc.) in recuperi di esperienze storiche privilegiate, rivissute dall’aspirazione universalistica a un ordine immutabile attraverso i tempi e al di là della storia. E se al nostro gusto disincantato parranno accettabili nella loro rigorosità di struttura i gregorianismi dello Stabat Mater (1962) e persino il Dies Irae (1967) nelle sue proporzioni controllate esenti da divagazioni tentatrici, sembreranno nate vecchie tutte le altre opere troppo insistentemente ricalcate su modelli d’epoca, siano esse ricche del fascino inevitabilmente connesso con le esperienze lontane dalla nostra storia occidentale (i fatali presentimenti della liturgia ortodossa di Utrenia, 1970) oppure articolate sulle più familiari strutture drammatiche dell’oratorio barocco che Penderecki mostra di preferire.
    Rifiutando tale obiezione, il musicista ebbe un giorno a dichiarare che si trattava di un falso problema, valendo per lui semmai la regola della chiara esposizione del testo e l’adeguamento della musica allo stesso.
    Ora, sintomaticamente questo fu proprio il principio severamente affermato dalla controriforma nelle disposizioni regolanti la musica liturgica dopo il Concilio di Trento e proprio a questa realtà, con cui ebbe a fare i conti più o meno tutta la musica ecclesiastica degli ultimi tre secoli, resta legato il Penderecki maturo, massime quello del Magnificat (1973-1974) che ripercorre i passaggi obbligati di quel dirigismo culturale ogni qualvolta ritroviamo in perfette omoritmia sottolineate le parole “magnificat”, “Israel”, “gloria”, “misericordia” e in generale l’andamento salmodiante della dizione nei momenti cruciali del testo. Non sfugge infatti all’ascolto la prevedibilità del crescendo corale su “et exultavit spiritus meus” o la cupa fanfara dei tromboni della maledizione in “dispersit superbos”, ossequiente forme retoriche dettate dalle esigenze di edificazione collettiva che la chiesa sempre antepose alle motivazioni artistiche individuali. Non stupisce quindi che, in linea con questo assunto, Penderecki adombri addirittura l’antica frattura tra stilus luxurians e stilus antiquus che, come metafora palestriniana, si fa largo nell’intenso episodio a cappella (“quia respexit”) in geometrie corali di reinvenzione polifonica sulla base ovviamente di acquisizioni più recenti, opposto all’enfasi ‘barocca’ delle parti con orchestra, plasticamente delineate con impiego di innumerevoli soluzioni drammatiche.
    Ciò che questa opera ci sembra acquisire rispetto alle precedenti è una capacità rappresentativa assai più diretta, un patos straripante aperto allo stupore suscitato di fronte al mistero della religione che, grazie alla lugubre e inesorabile scansione di bassi che percorre gran parte dell’opera, è visto come spettacolo terrificante confrontabile con l’Inferno dantesco di lisztiana memoria. Non a caso una delle ultime composizioni di Penderecki (Il risveglio di Giacobbe, 1974), nell’andamento narrativo chiaramente orientato dai riferimenti tematici, sembra inaugurare in piena regola una nuova stagione del poema sinfonico. Alle soglie di un neoromanticismo misticheggiante, tuttavia, nemmeno i fantasmagorici monumenti religiosi del musicista polacco riescono a sfuggire alla condizione inevitabile di ‘cattedrali nel deserto’.