• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Il pianoforte di Musorgskij

    Composti nel 1874, in omaggio alla scomparsa dell’amico Victor Hartmann architetto e pittore, i Quadri di un’esposizione di Musorgskij attestano tanto quanto il capolavoro del Boris Godunov

    la capacità del compositore russo di segnare un passaggio fondamentale nella concezione estetica della musica. Per quanto apparentemente occasionale sia stata la composizione di questo lavoro pianistico e per quanto ben più conosciuta sia la versione orchestrale di Ravel, la sua importanza spicca immediatamente nell’aspetto inconfondibile che essa rivela rispetto non solo alla tradizione pianistica. Un netto distacco dal Romanticismo per quanto concerne le sue dominanti dell’allusività e dell’evasione fantastica trova la propria verifica in un linguaggio scarno, asciutto, radicalmente impegnato a scavalcare una tradizione stilistica per appurare una nuova verità. Limitando l’analisi a certi principî dell’esperienza musorgskiana potremmo essere tratti in inganno dalla possibilità di collocare la sua concezione nazionalistica della musica nell’idea di nazione sviluppata dal Romanticismo e variamente tradotta in musica lungo tutto l’Ottocento. In verità, pur essendo la componente nazionalistica dominante nel pensiero di Musorgski, essa si diversifica sostanzialmente dalle esperienze parallele, soprattutto da quelle condotte dal Gruppo dei Cinque, in due aspetti fondamentali. Il primo riguarda il concetto di tradizione nazionale che i Cinque integrarono puramente e semplicemente nella tradizione occidentale risolvendolo nell’esteriore colorazione di un discorso destinato a rimanere quello dominante, fissato per tutti dal modello romantico tedesco. In questo senso appare pressoché priva di fondamento la polemica dei Cinque contro la scelta deliberatamente «occidentale» di Čajkovskij. La questione dell’identità russa che permette di distinguere la musica di Čajkovskij da quella di un Rimskij-Korsakov è infatti più un problema di quantità che di qualità, un problema di contrassegno misurabile nel numero dei riferimenti stilistici al patrimonio popolare nazionale anziché nell’affermazione di un modello diverso di discorso. E non poteva essere altrimenti date le premesse valide per il Gruppo dei Cinque, la cui idea di nazione rimaneva il riferimento a un’entità astratta non implicante la messa in discussione di una base di pensiero che il cosmopolitismo culturale russo, ereditandola dall’occidente, aveva fatto propria. All’opposto il concetto di nazione in Musorgskij non si risolve in un’idea, ma gli appareva sempre più come coscienza di una realtà allargata alle componenti storiche e sociali, dove il problema dell’identità si pone come scelta. Il concetto di musica nazionale presso i romantici non poteva ammettere questa scelta, intendendolo essi come adeguamento ai principî estetici definiti da una cultura che più che dipendente dall’idea di nazione ne era promotrice. E qui si situa il secondo elemento di distacco di Musorgskij dal Romanticismo. I Cinque intesero sempre l’integrazione del patrimonio popolare alle loro esperienze sinfoniche o operistiche come un processo di elevazione della tradizione nazionale, incapaci di riconoscere a questa un’autonomia estetica e di significati. Le correzioni postume apportate da Rimskij alle partiture di Musorgskij, compresi i Quadri di un’esposizione, corrispondono appunto a questo compito nobilitante, in questo caso assunto nei confronti di un collega ritenuto troppo poco avvertito sul piano del gusto ed eccessivamente condiscendente verso gli aspetti troppo primitivistici della musica popolare. In realtà Musorgskij aveva ormai rotto con il rispetto di un’idea di bellezza che, al di là di classicistici vagheggiamenti, il Romanticismo tramandava come valore assoluto. «La riproduzione artistica della sola bellezza, nel senso materiale del termine – scrisse Musorgskij – è un grosso infantilismo, l’infanzia dell’arte. Scoprire i tratti della natura umana e dei gruppi umani, sondare con ostinatezza questo terreno vergine e conquistarlo, ecco la missione del vero artista».

    Con ciò il musicista era ormai approdato a concetti che gli permisero di attuare un modello inconfondibile di arte realistica soprattutto nel teatro, terreno ovviamente più favorevole a cogliere tutte le implicazioni storiche e sociali della realtà russa del tempo, ma in misura non meno evidente anche nel suo capolavoro pianistico. Anzi in un certo senso proprio l’essenzialità del discorso pianistico, la sua capacità di rifuggire da colori esteriori, consentono di cogliere in nuce il modo diretto in cui la sua musica accoglie procedimenti armonici, lessicali e d’altro genere dalla musica popolare. Ad esempio, se le varie Promenades fra i vari brani del ciclo dedicato ad Hartmann esteriormente significano il peregrinare dell’autore fra i quadri dell’esposizione, la linearità di racconto che la musica sottende (unitamente alla corposa pienezza accordale delle armonie che sembra evocare una liturgia vocale contadina) assicurano a questi intermezzi un andamento epico inconfondibile. Con ciò il pretesto descrittivo sfugge immancabilmente all’occasione e ogni quadro, anziché indugiare sull’aspetto pittoresco della scena (come insegnava la musica a programma del tempo), coglie nell’immagine la profondità di senso di una civiltà che si nutre di fiabe, di misticismo e di disperazione esistenziale. Nella trasposizione del quadro sulla pagina musicale non avviene infatti la semplice riproduzione della figurazione, bensì il manifestarsi di una coscienza che nel riferimento identifica una costante umana, l’attonita visione dell’esistenza di un popolo prostrato sotto il peso di un’opprimente condizione storica, esattamente come nel Boris a cui rimanda direttamente l’affresco finale de La grande porta di Kiev. Se a prima vista la novità di questa musica sembra risiedere nell’asprezza delle armonie e nella durezza dei tratti in cui si articola il discorso («La sua sensibilità armonica è d’una straordinaria originalità [...] quasi ad ogni misura dà l’impressione di cosa mai udita», così scrisse Paul Dukas), il suo profondo aspetto innovatore si manifesta invece nel quadro a cui queste particolarità si riconducono, vale a dire alla destinazione epica di una musica la cui disincantata visione della civiltà popolare russa mise radicalmente in crisi la tradizione romantica.