• Diario d'ascolto
  • 10 Aprile 2015

    Gabriel Fauré: Sonata op. 13

      Carlo Piccardi

    Anche se oggi sappiamo ormai che non è dalla Sonata di Fauré bensì da Saint-Saëns che Proust trovò ispirazione per la celebre ”petite phrase” della Sonata di Vinteuil,

    ci pare significativo ricordare che si sia potuto pensare alla musica del compositore dell’“inexprimable” (Jankelevitch) per immaginare quell’“air national de leur amour” che lo scrittore pose come sottilissima e morbida trama di sentimento tra Swann e Odette.

    L’intermittenza di una nuova realtà di stati d’animo si dà infatti in Fauré già a partire dalla Sonata in la magg. op. 13 per violino e pianoforte, che segnò il suo debutto mondano di compositore il 25 gennaio del 1877 alla Salle Pleyel con successo incondizionato di pubblico ed entusiasticamente salutato da Saint-Saëns sul “Journal de musique”.

    La composizione, che distinguibilmente appartiene alla prima fase del suo stile e proprio per questo, nello snervamento delle passioni che pur prorompono ancora in culmini di tensione indica chiaramente il manifestarsi di una direzionalità che mira ad annullarne l’empito schiudendo orizzonti di ineffabilità tentatrice e consolatoria. Potrà illudere soprattutto nel primo tempo il travolgente corso delle modulazioni che non esitano a raggiungere il loro climax ma che non per questo approdano al sentimento soddisfatto, ché immancabilmente ritrovano il dolce fremito del loro cangiante disegno che cancella i confini tra il riposo appagato e il lieve sussulto del sentimento risvegliato.

    Certo è ancora possibile leggere la Sonata in chiave romantica: l’arco tracciato dalla dinamica obbedisce ancora alla legge ben nota di tensione e distensione. Ma forze nuove e non tanto nascoste stanno in agguato a suggerire una realtà di tutt’altro tipo che, per essere qui appena sfiorata, risulta al massimo della sua allettante suggestività. Fin dall’inizio quindi la musica di Fauré si svela come ingannevole ed innocente gioco a rimpiattino, di aspettative rinviate, di crescendi incalzanti che si risolvono proverbialmente nella montagna che partorisce il topo (Jankelevitch) ad indicare la promessa di un al di là mai svelato completamente. Questa dialettica senza contrasti, risolta al massimo in ammiccamenti colmi di nostalgia, si instaura esemplarmente nell’Andante dipanato sull’arpeggio del pianoforte, dove il vitreo languore delle sonorità svela la messa a punto dello strumento rivelatosi indispensabile alla poetica di Fauré. Qui il violino giunge sintomaticamente a perdere la sua posizione di primo piano, arrendendosi ai limiti dell’impossibile smaterializzazione di cui invece può godere lo strumento principe, sospinto senza timore oltre la barriera del suono corporeo, librato in spazio senza fondo. A questo punto l’arco non può che lasciare la corda in ascolto attonito del compagno, tutt’al più tentando timidamente l’impossibile risposta in eco alla voce lontana del pianoforte. Tale bipolarità rimarrà un dato di fatto permanente nello stile di Fauré, tanto da lasciar apparire perfino in pagine esclusivamente pianistiche una divisione funzionale di parti, con la mano destra intesa come mano della carezza sfiorante, secondo quanto è già stato osservato, e la mano sinistra come contrappeso di precisione e di rigore.

    Ma ulteriori novità sono riservate dall’Allegro vivo con un tema scapigliato, funambolesco e ribelle che già merita attenzione in sé per certo qual gesto di dissociazione cubistica che par prevedere. In realtà il fulmineo tratto nervoso non si lascia percepire quale disegno, ma nella rapidissima e vorticosa scansione si lascia sciogliere in macchie di colore che ne annullano ogni angolosità, secondo un procedimento che ricorda da vicino la tecnica puntillistica di certa pittura impressionistica che dietro lo schermo quasi astratto di un fitto tessuto di punti colorati permette di leggere in profondità una realtà visiva affatto rassicurante. In questo gioco di inganni allusivi continua l’ultimo movimento, Allegro quasi presto, con un tema ondulato dove la funzione di trompe-l’œil è attribuita alle appoggiature e agli spostamenti d’accento che sulla carta paion stravolgere la struttura e che in realtà confezionano morbidezze di disegno che, dietro l’espressione ancora accalorata di questo giovane Fauré, racchiudono il segreto del soffice incanto del suo stile maturo.