• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Arthur Honegger, Sinfonia n. 2 in re

    Arthur Honegger è un autore a cui è difficile trovare una collocazione precisa nella storia della musica moderna.

    Membro del Groupe des Six, ne restò ai margini e se ne distaccò, mancandogli più degli altri quella verve parigina che permise al gruppo la rottura degli schemi retorici di una stanca tradizione. Incamminatosi poi verso traguardi ”oggettivistici”, non si lasciò mai assimilare definitivamente al “neoclassicismo” e al “neo-oggettivismo” di scuola. La sua posizione risultò sempre in fondo assai eclettica, lasciando trasparire la continuità di certi valori e di certe funzioni tradizionali. Il suo approccio alla sinfonia non ha nulla di fondamentalmente problematico, né nel senso di denotare l’alto grado raggiunto da una crisi formale né nel senso di dimostrare la possibilità di una nuova poetica in questo campo. Il suo atteggiamento di fondo rimane, tutto sommato, assai candido e scevro di pregiudizi, accogliendo e promuovendo innovazioni più o meno ardite, senza scuotere le strutture al punto da metterle in crisi.

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    La Sinfonia n. 2 rappresenta in modo eloquente questo suo atteggiamento di fondo, ancora particolarmente sensibile a motivazioni d’ordine espressivo di tipo individualistico. Composta su commissione di Paul Sacher per festeggiare il decimo anniversario dell’Orchestra da camera di Basilea, l’opera fu scritta nel 1941 sotto l’impressione esasperante dell’occupazione della Francia e di Parigi da parte dei nazisti. Il carattere di lamento che traspare da ogni piega del tessuto sinfonico estremamente concentrato della composizione rivela il valore di testimonianza di cose vissute che l’autore ha lasciato emergere senza porsi eccessivi interrogativi circa la possibilità di conciliare tale aspetto con l’impostazione rigorosamente formale del suo linguaggio: “Se quest’opera esprime o fa provare delle emozioni, ciò vuol dire che queste si sono presentate del tutto spontaneamente, poiché io non esprimo il mio pensiero se non in musica e forse senza esserne del tutto cosciente”. Il risultato di questa immediatezza ha avuto conseguenze precise sulla scrittura di per sé già definita per orchestra d’archi, fornendo un saggio ragguardevole del modo di superare l’impasse rappresentato dal tipico trattamento “neoclassico” degli archi. Se esiste infatti uno stile cristallizzatosi al suo nascere, questo si ritrova facilmente nel repertorio per orchestra d’archi a cui molti compositori si applicarono a partire dagli anni venti. Né Bartok né Strawinsky, per citare i più eminenti, sfuggirono ai passaggi obbligati, ritmici e contrappuntistici soprattutto, che l’organizzazione dell’uniforme materiale timbrico sembrava imporre. In ogni caso, proprio in questa particolare produzione si possono ritrovare i momenti più spiccatamente “oggettivi” di una estetica musicale che mirava a spogliarsi perfino delle più recondite motivazioni d’espressione individuale. L’esempio di Honegger rompe la regola tentando un’insperata conciliazione di valori espressivi con un linguaggio che anche in questo contesto riesce a mantenere tutta la sua forza di rigorosa e concisa impostazione formale.

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    Ripensando i principî contrappuntistici non in termini accademici bensì cogliendo l’essenzialità di un principio, la composizione si apre su un tema iterato della viola che si complica fino a raggiungere una tensione spasmodica, che riesce a farsi rappresentativa di uno stato d’intenso sentire senza mettere in opera alcun mezzo retorico. L’ossessiva motoricità del ritmo, che qui fa la sua apparizione come altrove in qualsiasi pagina per orchestra d’archi dell’epoca viene piegata alla stessa esigenza senza provocare nessun squilibrio formale. Allo scopo Honegger non rinuncia a far “cantare” le sue parti, come dimostrano mirabilmente i pregevoli momenti solistici del secondo tempo della composizione. Il terzo tempo ribadisce l’assunto con l’intervento della tromba ad esporre un corale in spoglia solennità e riverenza.