La raccolta di musica monteverdiana, pubblicata da Riccardo Amadino in Venezia nel 1610, è di notevole importanza storica da qualsiasi aspetto la si voglia considerare. L’apparizione abbinata del Vespro e della Messa a sei voci “In illo tempore”, oltre alla presentazione di due opere prestigiose, apre una prospettiva di concezioni artistiche nuove, determinate appunto dalla coesistenza di composizioni tanto diverse uscite dalla mente e dalle mani dello stesso autore.
Da sempre la storia dell’opera si intreccia con la storia del divismo. Dal momento in cui l’opera intorno alla metà del Seicento diventa un chiaro fatto impresariale, dove le esigenze artistiche si sposano alle necessità commerciali, l’aspetto divistico legato agli interpreti tende a predominare sull’affermazione degli intrinseci valori estetici.
Quando si pone mente a Beethoven compositore di sinfonie non si valuta mai abbastanza il fatto che le prime otto furono scritte nell’arco di dodici anni (tra il 1800 e il 1812), mentre l’ultima da sola, oltre ai due effettivi di stesura compositiva (1822-24), copre altri quattro anni e mezzo di attiva gestazione.
A testimoniare fino a che punto la trascrizione di un’opera musicale possa prendere il sopravvento sull’originale sta la celebre orchestrazione di Ravel dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij.
La cosiddetta Zeitoper (opera d’attualità) configura un genere coltivato nei teatri di Germania tra il 1924 e il 1931, così denominato in quanto si distingueva per la materia tratta dagli avvenimenti del tempo e per l’integrazione delle espressioni musicali allora correnti (il jazz, la musica da ballo, ecc.).
Tutti coloro che si sono trovati nella condizione di scrivere su Hector Berlioz, chi più chi meno, hanno manifestato un certo imbarazzo nel definire la situazione del musicista.
Tutti sanno di quale linfa si nutra il linguaggio di Bach, indissociabile dal principio contrappuntistico.
Anche le opere minori possono servire a illuminare la poetica di un artista. Nel caso di Schubert tali opere potrebbero essere quelle teatrali, assommanti a ben diciassette titoli, votati all’epoca sua come oggi al nullo o poco successo, benché essi custodiscano momenti di alta ispirazione.
Il ruolo assunto da Herbert von Karajan (1908-1989) a partire dall’ultimo dopoguerra fu unico, quello del direttore d’orchestra per eccellenza al di fuori del tempo, facente parte di un olimpo, al di sopra della realtà.
Da quanto nel 1607 Agostino Agazzari, considerando il grado di trasparenza polifonica della Missa Papae Marcelli, fissò il luogo comune di Palestrina salvatore della musica liturgica a più voci di fronte al tentativo del Concilio di Trento di restaurare l’austera monodia, l’alone leggendario sorto intorno all’aneddotica scoraggiò per molto tempo l’indagine su una vicenda politico-culturale fondamentale sia come rilevamento della lacerazione estetica inferta al corpo dell’espressione musicale cinquecentesca richiamata all’impassibilità di un ordine esaltato nel suo valore statico, sia come manifestazione paradigmatica di un dirigismo la cui severità trova paralleli solo in epoca più recente, nella condizione totalitaria di società rigidamente organizzate.